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Oralità e scrittura nelle origini: il ruolo dello shakudai

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 92-96)

L E RAPPRESENTAZIONI DI KŌDAN NEL G IAPPONE DI OGGI  Matilde Mastrangelo

1. Oralità e scrittura nelle origini: il ruolo dello shakudai

La presenza di un modello scritto da seguire o al quale ispirarsi è costante già dagli inizi del kōdan, che resta uno degli esempi più noti dei dentō wagei (arti

La stretta collaborazione con il declamatore Kanda Sanyō III per la messa in scena di alcuni kōdan durante il suo periodo di lavoro in Italia, mi ha permesso di imparare come un minarai in uno yose. Per tutte le pazienti risposte e il materiale messomi a disposizione, gli sono profondamente grata.

1 Sano, 1943, pp. 211-212.

2 Per ulteriori approfondimenti sull’origine e sull’evoluzione dei kōdan, e per evitare di ripetere elementi già presenti in altri lavori, rimando a: Orsi, 1977; Mastrangelo 1987, 1989, 1995, 1996, 2005 a, 2005 b. Colgo l’occasione per ringraziare il professor Adolfo Tamburello per avermi indirizzata e guidata a questa tematica di ricerca, fin dai tempi della tesi di laurea.

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tradizionali della parola). Nel caso giapponese sappiamo che il rapporto tra oralità e scrittura è molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Molti generi declamatori partivano da un testo scritto, o dalla presunta esistenza di esso; l’esempio più illustre è lo Heike monogatari (Storia degli Heike) e in generale i gunki

monogatari (racconti guerreschi) che venivano declamati sulla base di testi di autori

ignoti imparati a memoria. Nel kōdan, il testo è presente a cominciare dal nome classico del genere, utilizzato fino all’epoca moderna: kōshaku, che sta appunto per “lettura e spiegazione di un testo scritto”. Ma anche ‘fisicamente’ il documento cartaceo è presente nell’iconografia scenica ed è testimoniato da uno dei fondamentali arredi caratteristico del kōdan, lo shakudai, una sorta di cattedra piccola e bassa posta davanti al narratore, che in origine doveva servire a poggiare il testo manoscritto durante la performance. Lo shakudai sta al kōdan come il dipinto del pino sullo sfondo sta al teatro nō: una simbologia scenica che distingue una tipologia narrativa e teatrale. L’indicazione suggerita dallo shakudai è che lo spettatore si deve predisporre allo spettacolo d’intrattenimento aspettandosi una morale, un insegnamento che viene dalla storia e dalla tradizione, che può far anche ridere ma deve lasciare una traccia. In alcune illustrazioni che ritraggono

kōdanshi nei primi secoli in cui il genere si andò affermando, come il famoso Fukai

Shidōken (1682-1765),3 troviamo infatti lo shakudai sul quale poggia un testo. Con l’evolversi del kōdan si impongono, verso la seconda metà del periodo Tokugawa, le performance muhon (senza testo), in cui appunto il manoscritto non è più esposto durante la declamazione: l’innovazione sembra risalga al maestro Tanabe Nankaku I, fondatore dell’omonima scuola, famoso per le capacità mnemoniche. Lo shakudai tuttavia è presente ancora oggi, elemento necessario sia per la valenza simbolica sia per la conduzione del ritmo narrativo.

L’attenzione degli ascoltatori viene guidata anche da un altro attrezzo di scena, unico del kōdan, lo hariōgi, un bastoncino di bambù avvolto da alcuni fogli di carta giapponese che assume la forma di un ventaglio chiuso. Con lo hariōgi si colpisce la cattedra segnando l’inizio di una performance, con uno o due colpi che il kōdanshi fa come saluto appena è seduto, e la fine con un solo colpo. Soprattutto la funzione dello hariōgi emerge quando con esso si sottolineano i momenti più pregnanti di un racconto, per segnare una vera e propria ‘punteggiatura’ della declamazione, per facilitare e aprire all’ascolto, e richiamare da eventuali distrazioni chi ascolta; il suono, un po’ ovattato ma forte, prodotto dallo hariōgi diventa tipico dell’atmosfera delle narrazioni di kōdan, come il suono degli hyōshigi richiama il kabuki. In alcune scene in cui il ‘sonoro’ della storia deve essere ancora più incisivo, viene utilizzato per battere sullo shakudai anche un ventaglio vero e proprio, che in genere serve, come nel rakugo,4 per rappresentare degli oggetti.

L’insieme di simboli contenuti nello shakudai segna anche una distanza, una demarcazione, tra chi narra e il pubblico. Nei declamatori contemporanei, come

3 Hiraga, 1990, copertina; Takarai, 1971, p. 25.

4 Declamazione esilarante, ricca di giochi di parole, conclusa da una battuta finale, ochi, che può non avere un forte collegamento con il resto della storia. Anche il rakugo deriverebbe dalle spiegazioni dei testi classici, ma con un’impostazione rivolta fin dalle origini al solo intrattenimento.

vedremo, è molto interessante il rapporto con lo shakudai e l’utilizzo del corpo rispetto ad esso.

Ritornando alla presenza del testo, va aggiunto che sebbene nelle biografie un po’ leggendarie dei kōdanshi più famosi, tra i quali il già citato Tanabe Nankaku I, si narri che le capacità mnemoniche eccezionali avessero reso possibile non avere più dinanzi il testo scritto, l’eliminazione di esso sul palco, unito al ruolo fondamentale dello hariōgi, metterebbero in evidenza come l’espressività emotiva, così come le pose facciali dell’artista, fossero diventate sempre più un punto di attrazione per il pubblico e un aspetto nel quale cimentarsi per i declamatori. In questo cambiamento, secondo il kōdanshi Kyokudō Konanryō IV (Nishino Yasuo), si vedrebbe l’influenza del kabuki che avrebbe stimolato una maggiore riflessione sulla recitazione.5

Un altro esempio del rapporto fra declamatore e testo scritto, è il verbo utilizzato per la recitazione di un kōdan che è yomu, “leggere” appunto, che si contrappone allo hanasu, o talvolta kataru, “raccontare”, ad esempio del rakugo, il genere dei wagei che ha avuto uno sviluppo parallelo al kōdan e che spesso è utile considerare come termine di paragone, riproducendo essi nei secoli un rapporto di rivalità e di interscambio che fa pensare a quello tra il kabuki e il jōruri. All’interno della “lettura” del kōdan, la declamazione è arricchita, come abbiamo visto, da spiegazioni fatte anche attraverso lo hikigoto, la “citazione”, nelle quali trapela l’interpretazione e il punto di vista del declamatore. Quindi, uno dei punti di originalità del kōdan deriverebbe proprio dall’essere un esempio di yomu geinō (arte trasmessa attraverso la lettura) in cui le due parti di trasmissione e commento diventano un insieme difficile da distinguere.6

Le trame dei kōdan, fin dalle prime opere di ispirazione storica e religiosa, hanno sempre dei precisi riferimenti temporali a personaggi storici, avvenimenti accaduti, e non trattano in maniera universale, come è il caso del rakugo, tipi o maschere umani. Il kōdan richiede, o deve far presumere di avere, una base di documentazione, mentre il rakugo può trarre maggiormente ispirazione dalla realtà. Ma l’imponenza del testo scritto si allea paradossalmente, creando una felice combinazione artistica, con un fondamentale principio estetico-narrativo del kōdan, quello del dover raccontare un insieme di verità e invenzione, presentandolo in modo da farlo apparire una realtà indubitabile. Di conseguenza la parola d’ordine per alludere al kōdanshi diventa mitekita yō na uso o tsuki, un “bugiardo che racconta delle falsità come se le avesse viste”. A rendere possibile ciò è proprio l’autorità testuale simboleggiata dallo shakudai. Un altro modo di evidenziare questo concetto si evince dal riferimento a uno dei generi principali, i jitsurokumono “cronache autentiche”, dove, nell’ironica spiegazione degli artisti, il termine vorrebbe in realtà significare che nei kōdan basati su cronache storiche, la realtà (jitsu), non costituisce che il 60 per cento (roku – wari –), il rimanente 40 per cento sono bugie.7

A proposito della recitazione, se un rakugoka deve riprodurre e quasi imitare

5 Kyokudō, 2006, c, p. 13.

6 Imaoka, 2005, p. 101.

7 La frase può essere rintracciata in molte fonti, in particolare cfr. Tanabe Kōji, Yume no kyōen. Kōdan

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una maniera di parlare e di ragionare tipica di un determinato ceto sociale, il

kōdanshi deve avere sia l’abilità del monomane (mimesi), sia quella di parlare

secondo un ritmo (5/7/5) più o meno incalzante a seconda della scena, scandendo i momenti con lo hariōgi. Le tematiche e la struttura retorica hanno caratterizzato fin dall’inizio il kōdan come un’arte che veniva declamata davanti alle folle dei templi, dei matsuri e delle grandi arterie di comunicazioni, ma veniva anche rappresentata nelle residenze dei nobili e dei signori feudali (zashiki kōshaku), arrivando perfino a essere presentata al cospetto degli shōgun Tokugawa. Questo privilegio venne ben sfruttato da uno dei primi nomi di declamatori rimasti nella tradizione, Itō Enshin, il quale chiese e ottenne dalle autorità Tokugawa di poter declamare ovunque, non solo all’interno di templi e santuari, e di costruire una pedana (kōza), la prima all’interno dello Yushima Tenjin, trattando, a differenza di altri declamatori, importanti argomenti storici e cronache di battaglie che avevano come protagonisti i Tokugawa. Ciò aggiunse simbolicamente un’altra valenza al

kōdan: quella di un’arte che guarda dall’alto in basso la massa degli ascoltatori

nonché gli altri generi del teatro popolare di strada (daitōgei). Il prestigio del kōdan si consolida durante tutto il periodo Tokugawa quando vengono costruiti dei piccoli teatri dedicati alle arti declamatorie, gli yose, che arrivano fino al numero di 170. I declamatori, che nel momento di maggior splendore pare raggiungessero anche il numero di 500, avevano una funzione di giornalisti, o critici, ruolo che fu drasticamente ridotto dalle Riforme dell’era Tenpō (1841-1843).

Del periodo Tokugawa conosciamo ampiamente il repertorio, trascritto negli anni a cavallo con l’era Meiji, ma di pochi testi conosciamo l’autore o colui che ha ideato un eventuale adattamento di storie già famose. Più di frequente infatti ai

kōdan di questo periodo viene associato il nome dell’artista al quale si deve la

migliore interpretazione, o di colui che ha portato alla fama un determinato personaggio. Anche nel periodo Edo esistevano le scuole, ma la popolarità era comunque basata sul genio e la fama dei singoli artisti, come Baba Bunkō o Morikawa Bakoku che determinarono una svolta verso una forma artistica vendibile e pubblicizzabile.

L’esistenza di un ampio repertorio, unito al successo del genere, porta in questi anni a una condivisione di trame molto interessante tra il kōdan, il kabuki e il jōruri. Infatti, se negli yose si riproducevano sinossi degli spettacoli troppo costosi per la massa, è altrettanto vero che le più ricche produzioni del kabuki e del jōruri prendevano ampiamente spunto dai testi costruiti per il kōdan. Essendo quest’ultima un’arte maggiormente a diretto contatto con il pubblico, era infatti più facile e rapido per i declamatori venire a conoscenza di episodi di cronaca o incidenti da adattare per le loro storie, e a questa inesauribile fonte di creazione si trovavano talvolta ad attingere gli autori di drammi kabuki o jōruri. Anche il famoso Takeda Izumo II (1691-1756) pare che inizialmente fosse attivo proprio nel genere del kōdan di cui conservò alcune impostazioni artistiche, e su molti titoli diventati ‘classici’, come Kanadenhon chūshingura (Il manuale sillabico: il magazzino di vassalli fedeli, 1748), viene talvolta rivendicata la paternità del genere del kōdan.8

8 Aritake, 1973, p. 198; Takarai, 1971, p. 42.

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