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Riflessioni di antropologia e archeologia biblica sul libro del cardinale Silvano Piovanelli Ho scoperto il segreto. Appunti sull’Eucaristia.

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el corso dell’anno dedicato da Giovanni Paolo ii all’Eucare-stia, nasceva (2005) un piccolo libro di riflessioni costituito, come dice il suo autore, il cardinale Silvano Piovanelli, ar-civescovo emerito di Firenze, da una raccolta di appunti e annota-zioni, spesso di carattere anche personale, che scaturiscono dalla sua gratitudine a Dio per il dono del sacerdozio ministeriale che ha dato senso e forma a tutta la sua vita.

Eucaristia, Todah, rendimento di grazia, cioè “azione di ringrazia-mento” (dal greco bene-fare), così come Euloghia, la benedizione (dal greco bene-dire), cioè il pronunciare qualche pur semplice parola d’amore che trabocca spontanea dal cuore, è la parola ebraica berakah (al plurale berakòt).

Ho voluto prendere lo spunto dal terzo capitolo, dedicato appunto al binomio Eucaristia-Berakah, per tentare di sviluppare, in modo estremamente conciso, alcuni aspetti di antropologia culturale e di archeologia biblica che hanno segnato il mio cammino di fede, so-prattutto calpestando quelle pietre della Terrasanta dove ha vissuto Nostro Signore.

L’importanza della comunione di mensa nel ministero di Gesù è stata riconosciuta anche da studi recenti. È un dato ovvio della tradizione evangelica che gran parte del ministero di Gesù si svolse a tavola, sia come ospite altrui (Mc 2,15-16; 14,3; Lc 7,36; 10,39; 11,37; 14,1; 19,5-7), sia come colui che riceveva ospiti (Lc 15,2; Mc 14,22-23; 6,41; Lc 24,30-31). L’ospitalità che si esprimeva nella condivisione dei pasti era

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dunque, in Gesù, un dato notorio, così come l’ascetismo di san Giovan-ni Battista e di altri gruppi religiosi, per esempio gli EsseGiovan-ni di Qumran.

«Ecco un mangione e un beone» (Mt 11,9; Lc 7,34). Il modo migliore di considerare i racconti concernenti i pasti in luoghi deserti (Mc 6,30-44) e l’Ultima Cena è collocarli in questo sfondo; come è pure da considerare in questo stesso sfondo la richiesta che la folla rivolgeva a Gesù, in modo così pressante da non avere neppure il tempo di mangiare (Mc 3,20; 6,31). È possibile, dunque, che gran parte dell’in-segnamento di Gesù, di cui rimase memoria, cominciasse proprio come conversazione familiare a tavola (Mc 2,17; 14,6-9).

Particolare è l’ampiezza e il risalto della prassi di mensa che nella tradizione giudaica diviene motivo centrale di controversie. Il fatto che egli mangiasse con pubblicani e prostitute era motivo di scandalo anche per il suo disattendere i rituali di purità.

Riassumendo, potremmo parlare di coerenza tra l’insegnamento di Gesù e il suo stile di vita. Gesù evidentemente considerava l’amicizia che si veniva a creare nel mangiare a tavola come espressione di una nuova vita sotto il governo di Dio e che egli cercava di vivere anche nelle proprie relazioni sociali, in modo coerente a questa visione del Regno che si esprimeva nella comunione di mensa.

Ma veniamo all’Ultima Cena che, secondo Luca (At 1,13), avviene nella «stanza al piano superiore» di un luogo di ritrovo non meglio identificato. In un suo scritto Origene pare suggerire che Gesù consu-mò la Cena con i discepoli proprio sul monte Sion. Esaminiamo però la diversa collocazione cronologica di Giovanni rispetto ai sinottici:

per Giovanni l’Ultima Cena avviene di martedì e la morte il vener-dì 15 di Nissan, in coincidenza con l’inizio dei riti di immolazione degli agnelli per la Pasqua. È probabile che Giovanni utilizzasse il calendario in uso presso gli Esseni di Qumran, sul Mar Morto, cioè il calendario solare, diversamente dai Farisei che a Gerusalemme usa-vano quello lunare.

L’istituzione della “Cena del Signore” si inserisce organicamente nella festa del Sèder (la solennità domestica ebraica della notte di Pasqua) e deve essere vista come l’interpretazione individuale di questo ritua-le da parte di Gesù. L’eritua-lemento particolare consiste nel fatto che in questo caso si opera un rinnovamento dell’antichissima tradizione, il cui motivo conduttore è lo Zikkaròn, il ricordo. Il ricordo dell’evento salvifico di Jhwh (Jahweh), occasione dell’Esodo dall’Egitto, si sposta nella memoria del Signore (Lc 22,19), cioè l’intervento salvifico del suo stesso sacrificio che assume la sua più completa valenza messianica.

Anche la celebrazione del Sèder al tempo del Secondo Tempio ricorda

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da vicino il Simposio platonico fornendoci così un esempio di come forme greche e contenuti ebraici potessero fondersi; fenomeno questo che emerge più evidente nella più tarda Eucarestia cristiana.

Esaminiamo lo svolgimento della cena pasquale ebraica. Primo mo-mento fondamentale: si consuma l’antipasto in piedi in un locale che non sarà quello dove si effettuerà il pranzo vero e proprio. Questo antipasto è costituito da erbe amare condite con una salsa composta da mele tritate, noci, spezie e farina. Si ottiene così un sugo color rosso mattone che, insieme alle erbe amare e alla frutta sciolta e macerata nell’aceto, dà inizio al Sèder. Seguono le berakot che nel corso della cena sono quattro, corrispondenti alle quattro coppe di vino da bere;

il che conferisce euforia e gioia alla Pasqua.

Al paragrafo 13 del capitolo che stiamo commentando, il cardinale Piovanelli annota: «All’inizio del pasto, ciascuno a turno, prendeva una coppa di vino e pregava “Sii benedetto, Signore nostro Dio, Re dei secoli che ci hai dato questo frutto della vite”». È il primo calice di vino. In proposito esiste un Targumin (cioè un racconto tratto dal Targum, la traduzione aramaica dell’antico ebraico) che narra la festa degli azzimi e le prescrizioni per la Pasqua (Ez 12,1-28) ed è detto Il poema delle quattro notti che permette di rapportarci ai quattro calici di vino, simbolo delle quattro notti della salvezza. Queste sono:

1) l’inizio della creazione;

2) il sacrificio di Abramo;

3) l’Esodo;

4) la venuta del Messia.

Quando viene commemorato l’Esodo a conclusione dell’antipasto consumato in piedi, si effettua la lavanda della mano destra e si beve il secondo calice di vino.

Ci si sposta nell’altra stanza, solitamente posta a un piano superio-re, per consumare il pasto in posizione sdraiata quale simbolo della ritrovata libertà.

Il pasto vero e proprio ha inizio con la lettura dell’Haggadah, cioè il racconto pasquale con cui il capofamiglia risponde alla domanda del figlio più giovane che chiede: «Perché abba [babbo] facciamo questo?»

(Dt 26,5-9). Il padre, così, inizia a narrare: «Mio padre era un arameo errante…». Effettua poi la frazione del pane azzimo che passa a ogni membro della famiglia e si consuma l’agnello con la bevuta della terza coppa di vino. Infine, dopo la cena, si beve la quarta e ultima coppa.

Si possono evidenziare subito le poche analogie della Cena del Signo-re con la Pasqua ebraica. Prima di tutto è noto che siamo alla vigilia della Parasheve, cioè l’antivigilia della Pasqua che quell’anno (anno

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30) cadeva in un giorno importante, il sabato. La Cena del Signore è il martedì o il giovedì; infatti, è solo nel giorno della Parasheve (venerdì) che si iniziava la preparazione degli agnelli. Quindi il Sèder del Signo-re fu solo vegetariano, cioè Gesù muoSigno-re sul Calvario proprio nello stesso momento in cui sul monte Moriah si immolano gli agnelli.

Veniamo, per concludere, alla ricerca del luogo dell’Ultima Cena.

Il racconto della preparazione del banchetto pasquale (Mt 26,17-19;

Mc 14,12-17; Lc 22,7-14) contiene indizi nascosti, il fatto che Gesù l’abbia celebrato in un luogo esseno. Nel racconto Gesù manda i propri discepoli in città, dove avrebbero incontrato un uomo che portava una brocca d’acqua e che essi dovevano seguire sino al luogo della cena. Gli studiosi ritengono di identificare questo ignoto perso-naggio come un monaco esseno che portava l’acqua per la purificazione rituale. In effetti l’uso di andare a raccogliere l’acqua alla fonte (la sorgente Silo è proprio lì sotto!) era riservato alle sole donne. Quindi, i preparativi concernenti il reperimento della stanza al piano superiore non devono far pensare a una preveggenza miracolosa, ma mostrano dei preparativi di un progetto familiare quotidiano, quando Gesù aveva in mente di celebrare la Pasqua secondo la legge, malgrado la situazione di pericolo sempre maggiore e la minaccia di arresto che incombeva su di lui a Gerusalemme. (Gv 18,1).

Nella descrizione dello spostamento di Gesù dopo la cena, dal monte Sion all’orto del Getsemani oltre il Cedron, ai piedi del Monte degli Ulivi, Giuda impersona il mondo delle tenebre che guida le forze del male e Gesù accetterà di bere anche questo amaro calice.

L’immagine del giardino richiama simbolicamente la visione dell’E-den quale luogo di inizio e fine della storia della salvezza. Il giardino dell’Eden, infatti, è il luogo dove avvenne la prima colpa dell’uomo, mentre il giardino del Getsemani è dove avrà inizio il riscatto di quella prima colpa, per giungere poi all’ultimo giardino, dove si troverà divelta la tomba del Risorto, scambiato dalla Maddalena per il giar-diniere, con il bellissimo dialogo che sembra parafrasare quello dei due giovani amanti, ancora una volta in un altro giardino, il giardino del Cantico dei Cantici.

Conclude Piovanelli: «L’Eucarestia viene da lontano! Dalla Berakah ebraica che Gesù ha celebrato tante volte, da quando è diventato, a dodici anni, “figlio del precetto” sino all’Ultima Cena allorché, con poche parole ha trasformato la Berakah ebraica nell’Eucarestia cristiana».

Ci sarebbe anche un altro capitolo, il settimo, dedicato alla santissima Trinità, che proprio per i miei interessi artistici mi affascina e intriga.

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È quello nel quale l’autore traccia una sorta di parallelo fra due grandi artisti del xv secolo: il primo è un monaco russo, Andrej Rublëv, che dipinse la sua opera nel monastero della Santis-sima Trinità; il secondo è Masaccio, che realizzò la sua Trinità a Firenze nella basilica di Santa Maria Novella.

Il tema suggerito meriterebbe di per sé un trattamento approfondito. Basterà ricordare come in queste due opere vi si percepisca, in egual misura, un moto incessante e una sovrumana quiete.

Concluderò allora con una riflessione di quel genio dell’umanità che rispon-de al nome di sant’Agostino, sulla

pre-senza trinitaria nell’uomo: analizzare la struttura dell’anima umana significa cogliere le tracce dell’impronta divina.

Essere, conoscere, volere, cui corrispondono memoria, intelligenza, vo-lontà; e ancora Padre, Figlio e Spirito Santo, che è come dire l’Amante, l’Amato, l’Amore.

Francesco Bandini, accademico d’onore delle Arti del Disegno

Vincenzo Cabianca, Al sole, 1866, Olio su tela, cm 75x90, Bologna, collezione privata

julie: nella nouvelle héloïse