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L’ EVOLUZIONE DELL ’ I SLAM IN B ANGLADESH

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 21-47)

NOTE E DISCUSSIONE

Amedeo Maiello

Con la fine delle piogge e l’arrivo del clima più temperato ancora una volta il Bangladesh è stato funestato da ricorrenti atti di violenza1 che in questo caso sono da collegare all’avvio della campagna elettorale per le politiche del 2007. L’odierna ondata di violenza, sempre più spesso associata anche al crescente peso di gruppi islamisti radicali nel paese,2 ha portato i media occidentali a prestare inusitata attenzione al Bangladesh,3paese relegato, spesso con toni paternalistici, alla rappresentazione di primati catastrofici, naturali e sociali.4 Tuttavia l’approccio al problema evidenzia la mancanza di una, seppur sommaria, conoscenza dell’Islam bengalese che, rifuggendo qualsiasi intento apologetico, potrebbe costituire una cornice interpretativa atta a suggerire le spiegazioni causali della crisi di un paese la cui creazione nel 1971 fu affrettatamente salutata come il trionfo del laicismo.5

1 Come è stato osservato: “political agitation or events take place in the cooler months […] inevitably lead to arson, rioting and other acts punishable by law”. Ahmad – Baqee, 1988, p. 73. Dal ’99 al 2005 si hanno avuto più di venti attacchi terroristici per lo più contro raduni politici, centri culturali e tribunali. Nel 2005, nel mese di dicembre, si sono verificati anche attacchi suicidi. Montero, 2005, p. 3.

2 Il primo Ministro Begum Khaleda Zia nell’Aprile del 2002 all’accusa della presenza di gruppi terroristici in Bangladesh, non solo proibì la circolazione della Far Eastern Economic Review che aveva riportato la notizia, ma comunicò al parlamento che “vested quarters at home and abroad are trying to tarnish the country’s image by spreading untrue, misleading and malicious information”. Bearak, 2002. Da notare che l’attacco terroristico al tempio Sanka Mochan di Varanasi del marzo 2006 è stato attribuito ad un gruppo terroristico con base in Bangladesh. Swami, 2006.

3 Da notare che negli anni Novanta l’opinione pubblica occidentale s’interessò per alcune settimane al caso della scrittrice Taslima Nasreen che fu forzata in esilio a causa della violenta reazione dei fondamentalisti al suo romanzo Lajja (Vergogna). Per una lettura critica del ruolo dei media nel caso Nasrin si rimanda a Riaz, 1995. Da questa prospettiva è opportuno segnalare che la stampa occidentale ha invece completamente ignorato il furore causato dalla pubblicazione nel 2003 di Ka uno scritto autobiografico di Nasrin “that contains detailed narrations of her sexual relations with mostly the ‘well-known’ literary personalities”. Taposh, 2003. L’assegnazione nell’ottobre 2006 del premio Nobel per la pace al professor Yunus ha, invece, portato i media a focalizzare l’attenzione sul ruolo del microcredito nel Bangladesh. Sul programma di Yunus, la cui idea guida è “charity is not an answer to poverty”, oltre che per la sua autobiografia (1998), si veda Yunus, 2004. In Italiano si veda Endrizzi, 2002.

4 Per una discussione delle problematiche inerenti ai ricorrenti disastri naturali si veda Nasreen, 2004. Tuttavia, più devastanti dei cicloni e delle inondazioni, sono gli squilibri sociali. Da quest’ottica il dramma delle donne è ritenuto emblematico. Sulla tragedia delle donne acidificate si rimanda a Pisu, 2000. Ma, altresì devastante è lo sfruttamento a cui sono sottoposte le donne dall’industria tessile che dal gennaio 2005, con la fine della quota garantita di esportazione verso gli USA, deve fronteggiare la temibile concorrenza cinese. La questione dei “sweatshop” fu oggetto di una bella e partecipata trasmissione Rai curata da Paola Salsano (2006).

5 A. Rossi, in un saggio degli anni ’70, pur lamentando il fallimento di un “processo autenticamente rivoluzionario” vede nel movimento di liberazione il prodotto di una “tradizione nazionalista laica”.

Un’attenta lettura delle dinamiche interne all’Islam bengalese contribuirà a delineare la natura composita di una realtà che, sulla scia di un certo orientalismo, il paradigma huntingtiano prima e l’11 settembre dopo hanno ridotto ad una fuorviante e pericolosa piatta omogeneità.6 Il presente lavoro intende, dunque, focalizzare l’attenzione sull’origine dei diversi, spesso conflittuali, orientamenti religiosi ed ideologici presenti nella società del Bangladesh, e come questo patrimonio culturale è utilizzato, in modo dialettico, per misurarsi con le sfide di oggi. Si verrà così a trattare la questione dell’adattabilità, nonché dell’agentività, di una cultura altra al macro-processo storico della modernità, problematica spesso oggetto delle lunghe discussioni avute con Adolfo Tamburello.7

Parlare di Islam bengalese può, forse giustificatamene, suscitare delle perplessità. Ma rivolgere l’attenzione a tale specificità non mira affatto a parcellizzare la religiosità islamica sulla base di una dimensione areale, bensì a tentare di cogliere la natura di un processo che ha portato alla sedimentazione di una visione islamica intessuta anche di tratti peculiari ed originali. La singolarità islamica bengalese è da iscrivere all’interno dell’area evolutiva dell’Islam in Asia meridionale;8 tuttavia l’Islam in Bengala evidenzia articolazioni proprie tali da richiedere un livello di analisi distinto. L’obiettivo di delineare un quadro dell’Islam bengalese, individuando nel divenire storico le spinte che ne hanno determinato il proprio singolare sviluppo impone tuttavia una procedura metodologica appropriata.9 Infatti tale studio impone l’abbandono dell’approccio olistico che eleva a paradigma esclusivista la dimensione omogenea e globale, immobile nel tempo, dell’Islam. Questa ultima tendenza è rapportabile, in primo

Rossi, 1983. Daniela Bredi sottolinea altresì che “il nuovo stato nasceva […] con spiccati caratteri di laicità”. Bredi, 1983, p. 228.

6 L’obiettivo di tale “compression and reduction” è indubbiamente lo stesso individuato da Said più di vent’anni fa: “the result is to eradicate the plurality of differences among the Arabs […] in the interest of one difference. That one setting Arabs off from everyone else. As a subject matter for study and analysis, they can be controlled more readily”. Said, 1987, p. 309.

7 Tamburello focalizza l’attenzione per lo più sugli aspetti strutturali dell’economia giapponese pre-moderna, sostenendo che “la maggior parte dei settori tradizionali (agrari, ittici, artigianali, ma anche manageriali) continuano non solo a tenere ma a servire lo sviluppo contemporaneo”. Tamburello, 1977, p. 1. Di recente Bayly nell’intento di mitigare la tesi dell’“European exceptionalism” utilizza le ricerche di diversi studiosi per ribadire questa “adattabilità” del Giappone. Bayly, 2004, p. 79.

8 Sulle diverse articolazioni regionali dell’Islam indiano, si veda Dalla Piccola, 1993.

9 Da tempo lo studio dell’Islam nel contesto locale o delle cosiddette società islamiche periferiche ha raggiunto una propria legittimità metodologica. L’islamistica italiana, da questa prospettiva, deve molto all’approccio elaborato da Alessandro Bausani, per il quale lo studio della natura composita della realtà islamica non andava scisso dalla macro-categoria Islam. Infatti, se è vero che l’uso di quest’ultima categoria “ha svolto nella sua indagine un ruolo euristico importante” (Galasso, 1998, p. 459), bisogna altresì sottolineare che Bausani, adottando in forma intuitiva concetti oggi assai di moda, quale “fluidity” o “liminality”, approdò ad una comprensione feconda delle manifestazioni dell’Islam “locale” quale quello indiano, considerato “uno dei capitali più affascinanti dell’Islamistica”. Bausani, 1973. Della saldatura auspicata da Bausani, G. Scarcia scrive: “in questo Islam, quanto altre cose mai unitario, le forme regionali, diceva Bausani, sono soprattutto momenti, stagioni, e in modo più preciso, stili, in ognuno dei quali il contributo di un singolo genio nazionale al grande concerto si fa più sostanzioso, più sfolgorante: una sorta di rotante zodiaco che certamente non fa perdere nulla della sua luce, del suo calore al solo invitto che ne è fuoco e centro”. Scarcia, 1990, p. 35.

L’evoluzione dell’Islam in Bangladesh 1515 luogo, ad alcune scelte proprie degli studi islamici. Hodgson ebbe a sottolineare l’effetto negativo esercitato dall’“Arabist and philological bias”, che induce a focalizzare l’attenzione “above all with high culture, to the neglect of more local or lower-class social conditions”.10 Ma questa propensione ad “immaginare l’Oriente” è spia di una più profonda e radicata tendenza presente nella tradizione intellettuale occidentale.11

Si pone dunque la necessità di sottrarsi al fascino esercitato dall’ipostatizzazione dell’anelito unitario e spostare l’attenzione sugli aspetti concreti della presenza musulmana nel Bengala, spesso accantonati, se non rimossi. Le nuove coordinate metodologiche permetteranno di cogliere le dinamiche di un processo dialettico tra visione universale e la realtà vissuta, che è fonte non solo di un perdurante dualismo, ma altresì di un’identità che è allo stesso tempo peculiare della regione e partecipe di un patrimonio comune a tutti i musulmani.12 L’urgenza di tale innovazione disciplinare è altresì sottolineata dalla crisi dell’approccio terzomondista. La teorizzazione di un processo di modernizzazione che riteneva superflui fattori religiosi ed etnici trova la sua negazione anche in Asia meridionale, dove la crescita dei diversi fondamentalismi sottolinea come lo stesso processo di modernizzazione non possa prescindere dal considerare fattori come il senso di identità comunitaria che da questi processi sono rivitalizzanti.13 In Bangladesh questa problematica, che nasce dal diverso modo di intendere il ruolo dell’Islam, incide in modo determinante nella vita del paese.

Nel variegato mondo musulmano dell’India14 si possono individuare tre componenti o atteggiamenti diversi, ma tutti integrati nella tradizione islamica. In primo luogo vi è l’Islam ortodosso o se si preferisce “colto”. Esso è obbligatorio per tutti i fedeli, anche se tale obbligatorietà non trova riscontro nella prassi. In India, come altrove, tale rispondenza è fortemente influenzata dalla collocazione sociale, dal livello di istruzione e da altri fattori. In Asia Meridionale questa visione ortodossa è associata con particolari gruppi etnici, la vicinanza al profeta si è basata non solo sulla fede, ma anche sul sangue. Un secondo livello è caratterizzato

10 Hodgson, I, 1974, p. 40, 43.

11 Ebbe a scrivere Foucault: “Come se laddove si era abituati a cercare delle origini, a risalire all’infinito la linea delle antecedenze, a ricostruire delle tradizioni, […] si provasse una singolare ripugnanza a pensare alla differenza, a descrivere degli scarti e delle dispersioni, a dissociare la forma rassicurante dell’identico. O più esattamente, come se si trovasse difficoltà a teorizzare, a trarre le conseguenze generali e persino a desumere tutte le implicazioni possibili di quei concetti di soglia, di mutazione, di sistemi indipendenti di serie limitata, che nella pratica vengono usati dagli storici. Come se avessimo paura di concepire l’altro dall’interno del tempo del nostro pensiero”, Foucault, 1980, pp. 17-18.

12 Tale dualismo non è una peculiarità dell’Asia meridionale. Pearson, nell’individuare le dinamiche che portarono all’egemonia culturale musulmana nell’Oceano indiano, nota: “Islam’s success was to a large extent a result of its tolerance of local traditions, so that scholars distinguish between prayers and other religious activities in the mosque, and those performed outside of it. Rather than coastal population

converting to Islam, they accepted it”. Pearson, 2003, p. 62.

13 In anni recenti si è assistito al ritorno, su basi radicalmente innovative, degli “area studies”. Per una recente rivalutazione si veda Spivak, 2003.

14 Della “bewildering diversity” dei musulmani dell’India, Hasan scrive: “No statistical data are required to establish their location in multiple streams of thoughts”. Hasan, 1997, p. 7.

da credenze e prassi apparentemente lontane dall’ortodossia, ma con peso rilevante sui comportamenti familiari e nella vita complessiva del credente. Vi è inoltre un terzo livello che include credenze e forme di superstizione come il malocchio che, sebbene diffuse in tutto il mondo islamico, possono essere definite musulmane solo per il fatto che sono praticate da persone che si definiscono musulmane e che gli altri accettano di considerare tali.15 Tralasciando quest’ultimo aspetto, la peculiarità dell’Islam in India non è da ricercare tanto nella divisione interna sopra delineata, rintracciabile anche in altri contesti culturali islamici, bensì nella natura dell’interazione fra i due livelli. Obbiettivo primario, dunque, non sarà tanto lo studio delle singole articolazioni, quanto di cogliere i processi di sintesi e di dilatazione culturale, nonché di chiusura che hanno determinato nel tempo un rapporto differenziato. Cogliere, dunque, l’esigenza di una comunità con un’impalcatura ideologica relativamente rigida, di dotarsi con questa articolazione interna, di un’elasticità che le ha permesso, da un lato di sopravvivere in un contesto socio-culturale alieno, dall’altro di portare avanti un processo di conversione unico nella storia dell’India. Questa articolazione ha portato anche ad una perdurante tensione interna che ha assunto nel tempo valenza diversa e che tuttora è fonte di travaglio per i musulmani del subcontinente. All’ombra di questa tensione si sono sviluppati sia movimenti sincretistici, che fondamentalismi e revivals, ma anche contrapposti nazionalismi. Individuare gli elementi costitutivi di tale tensione non è agevole. Molti hanno sottolineato l’influenza della cosiddetta anomalia indiana: in questa regione, l’Islam non assurgerà mai a religione maggioritaria, ma, d’altro canto, non soccomberà nemmeno all’abbraccio accomodante dell’“Indic Legacy”, o per usare l’espressione di Franci all’Indianesimo. Questa anomalia ha fatto si che perdurasse una mentalità di frontiera, caratterizzata da due nitide e contrapposte tendenze. Da un lato una propensione a radicarsi, dall’altro il perdurare di un forte orientamento extra-territoriale.

All’insegna di questa polarità di fondo e di lunga durata, l’Islam bengalese verrà ad acquisire tratti specifici e peculiari. In linea generale si può affermare che nell’India nord-occidentale, pur in presenza di una attenzione alla realtà locale,16

nel periodo post-Aurangzeb, con la fine della “civic legitimacy” dei Mughal e, dunque, prima dell’avvento del nazionalismo, il mai sopito elemento conservatore, postulando la necessità di ancorare la rinascita musulmana in India al ritorno ad

15 Sulla presenza di questa forma di Islam popolare in India si rimanda alla ristampa del vecchio (1832)

Qanun-i Islam. Sharif, 1972.

16 Come nota Hodgson “relations to the indigenous heritage were always a live issue”. Infatti sin dal periodo del Sultanato la classe dirigente musulmana incoraggiò lo sviluppo, nelle diverse lingue, della tradizione letteraria sanscrita. Fu questo atteggiamento di fondo che porterà alla creazione, sotto egemonia musulmana, di una cultura colta che, pur non cancellando la fondamentale differenza in religione, sarà condivisa dall’élite sia musulmana che hindu. Sulla questione si rimanda a Hodgson, III, 1974, pp. 59-60.

L’evoluzione dell’Islam in Bangladesh 1517 ideali islamici,17 induce i musulmani ad adottare forme di isolazionismo culturale, che nel tempo diventano vere e proprie barriere. Nel Bengala lo stesso processo ebbe a fare i conti con una propensione all’interazione con la cultura locale, che scaturiva dalla peculiarità dell’origine stessa della comunità. Questa dinamica risulterà fonte di divisioni interne che hanno inciso sull’evoluzione dell’identità nazionale, oltre che religiosa della comunità musulmana in Bengala.

La prima presenza musulmana nel Bengala è da ricondurre a contatti commerciali.18 Ma fu all’ombra della conquista Ghoride che la leggendaria scorreria di Mu|ammad bin Bakhtyār Khalaj| porta alla conquista del Bengala.19 In questa prima fase, caratterizzata da periodi intermittenti di autonomia da Delhi, i conquistatori, come gli stessi sultani di Delhi, non ebbero né la forza né l’ardore di avviare una trasformazione della società conquistata. Il loro obiettivo prioritario fu il consolidamento e mantenimento del proprio potere politico. Fu questa esigenza di fondo che, pur in presenza di processi socio-culturali significativi,20 portò l’élite musulmana a fare propria una visione “ortodossa”, i cui tratti costitutivi si erano cristallizzati sotto le dinastie autonome sorte nell’area orientale dell’esausto califfato abbaside. Come scrive Rafiuddin Ahmed:

Creation of an institutional infrastructure to solidify support for the new Muslim state was considered critical; they, thus, built mosques and madrasses, patronized Islamic scholars and preachers, gave support to Islamic religious endowments, appointed qazis and encouraged immigration.21

Le esigenze politiche, dettate dalla natura stessa della conquista portarono ad una forma di isolazionismo socio-culturale che, accentuato da steccati sociali ed etnici, consolidò e rese inevitabile l’orientamento extra-territoriale.

Con l’autonomia politica realizzata dagli Ilyās Shāh, questa tendenza divenne ancora più pronunciata. La necessità di legittimare il nuovo regime indusse i sultani bengalesi non solo a finanziare la costruzione di madrasa a Medina e alla Mecca, ma anche come nota Eaton, ad individuare i propri riferimenti politico-culturali “not in Delhi or Central Asia, but much further to the West – in Mecca, Medina, Shiraz and ancient Ctesiphon”.22

17 Il movimento è spesso identificato con la figura di Šāh Valīu ’llāh, la cui opera è stata analizzata da diversi studiosi, quali Rizvi, Baljon ed Hermansen; tuttavia in questo contesto penso fare cosa gradita a Tamburello ricordare il lavoro pionieristico di A. Bausani del 1970.

18 Wink, 1990, p. 82. Si è ipotizzato che nel periodo Pala-Sena il Bengala fu punto nodale del commercio anche marittimo di cavalli. Chakravarti, 1999.

19 Jackson, nel sostenere che la conquista dell’India orientale fu “clearly a piecemeal process” della conquista di M. Bakhtiyar nota: “These operations, the fame of which would reach the ears of Ibn al Athir in Iraq and would cause a later author to give the Khalaj alone the credit for the Muslim, conquest, reduced for Islam a considerable tract in the Ganges basin”. Jackson, 1999, p. 13.

20 Come osserva Mohsin: “this period was the formative period of the political and socio-cultural life of Bengal […]. It also contributed to the growth of distinctive characteristics and institutions of the Bengali people”. Mohsin, 2004, p. 107.

21 Ahmed, 2001, p. 12.

22 Eaton, 1994, p. 50. Che il regime si sentisse parte organica del dār al-Islām si evince con chiarezza da alcune iscrizioni. L’epigrafe di fondazione della moschea di Adina recita “This… mosque was ordered

Indubbiamente siamo in presenza di un’ideologia funzionale all’obiettivo di rimarcare la distinzione tra “rulers and ruled”; tuttavia la dimensione politica presenta molteplici e complessi rapporti con quella religiosa. Infatti, il sentimento religioso svolge una funzione “energizzante” in continuità con quella svolta in tutto il periodo della conquista, durante il quale l’alleanza tra élite militare e religiosa, legittimata dall’ideale della jihād, si saldava e rafforzava. Parte integrante di questo processo furono i Sufi, i quali, in particolar modo nel Bengala, ebbero spesso un ruolo trainante, ammantando le conquiste di tangibile senso religioso.23

Tale funzione accrebbe il loro potere e status che fu impiegato in seguito quale baluardo degli elementi costitutivi dell’ideologia dei gruppi dominanti.24 Infatti, durante il periodo di autonomia politica regionale, la tendenza ad allentare le barriere esclusiviste e ad approdare a forme innovative della gestione del potere, evidenziata da cambiamenti nello stile architettonico, fu strenuamente osteggiata dai Sufi.25 Questo orientamento può essere rapportato ai legami, quasi di dipendenza, che il sufismo del Bengala aveva con i centri di direzione, case-madre, se si vuole, situate nell’India settentrionale.26

Le peculiarità della presenza islamica nel Bengala non sono, dunque, da ricercare nella fase iniziale. È con la conquista Mughal che si avvierà un processo di islamizzazione massiccio,27 la cui natura o tipologia sconfessa molte teorie avanzate circa le cause del radicamento dell’Islam in India. Infatti né la teoria della spada, cioè la forza, né quella che chiama in causa il potere, cioè il clientelismo, sembrano spiegazioni accettabili per l’islamizzazione di una zona rurale e periferica. Né sembra verosimile la tesi che eleva a causa determinante il messaggio

to be build in the reign of the great king, the wisest, the justes, the most liberal of the kings of Arabia and Persia” (Blockmann, 1873, p. 257). La leggenda su una “medaille” d’argento del 1353, indica in Ilyās Shāh “Le sultan juste […] second Alexandre, bras droit du califat et protecteur du commander des croyants”. Reinaud, 1823, p. 273.

23 Ernst ha evidenziato come l’immagine di un Sufismo, indirizzato a promuovere in India un processo di conversione, sia semplicemente frutto di un’interpretazione veicolata dalle biografie di santi compilate nel periodo Mughal e nel XIX secolo. Ernest, 1992.

24 Di questi il persiano, come ebbe a notare Frye (1962, p. 16) a partire dal X secolo assurge ad elemento integrante. Nel Bengala i Sufi, nel tentativo di rapportarsi con l’élite dominante, “proved to be a vital factor in the propagation of Persian both at religious and secular level”. Subhan, 1972-1973, p. 52.

25 L’architettura religiosa della prima fase è caratterizzata dall’imitazione cosciente dello stile di Delhi.

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 21-47)