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… O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI

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O

RIENTE

,O

CCIDENTEEDINTORNI

ScrittiinonorediAdolfoTamburello

A cura di

FRANCOMAZZEI

PATRIZIACARIOTI

U.N.O.

Napoli - 2010

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Dipartimento di Studi Asiatici

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STITUTO

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Napoli - 2010 ISBN 978-88-95044-66-8

Volume IV Volume IV

Scritti in onore di Adolfo Tamburello

A cura di

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Scritti in onore di Adolfo Tamburello

A cura di

F

RANCO

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ATRIZIA

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ARIOTI

Volume IV

Napoli - 2010

(4)

Segreteria di Redazione Ubaldo Iaccarino Francesco Vescera

Hanno inoltre collaborato Alessia Capodanno

Manuela Capriati Rosa Conte Noemi Lanna Letizia Ragonesi

Traduzioni dal giapponese Manuela Capriati

Consulenza informatica Francesco Franzese

© IL TORCOLIERE – Officine Grafico-Editoriali d’Ateneo UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE ISBN 978-88-95044-66-8

(5)

I

NDICE

V

OLUME

IV

Indice Volume IV p. i

DANIELE MAGGI

Astronomia indiana e datazione del Veda: una polemica fra fine ’800 e

inizio ’900 p. 1501

AMEDEO MAIELLO

L’evoluzione dell’Islam in Bangladesh: note e discussione p. 1513 RICCARDO MAISANO

Due note di Ernesto Buonaiuti su Parousia ed Epiphaneia p. 1539 PIETRO MANDER –PALMIRO NOTIZIA

Osservazioni in margine ad un ben noto archivio di allevatori di

bestiame da Æirsu p. 1547

ANDREA MANZO

Commercio e potere nell’Africa nordorientale antica: una prospettiva

nubiana p. 1559

UGO MARAZZI

Proverbi e indovinelli Shor p. 1575

GIULIANA MARINIELLO

Angelo De Gubernatis comparatista: Shakespeare e il teatro indiano p. 1579 MATILDE MASTRANGELO

Le rappresentazioni di kōdan nel Giappone di oggi p. 1585 ANDREA MAURIZI

Personaggi e luoghi dello Hamamatsu chūnagon monogatari p. 1603 FRANCO MAZZEI

Ripristinare la “Via della seta” p. 1617

MARCO MECCARELLI

A proposito di Lu Shoukun: alcune considerazioni sulla pittura cinese degli anni ’60, tra il recupero della tradizione e la ricerca di

internazionalismo nell’arte p. 1631

SABRINA MEROLLA

Evanescenze d’esilio p. 1647

CAMILLA MIGLIO

Memoria, Scrittura, Musica “Impura”. I Lieder von einer Insel di

Ingeborg Bachmann p. 1669

MARIA CHIARA MIGLIORE

Immagini femminili nel Nihon ryōiki p. 1697

(6)

Il modello di una “società armoniosa” in Cina: le radici confuciane p. 1711 CORRADO MOLTENI

Le riforme strutturali: verso un nuovo modello socio-economico? p. 1725 ROSANNA MORABITO

Stražilovo di Miloš Crnjanski p. 1735

GIAMPIERO MORETTI

Ágalma p. 1751

PAOLA MORTARI VERGARA CAFFARELLI

Il Tempio della Croce sul Fangshan presso Pechino p. 1755 LUIGI MUNZI

Note testuali all’Adbreviatio Artis Grammaticae di Orso di Benevento e

all’Ars Bernensis p. 1777

ARTURO NAPOLETANO

Eraclito e l’Oriente p. 1785

UMBERTO NARDELLA

Un pakistano a Venezia p. 1793

CAROLINA NEGRI

Una storia d’amore tra fantasia e realtà: l’Izumi Shikibu nikki p. 1817 COSTANTINO NIKAS

Gli alunni Greci del Collegio Asiatico di Napoli p. 1827 MARIA TERESA ORSI

Lo shōjo manga: andante con brio p. 1849

ANGELA PALERMO

Il Giappone a Caserta: la scuola di polizia e il jūdō p. 1861 SHYAM MANOHAR PANDEY

Santi e peccatori nel Rāmāyaa di Tulasīdāsa p. 1871 DANIELE PETRELLA

L’influenza dell’arte buddhista Tang nella statuaria dello Hōryūji p. 1881 MARIO PETRONE

L’adulterio nella narrativa francese del XIX secolo: Madame Bovary di

Flaubert e Le Rendez-vous di Maupassant p. 1907

VALERIA PETRONE

Hai Nan: una scrittrice “ai margini” p. 1913

MASSIMO PETTORINO

Verso un parlato globalizzato: il tempo sta cambiando p. 1931 ANGELO MICHELE PIEMONTESE

La semente nella diplomazia tra Regno di Sardegna e Persia p. 1945 ROSANNA PIRELLI

Le stele del Medio Regno egiziano e il cosiddetto “Silhouette style” p. 1967

(7)

BARTOLOMEO PIRONE

Alessandro Magno nella storiografia arabo-cristiana p. 1987 ANDREA PISANI MASSAMORMILE

Banche e cultura p. 2013

M.CRISTINA PISCIOTTA

L’Opera di Pechino rivisitata dal teatro sperimentale contemporaneo p. 2025 DIEGO POLI

Per comprendere la “terra incognita”: strategie comunicative della

Compagnia di Gesù in Estremo Oriente p. 2041

ANGELO RAFFAELE PUPINO

Parere sul “Leonardo” p. 2057

(8)
(9)

A

STRONOMIA INDIANA E DATAZIONE DEL

V

EDA

:

UNA POLEMICA FRA FINE

’800

E INIZIO

’900

Daniele Maggi

A History of ancient Sanskrit literature di Max Müller1 fissò per la letteratura vedica una datazione che incontrò largo favore in Europa – e tutt’oggi spesso ripresa, anche se talora senza consapevolezza dei suoi aspetti ipotetici –; il favore con cui fu accolta era certamente dovuto anche alla prudenza che la contraddistingueva rispetto all’apparente inverisimiglianza delle cronologie indiane, che facevano risalire il Veda all’inizio del Kaliyuga, il quale a sua volta sarebbe iniziato nell’anno corrispondente al 3102 a.C. Il metodo che seguì Max Müller fu di cercare in primo luogo un aggancio a una tradizione storica fidata e quindi, su tale base, ricostruire una datazione approssimativa per la letteratura vedica nel suo complesso; così, poiché v’è una “ostinata tradizione” 2 (Kathāsaritsāgara, Rājataraṅginī) secondo cui Pāṇini e Kātyāyana, autore dei Vārttika alla grammatica del primo e evidentemente considerato anche suo contemporaneo da quella tradizione,3 sono contemporanei di un re Nanda e di Candragupta che successe all’ultimo Nanda al tempo della spedizione di Alessandro Magno, si recupera con ciò una data per il periodo vedico, se il Kātyāyana dei Vārttika è, come è secondo Müller, lo stesso che la tradizione dà come autore di un Prātiśākhya (oltre che della Ṛgvedasarvānukramaṇī e di altre opere del vedismo tardivo):4

se collochiamo Kâtyâyana nella seconda metà del quarto secolo, Âśvalâyana, il predecessore di Kâtyâyana5 verso il 350, e Śaunaka, il maestro di Âśvalâyana, verso il 400; e se poi, considerando gli scrittori di Sûtra anteriori a Śaunaka e posteriori a Kâtyâyana, estendiamo i limiti del periodo di letteratura Sautra dal 600 al 200, siamo ancora in grado di dire che non v’è alcun fatto nella storia della letteratura che interferirebbe con tale ordinamento.6

Procedendo poi all’indietro e congetturando sulla base dell’estensione dei corpora letterari, del ritmo di “sviluppo della mente umana” ecc. Müller assegnò un minimo di 200 anni a ognuno dei tre periodi anteriori a quello sautra, collocando così i due periodi in cui si dividerebbe il corpus più antico, la

1 Müller, (1859) 1860.

2 L’espressione è di Horsch, 1966, p. 392.

3 A cui aderiva Müller; secondo invece Horsch, 1966, p. 395 “Kātyāyana visse qualche generazione dopo Pāṇini”.

4 Müller, (1859) 1860, p. 138.

5Predecessore secondo la lista di guru fornita da Ṣaḍguruśiṣya, commentatore della Ṛgvedasarvānukramaṇī di Kātyāyana (XII sec. d.C.), cfr. Müller, (1859) 1860, p. 230 ss.

6 Ivi, p. 244. Trad. dall’orig. inglese; sono mantenute le trascrizioni dei nomi dell’originale.

(10)

Ṛgvedasaṃhitā7 – e ammettendo sempre il rischio di una datazione troppo bassa piuttosto che troppo alta – fra il 1200 e l’800.

Se l’ipotesi dell’identificazione fra il Kātyāyana dei Vārttika e il Kātyāyana del Prātiśākhya è stata ripresa in tempi più recenti,8 resta l’assoluta vanità del tentativo di tradurre fasi letterarie in estensioni cronologiche; già Renou, riferendosi a Müller, osservò che il suo tentativo di cronologia, pur non essendo il più

“avventuroso”

aveva il solo torto […] di attribuire uno sviluppo progressivo a movimenti che possono essere simultanei e, a dire il vero, di porre un problema in termini in cui, in India, non si pone.9

Il punto è che il livello cronologico più alto raggiungibile incrociando tradizioni storiografiche resta troppo basso rispetto all’estensione della letteratura vedica, che sfugge in grandissima parte al di sopra di quel livello raggiungibile – per una parte tale, che anche la fissazione di un terminus ante quem riuscirebbe di scarso significato10 –; ma poco più di trenta anni dopo la History di Müller, Hermann Jakobi tentò il colpo di situare l’aggancio cronologico, sia pur larghissimamente approssimativo, all’interno della RVS stessa, servendosi di un argomento straordinario, la precessione degli equinozi.

L’impiego di calcoli astronomici per determinare l’età del Veda aveva invero dei precedenti: nel 1801, dunque addirittura all’alba della filologia indiana, già Colebrooke11 aveva cercato di desumere una data da un passo estratto dalla “copia

7 D’ora in poi siglata RVS.

8 Thieme, 1937/1938; cfr. Renou, 1956, p. 54, n. 1 (“Thieme […] ha dimostrato l’identità fra il vārttika- kāra e l’autore del Prātiśākhya”), che non esclude neppure l’ulteriore identità con l’autore del Sūtra;

Staal, 1982, pp. 14, 22 s.

9 Renou, 1928, p. 20. Trad. dall’orig. francese.

10 La possibilità di un aggancio cronologico più alto, al livello delle Upaniṣad antiche, è stata ampiamente argomentata da Horsch, 1966, sulla base di una sincronia fra il Buddha, Pāṇini (di non molto posteriore al Buddha, secondo Horsch sulla scorta di Agrawala, poiché registra per la prima volta termini caratteristici del buddhismo; cfr. tuttavia Mylius, 1970, pp. 83-84) e lo Yājñavalkya che compare come protagonista di Bṛhadāraṇyakopaniṣad III-IV (all’incirca contemporaneo di Pāṇini secondo l’informazione desunta, grazie a un’intuizione interpretativa già di Weber ripresa su basi più salde da Horsch, dal vārttika 1 a Aṣṭādhyāyī IV, 3, 105): lo Yājñavalkya più importante fra i diversi maestri vedici che si celano sotto lo stesso nome si collocherebbe così, insieme con Pāṇini, alla metà del V sec. a.C. (la cronologia assunta per buona da Horsch per il nirvaṇa del Buddha è la cosiddetta cronologia lunga; assumendo, viceversa, quella breve, con la sincronizzazione sostenuta da Horsch collimerebbe anche la tradizione che fa Pāṇini e Kātyāyana a loro volta contemporanei di un re Nanda e di Candragupta e che Horsch deve invece accogliere solo per quanto riguarda Kātyāyana, distanziandolo di “qualche generazione”

rispetto a Pāṇini, cfr. qui sopra, n. 3. Per la questione della cronologia del Buddha ci limitiamo qui a ricordare che uno dei suoi maggiori e più recenti studiosi, Heinz Bechert, è stato, dopo Horsch, sostenitore della cronologia breve, cfr. Bechert, 1982; idem, 1986, con argomenti che sono stati tuttavia contestati da Mylius, 1997; cfr. inoltre, ancora più recentemente, Norman, 1999; Yamazaki, 2002). Anche con questo, tuttavia, continuano a restare cronologicamente ‘scoperti’ i Brāhmaṇa e le Saṃhitā, per una datazione dei quali Horsch finisce con il procedere all’indietro congetturando non dissimilmente da Müller – e arrivando del resto anche a date analoghe.

11 Colebrooke, 1801, pp. 200-202 (nota B., a cui si rinvia da p. 169).

(11)

Astronomia indiana e datazione del Veda 1503 di ÁPASTAMBHA dello Yajurvéda usualmente denominato Yajush bianco” – menzionato cursoriamente dapprima da Jones – in cui sono enumerati i nomi dei mesi per ognuna delle sei stagioni: i mesi trarrebbero i loro nomi dalle costellazioni con cui la luna piena si trova in congiunzione e le indicazioni così ricavabili sarebbero sostanzialmente in accordo con un dato sulla posizione dei coluri non vedico ma ritenuto non troppo distante cronologicamente. Colebrooke, il cui intento era in realtà quello di abbassare la datazione che faceva risalire il Veda all’inizio del Kaliyuga, giudicò peraltro egli stesso il suo argomento “vago e congetturale” e Müller decretò che “nel presente stato degli studi sanscriti non dovesse essere più citato”. 12 Un altro tentativo, di Bentley, 13 si basava sull’etimologia del nome di una costellazione, víśākhā-, di cui il minimo che si può dire è che non permette nessun aggancio all’epoca di composizione dei testi, e su leggende tarde, nientemeno che purāṇ iche, sui nomi dei pianeti; è tuttavia interessante il fatto che Bentley, sulla via dell’etimologia di víśākhā-, giunse a fissare l’equinozio di primavera nelle Kṛttikā, proprio quella costellazione, cioè, che, come non sfuggì a Müller, 14 occupa nelle liste vediche, fin da Atharvavedasaṃhitā (Śaunaka) XIX, 7, 2 e Taittirīyasaṃhitā IV, 4, 10, 1, il primo posto.

Müller negò, invero, alla sua osservazione alcun valore probativo, ma è forse proprio movendo da questa che, pur senza citarla, Jacobi prese lo spunto per l’idea, come si vedrà, in cui Oldenberg acutamente riconobbe la pietra angolare di tutta la sua costruzione.

La questione, tuttavia, che per un certo tempo tenne banco sopra tutte nel periodo precedente agli articoli di Jacobi e alla polemica che suscitarono fu quella relativa al dato sostiziale offerto dal Jyotiṣavedāṅga, smilzo trattatello di astronomia appartenente alla letteratura vedica tardiva e tramandato in una recensione rigvedica e una yajurvedica. Si dibatté a lungo se, sulla base del Jyotiṣavedāṅga, si dovesse datare l’età del Veda al 1181 o al 1391 a.C., come sostenne Colebrooke nel 1805,15 ma in realtà si sarebbe trattato di far scivolare prima dell’una o dell’altra data la massa della letteratura vedica, di cui il Jyotiṣavedāṅga non è che uno degli ultimi prodotti; e se tale conseguenza non fu chiara agli occhi di tutti prima che la History di Müller potesse offrire un comodo, se pur schematico, quadro della relativa antichità delle opere, Müller stesso, preoccupato innanzitutto di una cronologia prudente – come già Colebrooke –, si incaricò di bollare per vana tutta la questione, sollevando due obiezioni principali: 16 1) “questo trattato [il Jyotiṣavedāṅga] fu scritto non per fini astronomici, ma per dichiarare i principi in base ai quali fissare ore, giorni e stagioni degli antichi sacrifici”; dunque il dato sostiziale da esso offerto, lungi da essere il risultato di un’osservazione contemporanea, rappresenterà più probabilmente la conservazione di una memoria antica, dovuta alla fissità delle tradizioni liturgiche. 2) L’accuratezza delle

12 Rig-veda-sanhita, 1862, p. XIX.

13 Bentley, 1823.

14 Rig-veda-sanhita, 1862, pp. XXXI-XXXII. L’indicazione data da Müller “Atharva-veda (I. 19, 7)”

sembra un errore materiale.

15 Colebrooke, 1805, pp. 106-110, partic. 109-110.

16 Rig-veda-sanhita, 1862, pp. XIX ss.

(12)

osservazioni astronomiche indiane non è affatto attendibile, neppure in un periodo più tardo in cui l’astronomia si ispirò a modelli greci, tanto meno dunque nel periodo più antico. In effetti l’inattendibilità scientifica del Jyotiṣavedāṅga è stata più volte sottolineata, fra gli altri da Oldenberg che ha fatto notare come esso sia costruito sulla base di un sistema determinato a priori entro il quale sono costretti anche i dati che ci si attenderebbe provenire da osservazioni precise.17

Un caso singolare volle che il primo articolo di Jacobi sulla possibilità di determinare l’età della RVS in base alla precessione degli equinozi18 fosse di poco preceduto, in quello stesso 1893, da un libro di un dotto indiano, Bāl Gaṅgādhar Tilak, che affrontava lo stesso argomento con analogo metodo e risultati19 – indipendentemente dal quale, tuttavia, Jacobi era giunto alle sue conclusioni.20 Da subito si scatenò sull’argomento un vero vespaio, che vide coinvolti per diversi anni i migliori nomi dell’indianistica – e astronomi –, fra i quali non solo Oldenberg, che s’impegnò puntigliosamente a ribattere rigo per rigo a ogni pagina stampata da Jacobi, ma anche, per ricordarne qui in particolare un altro, Whitney.21 È chiaro che qui non si trattava di un testo in ogni caso appartenente al rango della letteratura tecnica, come il Jyotiṣavedāṅga, ma della RVS, di un testo sacro, anzi, del testo più sacro dell’India, l’attribuzione al quale della capacità di documentare osservazioni ‘scientifiche’,22 insieme con la sua assegnazione a una altissima antichità, produceva fatalmente una miscela esoterica:23 la RVS come le piramidi egiziane. Quel che veniva messo, intenzionalmente o no, in gioco era, insomma, la natura stessa della RVS, dell’opera cioè che continuava a essere la vedette della letteratura sanscrita e una delle vedettes delle letterature orientali in generale – la seconda metà dell’’800 è stata l’epoca d’oro della filologia rigvedica – e che ora si trovava a passare attraverso una temperie della sensibilità europea attratta, una volta esaurito lo slancio positivistico, dalle sirene del simbolismo e dal richiamo dell’“aldilà delle cose”. V’erano poi altre implicazioni, emerse alla luce in

17 Oldenberg, 1894, p. 643=657, n. 4. Il dato del Jyotiṣavedāṅga è ancora ripreso da uno studioso indiano contemporaneo, in un contesto però di prudenza e consapevolezza e nel quadro di una posizione che assegna comunque sia alla RVS un periodo di composizione che va dal 1770 (con un’ubicazione geografica nell’attuale Afghanistan sudoccidentale) al 900, cfr. Kochhar, 2000, pp. 24-26, 92, cfr. 225.

18 Jacobi, 1893. Jacobi tenne sull’argomento anche una relazione al 10o Congresso internazionale degli orientalisti a Genf nel 1894, non ancora a disposizione di Oldenberg al momento del suo primo articolo, cfr. Oldenberg, 1894, p. 629=643, n. 2.

19 Tilak, 1893.

20 Così Mylius, 1965, p. 12, sulla base della Schlussbemerkung in Jacobi, 1893, p. 73=263. Prima della pubblicazione del libro di Tilak risulta peraltro pubblicato, con la data dell’anno precedente, un opuscoletto di 8 pagine, contenente un Summary del libro stesso (Tilak, 1892). Alcuni punti del libro di Tilak sono poi discussi da Jacobi, 1894 [1895].

21 Whitney, 1894. Altre prese di posizione sull’argomento da parte di Whitney sono citate da Keith, 1910, p. 466. Alcuni – non tutti – degli intervenuti nel dibattito sono ricordati da Tilak, 1971 (1903), p. V (“Preface”); a questi si aggiunga, oltre a Oldenberg (!), Keith, anch’egli sfavorevole alla teoria, cfr. Keith, 1910, il quale poi neppure più la menziona nella rassegna in Keith, 1989 (1925), pp. 614-619 (comprendenti l’“Appendix A. The age of the Avesta and the Rigveda”).

22 Si continua a impiegare il termine nel senso occidentale e ottocentesco, tenendo conto di Staal, 1982.

23 “Una conclusione scientifica cessa di essere scientifica se è presentata come una rivelazione”

(Kochhar, 2000, p. 22, cfr. 2).

(13)

Astronomia indiana e datazione del Veda 1505 particolare attraverso la polemica di Hermann Oldenberg.

Scrive, senza batter ciglio, Jacobi:

Le combinazioni [dei dati concernenti vari sistemi di dividere l’anno in stagioni] su esposte indicano a mio parere infallibilmente una posizione dei coluri quale la abbiamo data [per cui il coluro dei solstizi passava per le Uttaraphalgunī24 e quindi25 l’equinozio di primavera cadeva nel Mṛgaśiras26].

L’età vedica più tarda ha effettuato una correzione, che consiste nello spostamento del punto di inizio [nella serie delle costellazioni] dal Mñgaçiras alle Kṛttikâ,27 e proprio questa circostanza presta alla sua determinazione un significato di attualità: esso deve essere stato all’incirca giusto per il tempo della correzione. Ora l’equinozio di primavera era nelle Kṛttikâ e il solstizio d’estate nelle Maghâ,28 come si può vedere dalla seguente tabella dei nakshatra29 basata su Whitney, Sûrya-Siddhantâ p. 211, verso il 2500 a.C. Per tener conto di un errore di osservazione di quei primitivi astronomi, l’incertezza di questo dato può comportare cinque secoli da entrambe le parti. Il dato del Jyotisha sulla posizione dei coluri è molto più tardo: corrisponde al XIV o XV sec. a.C. e testimonia di una reiterata determinazione dei medesimi. Ciò tuttavia importa ora meno, laddove l’essenziale è che i testi vedici veri e propri contengono una determinazione dei coluri palesemente giusta al loro tempo, quindi solo corretta nel Jyotisha. E significativamente più antica è la posizione dei coluri resa accessibile per il Ṛig-Veda, la quale, come mostra la nostra tavola, corrisponde a realtà verso il 4500 a.C. In questo tempo a dire il vero difficilmente possiamo situare il Ṛig-Veda, ma piuttosto gli inizi del periodo culturale dal quale ci sono giunti come suo prodotto maturo, forse addirittura tardo, gli inni del Ṛig-Veda.

Questo periodo culturale si è dunque esteso all’incirca dal 4500 al 2500 a.C. e certamente non sbaglieremo se assegniamo la raccolta di inni a noi conservata alla seconda metà di questo periodo.30

Con queste considerazioni, come si vede, si finisce per non allontanarsi di molto – in relazione, s’intende, a grandezze temporali del genere – dalla datazione

24 = β e 93 del Leone, cfr. Macdonell – Keith, 1995, p. 416 (voce Nakṣatra. Le identificazioni sono date secondo la più tarda equiparazione della serie dei nakṣatra allo Zodiaco greco, per cui per la fase vedica devono essere intese solo in modo indicativo). Questa è la conclusione a cui Jacobi giunge per l’età della RVS attraverso la combinazione di un dato rigvedico (dal cosiddetto inno alle rane) con un altro dato proveniente da un testo bensì anch’esso rigvedico (il sūryasūkta) ma in realtà utilizzato secondo la variante atharvavedica – né è questo l’unico aspetto arbitrario anche di questa parte della sua argomentazione.

25 Le corrispondenze possono essere controllate utilizzando la tabella menzionata immediatamente sotto e posta alla fine dell’articolo, p. 74=264.

26 = λ, φ1, φ2 di Orione, cfr. Macdonell – Keith, 1995, pp. 415-416 (voce Nakṣatra).

27 = Pleiadi, cfr. ivi, p. 415 (voce Nakṣatra).

28 = “la Falce, o α, η, γ, ζ, μ, ε del Leone”, ivi, p. 416 (voce Nakṣatra).

29 “costellazioni”.

30 Jacobi, 1893, pp. 71-72=261-262. Trad. dall’orig. tedesco; sono mantenute le trascrizioni sanscrite dell’originale.

(14)

bramanica tradizionale (laddove Tilak, con lo stesso termine inferiore, risaliva, ancora più indietro, al 6000 a.C. come termine superiore).31

Non c’è un solo passo, nel primo articolo di Jacobi, in cui egli dica esplicitamente che il primo posto tenuto dalle Kṛttikā nella serie delle costellazioni secondo gli elenchi vedici a partire dalle Saṃhitā postrigvediche32 sia da interpretarsi come l’indicazione del punto equinoziale: la cosa è data tanto per scontata da apparire, nonostante la sua centralità nell’economia dell’intera costruzione cronologica, un elemento addirittura secondario e trascurabile.

Il procedimento mentale per cui si faceva passare per realtà un puro e semplice assunto fu stigmatizzato fin dall’inizio da Oldenberg, che vide rispecchiato nell’identificazione del punto equinoziale con le Kṛttikā tutto un modo di affrontare il problema dell’esegesi vedica rispetto al quale si trovava, risolutamente, dall’altra parte:

L’astronomia più tarda ha notoriamente spostato il punto d’inizio [nella serie delle costellazioni] all’Aśvinī33 in quanto punto [dell’equinozio] di primavera: si presentava così facilmente l’idea che l’antico punto di inizio, le Kṛttikā,34 sia stato il punto della primavera. Non si può tuttavia trascurare che il sistema più tardo, come è noto da tempo, subisce l’influenza greca. Da questa dipende, o almeno da questa è favorito l’impiego della serie dei nakṣ atra, messi alla pari con lo Zodiaco, per la fissazione delle posizioni del sole; da questa influenza dipende anche l’osservazione del punto della primavera (inizio dell’Aśvinī uguale inizio dell’Ariete) e la sua promozione a punto di inizio dell’intero sistema. Per gli indiani dell’età antica, tuttavia, i nakṣatra non avevano, come abbiamo visto,35 il significato di indicare posizioni del sole; possiamo aggiungere che, verisimilmente, rimasero per loro altrettanto inosservati anche gli equinozi, laddove al contrario si prestò la più viva attenzione ai solstizi, ai punti di inizio del corso solare settentrionale e meridionale.36

31 E perfino questa datazione impallidisce di fronte a altre ancora sostenute da dotti indiani fino a tempi relativamente recenti (12000 a.C, pliocene, miocene), cfr. Mylius, 1965, p. 12. Tilak stesso, d’altra parte, nel prosieguo di studi in parte condotti in carcere (dove era stato imprigionato per motivi politici e dove gli giunse il sostegno di Max Müller, cfr. il “Preface” al libro menzionato immediatamente qui sotto) pubblicò poi Tilak, 1971 (1903), in cui gli inizi della civiltà aria sono ricondotti al periodo interglaciale in una patria “artica” e la RVS che possediamo, datata secondo il libro precedente, non sarebbe d’altra parte da considerare se non una “riproduzione”, diversa nella forma ma non nella sostanza, di tradizioni risalenti a quell’età (cfr. in partic. pp. 375-376). La teoria artica del perseguitato dal governo inglese finiva così per ricongiungersi ‘oggettivamente’ a un filone di studi sulla patria primitiva indoeuropea (cfr. Tilak, 1971 [1903] stesso, p. X), che sarebbe stato utilizzato per la costruzione della teoria razziale nazista (Tilak, 1971 [1903] ebbe una 1a rist. nel 1925; cfr. Mees, 2004, p. 148 per gli aspetti ideologici del filone di scritti sull’Atlantide, “scatenato” da Tilak in Germania).

32 Cfr. qui sopra nel testo.

33 = β e ζ dell’Ariete, cfr. Macdonell – Keith, 1995 (1912), p. 416 (voce Nakṣatra).

34 “antico” ma sempre non quello rigvedico, nella costruzione di Jacobi.

35 Cfr. Oldenberg, 1894, pp. 629-630=643-644.

36 Oldenberg, 1894, pp. 630-631=644-645. Trad. dall’orig. tedesco; sono mantenute le trascrizioni sanscrite dell’originale. Sull’altra conseguenza della precessione degli equinozi, lo spostamento del polo celeste, trattata anch’essa da Jacobi, 1893, pp. 72-73=262-263 e anzi considerata suo punto di partenza da Mylius, 1965, p. 12, cfr. l’osservazione di Oldenberg, 1895, p. 476=669, n. 2.

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Astronomia indiana e datazione del Veda 1507 Il fronte su cui Oldenberg si trova a combattere è il medesimo che lo vedeva impegnato contro il filone interpretativo che faceva capo alle Vedische Studien di R.

Pischel e K. F. Geldner:37 qui come altrove Oldenberg riasserisce l’arbitrarietà di una trasposizione meccanica al Veda di fatti propri dell’India posteriore e moderna (che ciò si faccia nell’ottica vuoi di un’attualizzazione del Veda vuoi di una sua dilatazione nella perennità).38 Sarà stato anzi proprio quest’intimo aspetto dell’argomentazione di Jacobi, al di là della credibilità o meno dei risultati cronologici in sé e per sé, a indurre Oldenberg a una polemica che si direbbe spietata nella sua minuziosità e pertinacia.

Un ulteriore aspetto merita di essere messo in luce. Nel corso della folta successione di articoli dedicati da Oldenberg alla polemica con Jacobi – ben cinque39 –, lungi da assistere a un suo esclusivo circoscriversi intorno a questioni di dettaglio, si può cogliere il progressivo precisarsi di un nuovo modo di affrontare le problematiche poste dalla filologia vedica.

Di fronte a uno Jacobi che non sembra scostarsi da una concezione biologica della storia umana – sono caratteristiche espressioni come “infanzia della cultura”40 –, incapace di cogliere il divario fra l’età antica, nella fattispecie vedica, e la moderna:

il moderno calendario basato sull’astronomia greca si differenzia da quello del tempo passato solo per il fatto che si presumeva ormai di poter calcolare precisamente in anticipo ciò che prima si doveva trovare attraverso una reale osservazione,41

Oldenberg fin dal primo articolo asseriva con decisione, concludendo le considerazioni già citate:

Che dunque l’inizio della serie dei nakṣatra dipenda dalla posizione del sole al tempo dell’equinozio di primavera è un’ipotesi che in questa forma è assai poco verisimile per la rappresentazione vedica del mondo.42

37 Per ciò cfr. Renou, 1928, pp. 41-54, 72. Rispetto tuttavia alle conclusioni di Renou, oggi, a 80 anni di distanza da quest’opera, ci sembra di poter dire che la “vitalità” del magistero filologico resti ancora grandemente dalla parte di Oldenberg, tanto più tenendo conto della sostanziale ritrattazione da parte di Geldner delle sue posizioni precedenti nella traduzione completa della RVS, che sarebbe stata probabilmente più evidente una volta completata la pubblicazione, molti anni dopo la morte dell’autore ([Rig-Veda], 1951-1957), che all’epoca dei Maîtres, quando era uscito solo il I vol. ([Rigveda], 1923, cfr.

Renou, 1928, pp. 55-56).

38 Sulla solidarietà fra la tendenza, in India, a datare il Veda nella nebbia dei tempi e la credenza nella sua eternità cfr. Gonda, 1975, p. 21, n. 15.

39 Al già menzionato del 1894 (che tiene dietro a Jacobi, 1893; idem, 1894 [1895]) seguono Oldenberg, 1895, ugualmente già menzionato (c. s. a Jacobi, 1895), Oldenberg, 1896 (c. s. a Jacobi, 1896), Oldenberg, 1909 (c. s. a Jacobi, 1909), Oldenberg, 1910 (c. s. a Jacobi, 1910).

40 Jacobi, 1896, p. 83=292 (nella frase finale dell’articolo).

41 Idem, 1895, p. 222=269. Trad. dall’orig. tedesco.

42 Oldenberg, 1894, p. 631=645. Trad. dall’orig. tedesco. Sul “pericolo” dell’“appiattimento della distinzione fra i due diversi ritmi storici, biologico e umano-sociale”, cfr. Timpanaro, 1970, p. 138 (dal IV saggio,

“Lo strutturalismo e i suoi successori”).

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“Für die vedische Vorstellungs welt” è stampato con una spaziatura che intende dare all’espressione tutto il suo peso: in questo, in una diversa rappresentazione del reale consiste la frattura sostanziale fra il mondo vedico e il mondo nostro.

Certo si possono ancora sorprendere in Oldenberg tentazioni di identificare il modo di rappresentazione vedico con il “naturale”: così è quando Oldenberg definisce appunto “naturale” il computo del mese lunare da luna nuova a luna nuova (nel primo articolo43 e ancora nel secondo);44 su questo dettaglio la replica di Jacobi è fin troppo ovvia.45 Tale schema di interpretazione storica si trova tuttavia superato, sulla spinta di una continua rimeditazione indotta dalla polemica, nel terzo articolo, dove si legge un’affermazione di grande valore metodologico:

[…] E nell’affermazione [di Jacobi] che la posizione del sole nell’equinozio sia più facilmente determinabile che nel solstizio è altrettanto meno contenuto un reale argomento in favore del fatto che l’equinozio sia stato effettivamente determinato dagli indiani. Per acclarare che un determinato punto in cielo o sull’orizzonte sia stato scoperto si richiede non solo che questo possa essere scoperto facilmente, ma anche che sia presente un determinato interesse volto alla sua scoperta.46

Anche i risultati conseguiti dalla scienza rientrano dunque nell’ambito dell’“interesse” umano e la filologia vedica, anche quando si occupa di scienza – o, giocando, sulla scorta di Oldenberg stesso, con le valenze semantiche del termine, di “scienza prescientifica”47 –, è storia della cultura vedica.48

43 Oldenberg, 1894, p. 633=647, n. 1.

44 Idem, 1895, p. 476=669.

45 Jacobi, 1896, p. 82=291. In realtà Oldenberg nel secondo articolo traduceva poi tale “naturalezza” in concordanza fra calendari di diversi popoli antichi.

46 Oldenberg, 1896, p. 452=30.

47 È il titolo dell’ultima monografia pubblicata da Oldenberg, 1919.

48 Una possibilità diversa da quella astronomica, concretizzatasi più recentemente, di stabilire un aggancio cronologico all’interno dei testi vedici almeno al livello dei Brāhmaṇa è quella che consiste nell’identificazione di suppellettili vediche e reperti archeologici ai quali sia applicabile il metodo del radiocarbonio o della termoluminescenza. L’applicazione del metodo, su cui cfr. dapprima le notizie fornite da Horsch, 1966, p. 473, n. 2; Mylius, 1970, pp. 15-16, ha assunto una ben diversa prospettiva in conseguenza dei lavori di Wilhelm Rau, che prendono come base le descrizioni degli oggetti fornite dai testi vedici stessi e dei quali qui si indicano due a carattere generale, Rau, 1977 (con una critica che sembra rivolta prevalentemente contro Sankalia a p. XCII); 1983, pp. 48-50 (con un richiamo, tuttavia, alla prudenza suggerito dallo stato dei dati disponibili). Il tentativo di agganciare la RVS alla cronologia della civiltà della valle dell’Indo (o di Harappa) viene meno nel momento in cui, come ha dimostrato ancora Rau, 1976, le pṹr- distrutte da Indra non sono le cittadelle delle città di quella civiltà, che dunque resta rispetto alla RVS solo un terminus post quem imprecisabile. Ancora più vago e incerto resterebbe un tale termine rispetto alle testimonianze arie dei Mitanni.

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L’

EVOLUZIONE DELL

I

SLAM IN

B

ANGLADESH NOTE E DISCUSSIONE

Amedeo Maiello

Con la fine delle piogge e l’arrivo del clima più temperato ancora una volta il Bangladesh è stato funestato da ricorrenti atti di violenza1 che in questo caso sono da collegare all’avvio della campagna elettorale per le politiche del 2007. L’odierna ondata di violenza, sempre più spesso associata anche al crescente peso di gruppi islamisti radicali nel paese,2 ha portato i media occidentali a prestare inusitata attenzione al Bangladesh,3paese relegato, spesso con toni paternalistici, alla rappresentazione di primati catastrofici, naturali e sociali.4 Tuttavia l’approccio al problema evidenzia la mancanza di una, seppur sommaria, conoscenza dell’Islam bengalese che, rifuggendo qualsiasi intento apologetico, potrebbe costituire una cornice interpretativa atta a suggerire le spiegazioni causali della crisi di un paese la cui creazione nel 1971 fu affrettatamente salutata come il trionfo del laicismo.5

1 Come è stato osservato: “political agitation or events take place in the cooler months […] inevitably lead to arson, rioting and other acts punishable by law”. Ahmad – Baqee, 1988, p. 73. Dal ’99 al 2005 si hanno avuto più di venti attacchi terroristici per lo più contro raduni politici, centri culturali e tribunali.

Nel 2005, nel mese di dicembre, si sono verificati anche attacchi suicidi. Montero, 2005, p. 3.

2 Il primo Ministro Begum Khaleda Zia nell’Aprile del 2002 all’accusa della presenza di gruppi terroristici in Bangladesh, non solo proibì la circolazione della Far Eastern Economic Review che aveva riportato la notizia, ma comunicò al parlamento che “vested quarters at home and abroad are trying to tarnish the country’s image by spreading untrue, misleading and malicious information”. Bearak, 2002.

Da notare che l’attacco terroristico al tempio Sanka Mochan di Varanasi del marzo 2006 è stato attribuito ad un gruppo terroristico con base in Bangladesh. Swami, 2006.

3 Da notare che negli anni Novanta l’opinione pubblica occidentale s’interessò per alcune settimane al caso della scrittrice Taslima Nasreen che fu forzata in esilio a causa della violenta reazione dei fondamentalisti al suo romanzo Lajja (Vergogna). Per una lettura critica del ruolo dei media nel caso Nasrin si rimanda a Riaz, 1995. Da questa prospettiva è opportuno segnalare che la stampa occidentale ha invece completamente ignorato il furore causato dalla pubblicazione nel 2003 di Ka uno scritto autobiografico di Nasrin “that contains detailed narrations of her sexual relations with mostly the ‘well- known’ literary personalities”. Taposh, 2003. L’assegnazione nell’ottobre 2006 del premio Nobel per la pace al professor Yunus ha, invece, portato i media a focalizzare l’attenzione sul ruolo del microcredito nel Bangladesh. Sul programma di Yunus, la cui idea guida è “charity is not an answer to poverty”, oltre che per la sua autobiografia (1998), si veda Yunus, 2004. In Italiano si veda Endrizzi, 2002.

4 Per una discussione delle problematiche inerenti ai ricorrenti disastri naturali si veda Nasreen, 2004.

Tuttavia, più devastanti dei cicloni e delle inondazioni, sono gli squilibri sociali. Da quest’ottica il dramma delle donne è ritenuto emblematico. Sulla tragedia delle donne acidificate si rimanda a Pisu, 2000. Ma, altresì devastante è lo sfruttamento a cui sono sottoposte le donne dall’industria tessile che dal gennaio 2005, con la fine della quota garantita di esportazione verso gli USA, deve fronteggiare la temibile concorrenza cinese. La questione dei “sweatshop” fu oggetto di una bella e partecipata trasmissione Rai curata da Paola Salsano (2006).

5 A. Rossi, in un saggio degli anni ’70, pur lamentando il fallimento di un “processo autenticamente rivoluzionario” vede nel movimento di liberazione il prodotto di una “tradizione nazionalista laica”.

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Un’attenta lettura delle dinamiche interne all’Islam bengalese contribuirà a delineare la natura composita di una realtà che, sulla scia di un certo orientalismo, il paradigma huntingtiano prima e l’11 settembre dopo hanno ridotto ad una fuorviante e pericolosa piatta omogeneità.6 Il presente lavoro intende, dunque, focalizzare l’attenzione sull’origine dei diversi, spesso conflittuali, orientamenti religiosi ed ideologici presenti nella società del Bangladesh, e come questo patrimonio culturale è utilizzato, in modo dialettico, per misurarsi con le sfide di oggi. Si verrà così a trattare la questione dell’adattabilità, nonché dell’agentività, di una cultura altra al macro-processo storico della modernità, problematica spesso oggetto delle lunghe discussioni avute con Adolfo Tamburello.7

Parlare di Islam bengalese può, forse giustificatamene, suscitare delle perplessità. Ma rivolgere l’attenzione a tale specificità non mira affatto a parcellizzare la religiosità islamica sulla base di una dimensione areale, bensì a tentare di cogliere la natura di un processo che ha portato alla sedimentazione di una visione islamica intessuta anche di tratti peculiari ed originali. La singolarità islamica bengalese è da iscrivere all’interno dell’area evolutiva dell’Islam in Asia meridionale;8 tuttavia l’Islam in Bengala evidenzia articolazioni proprie tali da richiedere un livello di analisi distinto. L’obiettivo di delineare un quadro dell’Islam bengalese, individuando nel divenire storico le spinte che ne hanno determinato il proprio singolare sviluppo impone tuttavia una procedura metodologica appropriata.9 Infatti tale studio impone l’abbandono dell’approccio olistico che eleva a paradigma esclusivista la dimensione omogenea e globale, immobile nel tempo, dell’Islam. Questa ultima tendenza è rapportabile, in primo

Rossi, 1983. Daniela Bredi sottolinea altresì che “il nuovo stato nasceva […] con spiccati caratteri di laicità”. Bredi, 1983, p. 228.

6 L’obiettivo di tale “compression and reduction” è indubbiamente lo stesso individuato da Said più di vent’anni fa: “the result is to eradicate the plurality of differences among the Arabs […] in the interest of one difference. That one setting Arabs off from everyone else. As a subject matter for study and analysis, they can be controlled more readily”. Said, 1987, p. 309.

7 Tamburello focalizza l’attenzione per lo più sugli aspetti strutturali dell’economia giapponese pre- moderna, sostenendo che “la maggior parte dei settori tradizionali (agrari, ittici, artigianali, ma anche manageriali) continuano non solo a tenere ma a servire lo sviluppo contemporaneo”. Tamburello, 1977, p. 1. Di recente Bayly nell’intento di mitigare la tesi dell’“European exceptionalism” utilizza le ricerche di diversi studiosi per ribadire questa “adattabilità” del Giappone. Bayly, 2004, p. 79.

8 Sulle diverse articolazioni regionali dell’Islam indiano, si veda Dalla Piccola, 1993.

9 Da tempo lo studio dell’Islam nel contesto locale o delle cosiddette società islamiche periferiche ha raggiunto una propria legittimità metodologica. L’islamistica italiana, da questa prospettiva, deve molto all’approccio elaborato da Alessandro Bausani, per il quale lo studio della natura composita della realtà islamica non andava scisso dalla macro-categoria Islam. Infatti, se è vero che l’uso di quest’ultima categoria “ha svolto nella sua indagine un ruolo euristico importante” (Galasso, 1998, p. 459), bisogna altresì sottolineare che Bausani, adottando in forma intuitiva concetti oggi assai di moda, quale

“fluidity” o “liminality”, approdò ad una comprensione feconda delle manifestazioni dell’Islam

“locale” quale quello indiano, considerato “uno dei capitali più affascinanti dell’Islamistica”. Bausani, 1973. Della saldatura auspicata da Bausani, G. Scarcia scrive: “in questo Islam, quanto altre cose mai unitario, le forme regionali, diceva Bausani, sono soprattutto momenti, stagioni, e in modo più preciso, stili, in ognuno dei quali il contributo di un singolo genio nazionale al grande concerto si fa più sostanzioso, più sfolgorante: una sorta di rotante zodiaco che certamente non fa perdere nulla della sua luce, del suo calore al solo invitto che ne è fuoco e centro”. Scarcia, 1990, p. 35.

(23)

L’evoluzione dell’Islam in Bangladesh 1515 luogo, ad alcune scelte proprie degli studi islamici. Hodgson ebbe a sottolineare l’effetto negativo esercitato dall’“Arabist and philological bias”, che induce a focalizzare l’attenzione “above all with high culture, to the neglect of more local or lower-class social conditions”.10 Ma questa propensione ad “immaginare l’Oriente”

è spia di una più profonda e radicata tendenza presente nella tradizione intellettuale occidentale.11

Si pone dunque la necessità di sottrarsi al fascino esercitato dall’ipostatizzazione dell’anelito unitario e spostare l’attenzione sugli aspetti concreti della presenza musulmana nel Bengala, spesso accantonati, se non rimossi.

Le nuove coordinate metodologiche permetteranno di cogliere le dinamiche di un processo dialettico tra visione universale e la realtà vissuta, che è fonte non solo di un perdurante dualismo, ma altresì di un’identità che è allo stesso tempo peculiare della regione e partecipe di un patrimonio comune a tutti i musulmani.12 L’urgenza di tale innovazione disciplinare è altresì sottolineata dalla crisi dell’approccio terzomondista. La teorizzazione di un processo di modernizzazione che riteneva superflui fattori religiosi ed etnici trova la sua negazione anche in Asia meridionale, dove la crescita dei diversi fondamentalismi sottolinea come lo stesso processo di modernizzazione non possa prescindere dal considerare fattori come il senso di identità comunitaria che da questi processi sono rivitalizzanti.13 In Bangladesh questa problematica, che nasce dal diverso modo di intendere il ruolo dell’Islam, incide in modo determinante nella vita del paese.

Nel variegato mondo musulmano dell’India14 si possono individuare tre componenti o atteggiamenti diversi, ma tutti integrati nella tradizione islamica. In primo luogo vi è l’Islam ortodosso o se si preferisce “colto”. Esso è obbligatorio per tutti i fedeli, anche se tale obbligatorietà non trova riscontro nella prassi. In India, come altrove, tale rispondenza è fortemente influenzata dalla collocazione sociale, dal livello di istruzione e da altri fattori. In Asia Meridionale questa visione ortodossa è associata con particolari gruppi etnici, la vicinanza al profeta si è basata non solo sulla fede, ma anche sul sangue. Un secondo livello è caratterizzato

10 Hodgson, I, 1974, p. 40, 43.

11 Ebbe a scrivere Foucault: “Come se laddove si era abituati a cercare delle origini, a risalire all’infinito la linea delle antecedenze, a ricostruire delle tradizioni, […] si provasse una singolare ripugnanza a pensare alla differenza, a descrivere degli scarti e delle dispersioni, a dissociare la forma rassicurante dell’identico. O più esattamente, come se si trovasse difficoltà a teorizzare, a trarre le conseguenze generali e persino a desumere tutte le implicazioni possibili di quei concetti di soglia, di mutazione, di sistemi indipendenti di serie limitata, che nella pratica vengono usati dagli storici. Come se avessimo paura di concepire l’altro dall’interno del tempo del nostro pensiero”, Foucault, 1980, pp. 17-18.

12 Tale dualismo non è una peculiarità dell’Asia meridionale. Pearson, nell’individuare le dinamiche che portarono all’egemonia culturale musulmana nell’Oceano indiano, nota: “Islam’s success was to a large extent a result of its tolerance of local traditions, so that scholars distinguish between prayers and other religious activities in the mosque, and those performed outside of it. Rather than coastal population converting to Islam, they accepted it”. Pearson, 2003, p. 62.

13 In anni recenti si è assistito al ritorno, su basi radicalmente innovative, degli “area studies”. Per una recente rivalutazione si veda Spivak, 2003.

14 Della “bewildering diversity” dei musulmani dell’India, Hasan scrive: “No statistical data are required to establish their location in multiple streams of thoughts”. Hasan, 1997, p. 7.

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da credenze e prassi apparentemente lontane dall’ortodossia, ma con peso rilevante sui comportamenti familiari e nella vita complessiva del credente. Vi è inoltre un terzo livello che include credenze e forme di superstizione come il malocchio che, sebbene diffuse in tutto il mondo islamico, possono essere definite musulmane solo per il fatto che sono praticate da persone che si definiscono musulmane e che gli altri accettano di considerare tali.15 Tralasciando quest’ultimo aspetto, la peculiarità dell’Islam in India non è da ricercare tanto nella divisione interna sopra delineata, rintracciabile anche in altri contesti culturali islamici, bensì nella natura dell’interazione fra i due livelli. Obbiettivo primario, dunque, non sarà tanto lo studio delle singole articolazioni, quanto di cogliere i processi di sintesi e di dilatazione culturale, nonché di chiusura che hanno determinato nel tempo un rapporto differenziato. Cogliere, dunque, l’esigenza di una comunità con un’impalcatura ideologica relativamente rigida, di dotarsi con questa articolazione interna, di un’elasticità che le ha permesso, da un lato di sopravvivere in un contesto socio-culturale alieno, dall’altro di portare avanti un processo di conversione unico nella storia dell’India. Questa articolazione ha portato anche ad una perdurante tensione interna che ha assunto nel tempo valenza diversa e che tuttora è fonte di travaglio per i musulmani del subcontinente. All’ombra di questa tensione si sono sviluppati sia movimenti sincretistici, che fondamentalismi e revivals, ma anche contrapposti nazionalismi. Individuare gli elementi costitutivi di tale tensione non è agevole. Molti hanno sottolineato l’influenza della cosiddetta anomalia indiana: in questa regione, l’Islam non assurgerà mai a religione maggioritaria, ma, d’altro canto, non soccomberà nemmeno all’abbraccio accomodante dell’“Indic Legacy”, o per usare l’espressione di Franci all’Indianesimo. Questa anomalia ha fatto si che perdurasse una mentalità di frontiera, caratterizzata da due nitide e contrapposte tendenze. Da un lato una propensione a radicarsi, dall’altro il perdurare di un forte orientamento extra- territoriale.

All’insegna di questa polarità di fondo e di lunga durata, l’Islam bengalese verrà ad acquisire tratti specifici e peculiari. In linea generale si può affermare che nell’India nord-occidentale, pur in presenza di una attenzione alla realtà locale,16 nel periodo post-Aurangzeb, con la fine della “civic legitimacy” dei Mughal e, dunque, prima dell’avvento del nazionalismo, il mai sopito elemento conservatore, postulando la necessità di ancorare la rinascita musulmana in India al ritorno ad

15 Sulla presenza di questa forma di Islam popolare in India si rimanda alla ristampa del vecchio (1832) Qanun-i Islam. Sharif, 1972.

16 Come nota Hodgson “relations to the indigenous heritage were always a live issue”. Infatti sin dal periodo del Sultanato la classe dirigente musulmana incoraggiò lo sviluppo, nelle diverse lingue, della tradizione letteraria sanscrita. Fu questo atteggiamento di fondo che porterà alla creazione, sotto egemonia musulmana, di una cultura colta che, pur non cancellando la fondamentale differenza in religione, sarà condivisa dall’élite sia musulmana che hindu. Sulla questione si rimanda a Hodgson, III, 1974, pp. 59-60.

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