mancante”, missing link, teoria che proponeva di rinforzare il lato debole del triangolo economico mondiale, per l’appunto la relazione euro-asiatica, allo scopo di bilanciare la solida relazione transatlantica e quella, ancora più forte, transpacifica. E proprio con l’obiettivo di rafforzare il legame tra Europa e Asia, nel 1996 fu costituito l’ASEM, l’Asia-Europe Meeting: in questo modo si riconosceva formalmente la necessità di un rapporto “unitario” e paritario, da regione a regione, tra l’UE e l’Asia, pur continuando, naturalmente, le relazioni bilaterali ad essere dominanti. Ma l’auspicata svolta non c’è stata: l’iniziale entusiasmo è stato tradito dalla tiepidezza dell’Europa. Come da più parti sottolineato, l’ASEM non è diventato una priorità tra le policies dell’UE, ma è rimasto un forum informale, una sorta di “talking shop” privo degli strumenti necessari per attuare concrete iniziative comuni.
Paradossalmente l’ASEM si sta rivelando un importante forum intrasiatico, contribuendo in misura significativa allo sviluppo del “regionalismo asiatico”, che a differenza di quello europeo è di gran lunga meno sviluppato e strutturato, ma anche più aperto e flessibile. Si pensi all’evoluzione dell’ASEAN che, nata nel Sud-Est Asiatico in funzione anticomunista, si è allargata alla collaborazione istituzionalizzata con Cina, Giappone e Corea del Sud (ASEAN+3), nonché con l’India nel settore della sicurezza attraverso l’ASEAN Regional Forum (ARF), di cui è membro anche l’UE. Purtroppo anche l’ARF, come l’ASEM, non riesce ad avere la capacità di andare al di là dei meri incontri formali.20
Bisogna riconoscere che non sono pochi i fattori oggettivi che rendono difficile un dialogo efficace tra l’Europa e l’Asia. In primo luogo, l’estrema diversità asiatica rispetto alla relativa omogeneità europea, segnatamente dell’UE anche dopo il suo allargamento a Est. La diversità asiatica è, infatti, geografica ed economica, sociale e politica, culturale e di scala. Essa comprende i due giganti demografici – la Cina e l’India, complessivamente quasi due miliardi e mezzo di abitanti - ma anche alcuni tra i più piccoli stati del mondo, come il Brunei e Singapore. Comprende alcuni dei paesi più ricchi del Pianeta (Giappone e Singapore) ma anche alcuni dei più poveri: otto stati asiatici figurano nella lista dei paesi meno sviluppati stilata dalle Nazioni Unite. L’Asia vanta la più popolosa democrazia del mondo, ma anche stati con sistemi politici fortemente autoritari e financo totalitari. Infine, questa regione, oltre a diventare il centro di gravità dell’economia globale, come
20 Sul regionalismo in Asia orientale e sul dialogo interregionale UE-Asia, cfr. Ueta - Remacle, 2005; Greco, 2006; Lanna, in c. di s.
annotava Zbgniew Brzezinski nel 1997,21 è anche teatro di forti tensioni e potenziali conflitti, in larga parte ferite lasciate aperte dalla Guerra Fredda (che peraltro in Asia è stata fin troppo “calda”): la divisione della penisola coreana (con Pyongyang che “gioca” al ricatto nucleare - strategia di brinkmanship) e la delicata questione di Taiwan; poi il Kashmir, lo Sri Lanka, l’Afghanistan, l’Ace ecc.. Si aggiunga che ben cinque potenze nucleari sono concentrate nell’Asia Orientale e Meridionale (AOM).
Indubbiamente questa estrema e multiforme diversificazione dell’AOM rende particolarmente difficile costruire una relazione UE-Asia monolitica, cioè con una singola linea politica egualmente valida nell’intera regione; tuttavia, se l’UE vuole realmente svolgere un ruolo importante su scala mondiale, evitando la possibile marginalizzazione derivante dalla fine del bipolarismo, non può non rafforzare la relazione euro-asiatica. In effetti, non mancano i fattori che predispongono al dialogo. Innanzitutto, non avendo l’UE – a differenza degli Stati Uniti – mire strategiche nella regione, la relazione non è “inquinata” da considerazioni concernenti la sicurezza. In secondo luogo, entrambe le regioni sono accomunate dalla stessa agenda, dovendo far fronte agli stessi problemi derivanti dalle tensioni internazionali (in primo luogo dal terrorismo internazionale), dalla degradazione ambientale con il possibile diffondersi di pandemie, per non parlare delle sfide poste da quella “camicia di forza dorata” che è la globalizzazione. Ma soprattutto entrambe sono impegnate a favorire il multilateralismo nei rapporti internazionali e il multipolarismo a livello sistemico, a rafforzare le istituzioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite, le norme e le procedure tecniche. Sotto questo profilo, entrambe le regioni dell’Eurasia si differenziano dall’Iperpotenza che, nel difendere il suo unilateralismo e l’attuale sistema unipolare, privilegia principi ideologici e valori assoluti di cui si ritiene depositaria e in nome dei quali fa anche guerre preventive. In definitiva, quel che si vuol sottolineare è che dal punto di vista geoculturale, mentre si allarga il divide tra le due sponde dell’Atlantico sulla stessa concezione della legittimità e la stessa natura del potere, si avverte invece una convergenza tra le periferie eurasiatiche, che sono sedi di “antiche civiltà” ma nel contempo anche patrie di “nuovi attori” della scena internazionale: le potenze europee sono attori “nuovi” perché rigenerate dopo due guerre mondiali fratricide, che hanno tinto di sangue l’intero “secolo breve” (nella prima metà soprattutto l’Europa e nella seconda solo l’Asia); le potenze asiatiche perché rigenerate da un secolo d’umiliazione coloniale, dall’olocausto atomico e da guerre con milioni e milioni di morti fatte sotto la bandiera del bipolarismo e prodotte dalla logica della Guerra Fredda (guerra di Corea, guerra del Vietnam, guerra dell’Afghanistan…). Si comprende pertanto che le due periferie – dopo tante guerre - tendano a preferire rispettivamente Kant a Hobbes e l’armonia confuciana all’attivismo volontaristico di Wang Shouren (Wang Yangming).22
Più in generale, sembra che le due regioni si trovino di fatto in una situazione che con una qualche approssimazione possiamo definire un possibile “fronte
21 Brzezinski, 1997.
Ripristinare la “Via della seta” 1627 comune di resistenza” (o di controbilanciamento) nei confronti dell’Iperpotenza, la quale persegue – come abbiamo visto - obiettivi e metodi troppo spesso divergenti da quelli dell’Europa e dell’Asia. Nell’obiettivo di rendere il sistema internazionale multipolare, tale fronte potrebbe facilmente coinvolgere l’intero Gruppo di Shanghai, quindi Russia e Repubbliche centro-asiatiche.
Per quanto riguarda specificamente la Cina, con il consolidamento del potere di Hu Jintao, si è accentuato il discorso apparentemente “diseologizzato” e centrato sui concetti di ispirazione confuciana, come la ricerca dell’armonia (hexie) e la “fusione senza confusione” (he er bu tong) dell’Altro. Quest’ultima espressione - he
er bu tong - fu usata da Confucio per esprimere la capacità che ha l’uomo virtuoso
di “armonizzarsi” (he) empaticamente con l’Altro, cioè senza assimilarsi ma conservando la propria identità (bu dong). E questo detto confuciano può essere interpretato come un modo costruttivistico di gestire la diversità culturale attraverso “la fusione (he) ma non la confusione (bu dong) di orizzonti culturali diversi”, per ricorrere alla celebre formula usata da Hans Georg Gadamer per definire l’“incontro con il diverso”.23 L’esplicito richiamo a questa norma della tradizione confuciana da parte della Quarta Generazione attualmente al potere a Pechino può essere considerato come un messaggio di collaborazione che l’Europa dovrebbe raccogliere per far fronte - appunto - alla gestione della diversità culturale che, insieme all’iniquità sociale e alla sostenibilità ambientale, costituisce oggi una delle tre grandi sfide che la comunità internazionale deve affrontare.
In effetti, come più volte è stato sottolineato in contributi curati da Adolfo Tamburello,24 il vero problema nei rapporti tra Europa ed Asia non è affatto, o almeno non è tanto, quello economico che con o senza la camicia di forza della globalizzazione può essere risolto. Il vero problema è la mancanza di dialogo, un dialogo che possa fornire un nuovo paradigma per adeguatamente affrontare i problemi derivanti dal radicalizzarsi delle diversità culturali. Infatti, alla crescente globalizzazione economica non corrisponde affatto l’universalizzazione dei valori occidentali, come incautamente si era da più parti proclamato alla caduta del Muro di Berlino e alla fine della contrapposizione tra le due grandi ideologie - il Liberalismo e il Socialismo marxista. - entrambe ideologie assolutistiche e universalistiche figlie dell’Europa ottocentesca. Niente “fine della storia” (come teorizzava F. Fukuyama), o “nuovo ordine internazionale” (come incautamente proclamava il Presidente Bush Senior) o ancora villaggio globale: la storia continua più drammatica di prima e con il suo solito disordine.25
La verità è che alla globalizzazione economica si sta accompagnando non l’universalizzazione dei valori occidentali ma la rivalutazione delle specificità culturali, “l’indigenizzazione delle culture”, vale a dire il radicalizzarsi dei processi identitari su base culturale, etnica, tribale e soprattutto religiosa. Questi due fattori
23 L’armonizzazione senza confusione ricorda l’inculturazione di cui abbiamo parlato a proposito del Valignano. Volpi - Mazzei, 2008.
24 Particolarmente significativo a questo riguardo è la monumentale opera da lui progettata e diretta sui rapporti tra il Giappone e l’Italia (Tamburello, 2003).
(diffusione su base planetaria delle strutture capitalistiche e radicalizzazione dei processi identitari spesso sotto forma fondamentalista) combinandosi con gli effetti della rivoluzione tecnologica e informatica e di imponenti flussi migratori determinano la diffusione di situazioni di interculturalità, che è la connotazione socio-culturale specifica del mondo di oggi. Oggi, infatti, questa è rilevante a tutti i livelli: nelle quotidiane relazioni interpersonali (quando ad esempio in tram s’incontra l’extra-comunitario), nella negoziazione commerciale come nei rapporti interstatali, quando – ad esempio - devono discutere di diritti umani Stati Uniti e Cina, che sono potenze appartenenti a culture che vedono in modo molto diverso il rapporto tra individuo e comunità.
Come gestire la diversità culturale senza provocare scontri? E’ l’interrogativo a cui dobbiamo rispondere se effettivamente vogliamo un mondo di pace, senza violenza. Personalmente, sono convinto che a questo fine è necessario evitare sia “il pessimismo essenzialista” di realisti culturali come Huntington sia “l’ottimismo teleologico” di globalisti come Francis Fukuyama, Thomas Friedman o anche Antony Giddens. Quello di cui noi oggi abbiamo bisogno è un cambio di paradigma: da una parte un approccio collaborativo, winwin, come si dice nel gergo del business, cioè che miri a creare vantaggi per entrambi gli attori (create
values) e non ad ottenere un guadagno a danno dell’altro (claim values); dall’altra un
“dialogo costruttivistico” che implichi una reale volontà di “comprenderne dal di dentro la diversità che è fuori” e quindi una nuova pietas, che si potrebbe definire
post-moderna, basata cioè non sulla virtù illuministica della tolleranza (che ha già
provocato troppe guerre) ma sul “rispetto dell'altro”. E il rispetto nasce dalla comprensione del diverso e, nel contempo. dalla consapevolezza che le varie culture – che costituiscono il più grande patrimonio dell’Uomo - devono pacificamente convivere in una dimensione nuova in cui si combina globalità
tecno-economica e diversità culturale.26
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