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L impatto delle neuroscienze sul diritto penale

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Academic year: 2022

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Leopold – Franzens – Universität Innsbruck

Diplomarbeit

Zur Erlangung des akademischen Grades einer Magistra der Rechtswissenschaften

L’impatto delle neuroscienze sul diritto penale

Eingerichtet bei:

Assoz. Prof. Mag.a Dr. Margareth Helfer

Von:

Martina Maiorano

Innsbruck, im November 2018

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INDICE

1. Introduzione ... 1

2. Le neuroscienze ... 3

2.1. Radici storiche. Cesare Lombroso ... 3

2.2. Le moderne neuroscienze ... 5

2.2.1. Neuroscienze forensi ... 6

2.2.2. Neuroscienze criminologiche ... 7

2.2.3. Neuroscienze normative ... 8

2.3. Metodi neuroscientifici. Brain imaging ... 10

2.3.1. PET, EEG, TAC, Brain Fingerprinting ... 11

2.3.3. Memory detection ... 16

2.4. L’anatomia della violenza ... 18

2.4.1. Il cervello aggressivo: le basi cerebrali del controllo degli impulsi ... 19

2.4.1.1. Il caso Phineas Gage ... 21

2.4.1.2. Cervello malato ... 21

2.4.2. Genetica comportamentale ... 23

2.4.2.1. Geni e ambiente ... 23

2.4.2.2. Il gene MAO-A ... 25

3. Le neuroscienze in tribunale ... 27

3.1. Il complesso rapporto tra scienza e diritto ... 27

3.2. La nuova prova scientifica ... 28

3.2.1. Dai criteri Daubert alla sentenza Cozzini ... 30

3.2.2. Ammissibilità ... 31

3.2.2.1. Art. 188 c.p.p. Libertà morale e ricerca della verità... 33

3.2.2.2. Il ruolo degli esperti ... 35

3.2.3. Assunzione ... 36

3.2.4. Valutazione. Il ruolo del giudice ... 37

3.3. L’elemento soggettivo del reato. La mens rea ... 38

3.3.1. Imputabilità e colpevolezza ... 40

3.3.2. Neuroscienze e responsabilità criminale ... 41

3.3.3. L’elemento soggettivo nei reati economici ... 43

3.4. La prova neuroscientifica nella capacità di intendere e di volere. Casi esemplari ... 45

3.5. La prova neuroscientifica nella valutazione dell’attendibilità del dichiarante. Il caso di Cremona ... 48

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4. L’esperienza statunitense ... 50

4.1. Un sistema più aperto ... 50

4.3. Campi di applicazione delle neuroscienze al diritto penale ... 53

4.3.1. Diminished capacity ... 55

4.3.2. Caso Weinstein ... 57

4.3.3. Neuroscienze e imputabilità minorile. Il caso Roper v. Simmons ... 58

5. Neuroscienze ed etica del diritto: dal libero arbitrio al significato della pena ... 61

5.1. Prima parte. La questione filosofica: tra libertà e determinismo ... 61

5.1.1. Una nuova disciplina: la Neuroetica ... 61

5.1.2. Azione volontaria e libertà cosciente. Gli esperimenti di Libet ... 62

5.1.2.1. Implicazioni sul concetto di libero arbitrio ... 65

5.1.2.2. Il vantaggio di credere nel libero arbitrio ... 67

5.2. Seconda parte. Aspetti critici e prospettive future ... 69

5.2.1. Ritorno alla Scuola Positiva? ... 69

5.2.2. La pericolosità sociale ... 71

5.2.2.1. Distinzione tra diagnosi e prognosi ... 73

5.2.2.2. Le conseguenze sanzionatorie per i non imputabili. Dagli OPG alle REMS ... 75

5.2.3. Il significato della pena alla luce dell’impostazione neuroscientifica ... 77

Conclusioni ... 81

Abstract ... 84

Bibliografia ... 86

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1

1. Introduzione

Da alcuni anni, sta crescendo in maniera considerevole l’attenzione rivolta ai progressi delle neuroscienze, un complesso multidisciplinare che si occupa di indagare i correlati neuronali dei comportamenti umani. Alla base delle teorie neuroscientifiche si colloca il concetto fondamentale, secondo il quale i pensieri della mente umana non sono altro che il risultato di connessioni sinaptiche, mere immagini cerebrali; di conseguenza, le neuroscienze perseguono l’obiettivo di poter spiegare qualsiasi tipo di fenomeno mentale e di comportamento umano, anche quelli più complessi, semplicemente attraverso la comprensione del funzionamento del cervello1. A partire dalle novità emerse grazie allo studio della nostra mente, si è sollevato un dibattito, ancora oggi molto acceso, che ha coinvolto una molteplicità di saperi, quali il diritto, la scienza, la filosofia, l’etica e la sociologia. In questo lavoro mi occuperò, in particolare, delle interazioni tra neuroscienze e diritto penale, senza, tuttavia, tralasciarne i risvolti filosofici ed etici, fondamentali e necessari per un’analisi completa della tematica.

Il primo capitolo riguarderà un’introduzione alle cosiddette neuroscienze cognitive, il cui percorso logico consiste nel risalire agli elementi neurobiologici, alle componenti genetiche e al loro funzionamento molecolare, partendo dal comportamento umano2, in particolare per comprendere le origini delle condotte criminali. Saranno esaminati, da un lato, i contributi della genetica molecolare e comportamentale, quale base del funzionamento psicologico, che influenza la nostra personalità e il nostro comportamento; dall’altro, i progressi scientifici nell’ambito dell’imaging cerebrale, metodo che, attraverso le moderne neurotecnologie, permette di visualizzare variazioni dell’attività cerebrale.

Il secondo capitolo affronterà la questione delle modalità e dei limiti di ingresso della cosiddetta prova neuroscientifica nei tribunali italiani; si vedrà, anche attraverso l’esposizione di casi giurisprudenziali, come si inserisce il sapere neuroscientifico nel processo penale e in che cosa consiste il ruolo degli esperti (i periti ed il consulente tecnico). L’impatto delle neuroscienze sul diritto penale sembra tradursi nella messa in dubbio degli istituti giuridici su cui si regge il nostro sistema penale: si analizzeranno, così, i concetti di responsabilità, imputabilità e colpevolezza alla luce delle nuove scoperte, cercando di capire se sia il caso di prospettarne una riforma o meno. Conseguenza inevitabile di un approccio neuroscientifico nei processi, nei quali, secondo il codice penale del nostro Paese, per poter condannare il soggetto imputato, è

1 BIANCHI A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio, in BIANCHI A./GULOTTA G./SARTORI G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè, Milano, 2009, p. XIII.

2 BIANCHI A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio, cit., p. XIV.

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2 necessaria la sussistenza di requisiti fondamentali, tra cui quello soggettivo della colpevolezza, è la messa in discussione del concetto di libero arbitrio; l’art 85 c.p, infatti, determina i criteri di imputabilità dell’illecito e la conseguente punibilità del soggetto, indicando come imputabile solamente chi ha la capacità di intendere e di volere, nel momento in cui compie il fatto illecito3. È necessario, dunque, ai fini dell’assoggettabilità alla condanna, che non solo sia stato compiuto il fatto, ma anche che sia stato compiuto volontariamente: sono questi gli elementi mentali connessi alla responsabilità, definiti da alcuni giuristi mens rea. Ci si interroga, quindi, su quale sia il trattamento da riservare ad individui che commettono crimini e che presentano alterazioni cerebrali, siano esse morfologiche, quindi legate alla forma ed alla struttura anatomica, o funzionali, quindi connesse alla funzionalità dell’organo in questione.

Nel terzo capitolo verrà fatta luce, attraverso un’analisi di natura comparatistica, sull’esperienza statunitense relativa al dilagare del fenomeno neuroscientifico; verranno, anche qui, menzionati alcuni casi svoltisi, con l’introduzione di strumentazioni neuroscientifiche, dinanzi alle Corti americane, con particolare riferimento alla delicata questione dell’imputabilità minorile.

Il quarto, ed ultimo, capitolo sarà suddiviso in due parti. La prima riguarderà le implicazioni etiche e filosofiche: le neuroscienze, a tal proposito, sembrano costituire una minaccia alla dottrina del libero arbitrio, perché, dando una spiegazione dei meccanismi comportamentali attraverso dati biologici, suggeriscono il fatto che l’individuo non abbia un pieno controllo delle proprie azioni, facendo, così, venir meno l’elemento volitivo del soggetto. Già negli anni Ottanta, erano stati condotti esperimenti dal neurofisiologo Benjamin Libet, che dimostravano come la coscienza dell’intenzione sia successiva alla programmazione motoria, suggerendo quindi un controllo ridotto dell’individuo sull’azione, la quale incomincia a livello neurale, mentre l’intenzione conscia subentra solo successivamente4. La seconda parte tratterà, invece, gli aspetti critici delle neuroscienze, con particolare riferimento alle posizioni più radicali di alcuni studiosi e le prospettive future. Si presterà attenzione agli effetti che differenti approcci alla tematica possono produrre sull’istituto giuridico della pena e sul giudizio di pericolosità sociale, connesso all’adozione delle misure di sicurezza. In conclusione, si cercherà di capire se sia condivisibile il timore di molti circa la possibilità che le neuroscienze finiscano per rivoluzionare l’intero sistema penale o se, invece, l’ordinamento giuridico non risentirà in alcun modo dei progressi scientifici, o ancora, se sia prospettabile, in futuro, un compromesso tra scienza e diritto.

3 FIANDACA G./MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, VII ed., 2014.

4 LIBET B., Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 2007.

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3

2. Le neuroscienze

2.1. Radici storiche. Cesare Lombroso

L’approccio delle neuroscienze può risultare, ad un’analisi superficiale, figlio della nostra epoca5, mentre, in realtà, affonda le sue radici in tempi più remoti: già a partire dal XIX secolo, diversi studiosi avevano manifestato il proprio interesse verso la ricerca di un possibile legame intercorrente tra cervello e comportamento umano, partendo dai risultati delle analisi cerebrali effettuate durante le autopsie. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, emerge in Italia un nuovo concetto di reato, potenzialmente capace di rivoluzionare il paradigma penalistico dell’epoca, sviluppatosi grazie alle tesi di Cesare Lombroso sul delinquente nato. Le teorie di Lombroso si basano su un concetto fondamentale: la possibilità di spiegare il crimine ed ogni manifestazione di devianza6 attraverso l’analisi del substrato biologico dell’essere umano; il suo obiettivo era quello di sostituire lo studio astratto del reato con lo studio diretto ed empirico del criminale, attraverso l’uso di mezzi scientifici diretti ad accertare, misurare e catalogare i dati ottenuti. Gli studi lombrosiani si concentravano, al contrario di quanto generalmente si pensa, non solo sul volto del criminale e sulla sua conformazione cranica, ma anche sul suo linguaggio verbale o corporeo, fino a giungere a una spiegazione multifattoriale7 del crimine e, più in generale, di qualsiasi comportamento umano non rientrante nei canoni di normalità. Così Lombroso descrive l’impostazione della Scuola positiva, a cui aderiva:

“Tutto il sistema penale attuale prende quindi come base della pena l’atto materiale delittuoso e ne punisce l’autore a seconda della sua gravità, invece la Scuola positiva di diritto penale sostiene che i criminali non già delinquano per atto cosciente e libero di volontà malvagia, ma perché hanno tendenze malvagie, tendenze che ripetono la loro origine da una organizzazione fisica e psichica diversa da quella dell’uomo normale […]”8.

Il delinquente viene analizzato da Lombroso da un punto di vista medico-anatomico:

conformazione del cranio, delle braccia, degli zigomi, della fronte, analisi degli istinti morali e, infine, la storia familiare e sociale del criminale; l’autore del reato è posto ora al centro dell’indagine e lo si studia non più come fonte di prova, ma come enigma psicologico da

5 MUSUMECI E., Cesare Lombroso e le neuroscienze: un parricidio mancato, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 17.

6 MUSUMECI E., Cesare Lombroso e le neuroscienze: un parricidio mancato, cit., p. 27.

7 GIBSON M., Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. XVII.

8 LOMBROSO G., L’uomo delinquente in relazione all’antropologia, alla giurisprudenza ed alle discipline carcerarie/Cesare Lombroso; riduzione di Gina Lombroso, Bocca, Torino, 1924, Parte prima, Cap. IV.

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4 risolvere in vista di una diagnosi accurata di pericolosità9. Al riguardo, nascono, così, polemiche e discussioni che tuttora trovano terreno fertile. Da un lato, le accuse di determinismo biologico e di cancellazione del concetto di libero arbitrio provenienti dalla Scuola cattolica, dall’altro, i rimproveri circa la mancanza di rigore scientifico e l’alto grado di superficialità nel dedurre le cause, partendo da determinati effetti10. Non solo: aspramente criticato è anche il concetto lombrosiano di razza, che alcuni ritengono essere utilizzato dall’antropologo per suggerire un legame tra quest’ultima e il compimento di determinati delitti, senza prendere in considerazione ulteriori fattori ai fini di un’analisi completa; oltre a ciò, le polemiche si concentrano anche sulla presunta capacità predittiva dell’antropologo, in riferimento all’individuazione di coloro che in futuro potrebbero delinquere, riducendo così fenomeni sociali complessi a categorie antropologiche11.

Nonostante le critiche mosse al pensiero di Lombroso e, in particolare, alle possibili ripercussioni prospettate sul piano penale e non solo, pare inevitabile rilevare un certo parallelismo tra le teorie lombrosiane e i concetti che stanno alla base del moderno modello neuroscientifico. Il progresso scientifico e tecnologico, che ha permesso agli studiosi moderni di effettuare ricerche su più ampia scala e dotate di un maggiore grado di oggettività, ha portato, senza dubbio, all’individuazione di numerosi difetti ed errori scientifici con riferimento agli studi lombrosiani, ma ha anche dimostrato come il principio cardine su cui si fondano le moderne neuroscienze corrisponda esattamente al nucleo dell’intera riflessione della Scuola positiva: l’agire delittuoso può essere, in qualche misura, determinato da una patologia di carattere neurologico.

Un altro aspetto convergente riguarda le conseguenze giuridiche che derivano, secondo i neuroscienziati più radicali12, da un’interpretazione del crimine in chiave biologica; perderebbe di senso, infatti, qualsiasi interpretazione di carattere moralistico-retributiva, e il modello classico della pena dovrebbe essere sostituito con un modello impostato sulle misure di sicurezza, assegnate in seguito a diagnosi di pericolosità sociale, che abbia come scopo primario quello della difesa sociale. Ci si chiede, dunque, se il moderno paradigma neuroscientifico, non sia, in realtà, una riproposizione in chiave attuale di un’impostazione criminologica già

9 ALTAVILLA E., Nuove arringhe, Treves, Napoli, 1949, p. 7.

10 PARETO, Opere, Torino, 1980, p. 115; vedi anche TARDE G., Il tipo criminale. Una critica al “delinquente nato”

di Cesare Lombroso, Ombre Corte, 2010.

11 PARETO, Opere, cit., p. 115.

12 Vedi GREENE J./COHEN J., For the law, neuroscience changes nothing and everything, in ZEKI S./GOODENOUGH O.R. (a cura di), Law and the Brain, Oxford University Press, Oxford, 2004; FORZA A., Le neuroscienze entrano nel processo penale, in Rivista penale, 2010, 1, p. 78.

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5 conosciuta in passato: potrebbe trattarsi, infatti, del tentativo di attribuire una base scientifica al medesimo concetto filosofico, ossia il fondamentale determinismo13 dell’agire umano14.

2.2. Le moderne neuroscienze

Il termine Neuroscienze indica un campo interdisciplinare di studi che si occupa dell’anatomia, della fisiologia, della biochimica, delle patologie del sistema nervoso centrale e periferico, dei suoi effetti sul comportamento e delle esperienze mentali; in questa indagine sono coinvolti molti livelli, da quello molecolare a quello cellulare, a quello dei sistemi intermedi, fino all’insieme di tutte le componenti e dei loro collegamenti15.

Le neuroscienze raggruppano molte discipline scientifiche diverse tra loro, ma accomunate da un unico obiettivo: riuscire a comprendere e spiegare ogni tipo di fenomeno mentale e di comportamento umano, anche quelli più complessi, cercando di analizzare il modo in cui la mente emerge dal suo substrato biologico, ossia il cervello. Negli ultimi decenni, lo sviluppo scientifico ha permesso ai neuroscienziati di esplorare non solo i correlati neurali dei comportamenti patologici o devianti, ma anche il normale funzionamento cerebrale durante l’esecuzione di compiti controllati, intrecciandosi, così, con i modelli della psicologia e della neuropsicologia cognitiva e venendo a creare le cosiddette “neuroscienze cognitive”: si tratta dello studio dei correlati fisici delle funzioni mentali superiori, quali la memoria, l’attenzione e il linguaggio. Le neuroscienze comportamentali si occupano, invece, delle basi neurologiche della condotta personale, con riguardo, ad esempio, all’influenza ormonale e della variabilità genetica16.

A questa analisi è necessario aggiungere, inoltre, l’importanza del fattore evolutivo e delle componenti culturali, educative e ambientali di ogni essere umano, elementi che, al contrario di quanto spesso si pensa, non vengono assolutamente trascurati, né tantomeno negati, dalle neuroscienze17.

Le ricerche compiute negli ultimi anni in ambito neuroscientifico hanno provocato una rivoluzione scientifica, che ha reso necessario il superamento della dicotomia tra psiche e

13Determinismo: concezione della realtà secondo la quale tutti i fenomeni del mondo sono collegati l’un l’altro e si verificano secondo un ordine necessario e invariabile (il che esclude la presenza del libero arbitrio), in Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/determinismo/, consultato il 20.07.2018.

14 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, Torino, 2012, pp. 122-128.

15 DI GIOVINE O., Neuroscienze (diritto penale) (voce), in Enc. Dir., Annali, VII, Milano, 2014, p. 711 ss.

16 BIANCHI A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio, in BIANCHI/GULOTTA/SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè, Milano, 2009, pp. XIII-XIV.

17 BIANCHI A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio, in BIANCHI/GULOTTA/SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., pp. XIV-XV.

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6 soma18, non più sulla base di valutazioni astratte, ma sulla base di evidenze scientifiche documentate19. È necessario, di conseguenza, comprendere come i processi fisiologici che vengono comunemente definiti “mente” derivano non dal solo cervello, ma da un insieme strutturale e funzionale, ossia l’intero corpo che interagisce con l’ambiente. Questa concezione ha preso le mosse dall’esame di pazienti con danni neurologici ad una determinata area cerebrale, in cui oltre alla perdita di capacità decisionale, emergeva un’alterazione non indifferente della capacità di provare emozioni e sentimenti. Proprio con riferimento al tema dell’inscindibilità tra mente e corpo, spiegava Damasio, neurologo e neuroscienziato:

“[…] ma via via che studiavo i disturbi della memoria, del linguaggio e della ragione, presenti in numerosi esseri umani colpiti da lesioni al cervello, sempre più mi si imponeva l’idea che l’attività mentale, nei suoi aspetti più semplici come in quelli più alti, richiede sia il cervello sia il resto del corpo. Quest’ultimo, a mio avviso fornisce al primo molto più che un puro sostegno e una modulazione: esso fornisce la materia di base per le rappresentazioni cerebrali”20.

2.2.1. Neuroscienze forensi

Uno degli ambiti più importanti sul quale le neuroscienze sono destinate a produrre un impatto, riguarda quello forense, in particolare la rilevanza dei dati neuroscientifici ai fini della costituzione di una valida prova scientifica all’interno del processo e della conseguente valutazione giudiziaria21; oltre a ciò, le neuroscienze forensi si riferiscono anche alle tecniche neuroscientifiche suscettibili di fare ingresso ed essere utilizzate all’interno dei tribunali. Il tema della prova neuroscientifica e, più in generale, del ruolo che sta assumendo in questi anni il sapere neuroscientifico nella aule di giustizia, verrà trattato, in modo più approfondito, nei capitoli seguenti; è importante, invece, sottolineare, qui, come la questione assuma un valore culturale, oltre che giuridico, il che emerge dal grande dibattito sul ruolo della scienza nei processi. In particolare, risulta significativo lo studio sul rapporto esistente tra diritto e psichiatria, il quale ha evidenziato come, da un lato, il diritto abbia sempre cercato una

18 ROSSI F., L’approccio delle neuroscienze al problema mente-cervello, in Psicologia sociale, Il Mulino, 1/2006, pp. 37-44; si tratta del superamento delle concezioni derivanti dal dualismo cartesiano, circa l’assoluta inconciliabilità tra gli ambiti dell’indagine biologica sulla funzione neurale e quelli dell’analisi filosofica o psicologica sull’attività mentale. Mente e cervello sono due facce inscindibili della stessa medaglia.

19 ONNIS L., Mente e corpo: un’unità ritrovata. Dalle scoperte neuroscientifiche alle implicazioni per la psicoterapia, in ONNIS L. (a cura di), Una nuova alleanza tra psicoterapia e neuroscienze. Dall’intersoggettività ai neuroni specchio. Dialogo tra Daniel Stern e Vittorio Gallese, FrancoAngeli, Milano, 2015, p. 132.

20 DAMASIO A., L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995, p. 25.

21 SAMMICHELI L./SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, in BIANCHI/GULOTTA/SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè, Milano, 2009, p. 17.

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7 giustificazione razionale nelle scienze psichiatriche e, dall’altro, queste ultime abbiano trovato, nel riconoscimento giuridico, una forma di legittimazione22. Questo tipo di rapporto viene riproposto ora, alla luce delle moderne neuroscienze: da una parte, i giudici cercano strumenti che possano rendere le loro decisioni razionalmente fondate, dall’altra, le neuroscienze vedono, nel loro utilizzo nei tribunali, una sorta di legittimazione ufficiale23.

2.2.2. Neuroscienze criminologiche

Può essere ricondotto al gruppo delle cosiddette neuroscienze criminologiche, lo studio del fenomeno criminale compiuto attraverso le moderne tecniche neuroscientifiche; in questo caso, non si ha a che fare con possibili applicazioni processuali, ma si tratta di un approccio di carattere naturalistico. Emergono in questo ambito, in particolar modo, tracce lombrosiane, dal momento che l’obiettivo delle neuroscienze criminologiche è quello di “disegnare una geografia neuro-comportamentale del soggetto criminale”24.

Grazie alle attuali conoscenze scientifiche, è stato possibile ipotizzare, infatti, un legame intercorrente tra comportamento violento e anti-sociale e anomalie a livello cerebrale. Molti studi hanno evidenziato, ad esempio, una correlazione tra disfunzioni dei lobi temporali e frontali e comportamento ripetutamente violento, storie di aggressioni e di omicidi; sono state riscontrate differenze a livello di struttura cerebrale tra soggetti afflitti da un disturbo antisociale e soggetti sani, tra cui una diminuzione della sostanza grigia nella corteccia prefrontale e una diminuzione del volume dell’ippocampo posteriore; inoltre, è stato evidenziato un diverso tempo di attivazione nei lobi temporali di soggetti psicopatici, riscontrato grazie all’analisi di parole dotate di una forte carica emotiva25.

Da un lato, dunque, le neuroscienze criminologiche sembrano prospettare una migliore comprensione del fenomeno criminale, ma dall’altro, le conseguenze proiettate sul piano giuridico e criminologico non risultano nuove: sembra suggerirsi un ritorno al concetto di

22 SAMMICHELI L./SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, cit., p. 18.

23 SAMMICHELI L./SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, cit., pp. 17-18.

24 SAMMICHELI L./SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, cit., p. 28.

25 Vedi VOLKOW N.D./TANCREDIB L.R./GRANT C./GILLESPIE H./ VALENTINE A./MULLANI N./ WANG G.L./HOLLISTER L., Brain glucose metabolism in violent psychiatric patients, in Psychiatry Res, 61, 1995, pp. 243- 253; RAINE A./BUCHSBAUM M./LACASSE L., Brain abnormalities in murders indicated by positron emission tomography, in Biol. Psychiatry, 60, 1997, pp. 495-508; SODERSTROM H. et al., Reduced frontotemporal perfusion in psychopathic personality, in Psychiatry Res., 114, 2002, pp. 81-94.

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8 determinismo biologico della criminalità, in base al quale il soggetto criminale è semplicemente malato e va messo, di conseguenza, nella condizione di non nuocere agli altri, facendo, così, perdere di senso la funzione retributiva della pena e il principio di responsabilità. E’ necessario, quindi, valutare quali potrebbero rivelarsi le conseguenze pratiche di una tale impostazione scientifica, conseguenze che avrebbero un peso notevole non solo sul piano giuridico, ma anche su quello etico e sociale26.

2.2.3. Neuroscienze normative

Il concetto di “neuroscienze normative” riguarda lo studio, condotto mediante i metodi delle neuroscienze, del senso di giustizia in generale e dei meccanismi neuropsicologici attraverso i quali si struttura la costruzione spontanea di una norma giuridica; altro significato viene attribuito, invece, alle cosiddette “neuroscienze legislative”, le quali riguardano gli eventuali contributi dati dalle neuroscienze alla stessa genesi legislativa di una norma giuridica: si può fare riferimento, ad esempio, all’eventualità di una eliminazione del sistema retributivistico della pena, che prende le mosse da una visione neuro-deterministica dell’agire criminale27. All’interno della categoria delle neuroscienze normative, vengono incluse sia le ricerche sul ragionamento morale, che si occupano di analizzare l’attività di determinate aree cerebrali nel momento in cui l’individuo si trova di fronte ad un cosiddetto “dilemma morale”28, permettendo di evidenziare una dinamica interattiva tra processi cognitivi e processi emozionali, sia le ricerche sulla possibile esistenza di un circuito neurale che possa segnalare l’adeguatezza sociale di un determinato comportamento29. Riguardo a queste ultime, sono stati condotti degli studi, grazie all’utilizzo di una tecnica neuroscientifica, la Risonanza magnetica funzionale (di cui parleremo in modo più approfondito in seguito): sottoponendo degli individui a stimoli

26 SAMMICHELI L./SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, cit., pp. 29-30.

27 SAMMICHELI L./SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, cit., p. 32.

28 Esempio di dilemma morale impersonale: Un treno fuori controllo viaggia verso cinque persone, che saranno investite se il treno non sarà in qualche modo deviato. L’unico modo per salvarle è premere un interruttore che faccia deviare il treno su un altro binario, sul quale è presente una persona. Devieresti il treno per salvare cinque persone a scapito di una?

Esempio di dilemma morale personale: Un treno fuori controllo viaggia verso cinque persone, che saranno investite se il treno non sarà in qualche modo deviato. L’unico modo per salvarle è spingere sui binari un uomo corpulento che si trova nelle vicinanze, tra il treno in corsa e le cinque persone. Condanneresti a morte un uomo per salvare la vita di altre cinque persone?

Vedi SAMMICHELI L./SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, cit., p. 34.

29 SAMMICHELI L./SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, cit., pp. 33-34.

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9 esterni, in base ai quali avrebbero potuto scegliere che tipo di comportamento adottare, è emerso come lo stesso circuito neurale si attivasse nel caso di un comportamento sociale “adeguato”, sia che questo avesse carattere compassionevole, sia natura aggressiva. Da ciò risulta, dunque, evidente la presenza di un sistema comune che controlla la messa in atto di un comportamento socialmente adeguato, indipendentemente dalla sua natura30.

All’interno della categoria delle neuroscienze normative, con particolare riferimento all’ambito della cognizione sociale, sollevano grande interesse anche le scoperte sulla funzione sociale dei cd. neuroni specchio. Si tratta di una scoperta di rilevante importanza, che vede come prestigioso rappresentante il ricercatore Vittorio Gallese31; i neuroni specchio sono dotati della particolare caratteristica di attivarsi non solo nel momento in cui si compie una determinata azione, ma anche quando si osserva la stessa azione compiuta da un altro, e abbracciano, oltre alla sfera motoria, anche quella percettiva ed emozionale, fino a costituire un dato fondamentale per quanto riguarda la dimensione dei processi di identificazione e dell’empatia32. Da ciò emerge una predisposizione dell’uomo, anche a livello neurobiologico, all’intersoggettività, il che porta a una convergenza tra ambiti apparentemente distanti tra loro, come la neurobiologia e la psicologia, i quali sono portati a confrontarsi e a dialogare33; di conseguenza, l’ipotesi che sia possibile riconoscere le azioni altrui attraverso una simulazione del comportamento osservato, grazie, appunto, all’attivazione dei neuroni specchio, getta luce sulla questione dell’immediatezza intuitiva con cui si realizzano i giudizi attributivi e, conseguentemente morali34.

30 KING J.A./BLAIR R.J./MITCHELL D./DOLAN R./BURGESS N., Doing the right thing: a common neural circuit for appropriate violent or compassionate behaviour, in Neuroimage, 2006, 30, pp. 1069-1076.

31 Vittorio Gallese è Professore ordinario di Fisiologia presso il Dipartimento di Neuroscienze della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Parma, Coordinatore del Dottorato in Neuroscienze e direttore della Scuola Dottorale di Medicina e Chirurgia e Medicina Veterinaria del medesimo Ateneo e dal 2010 anche Adjunct Senior Research Scholar, presso il Dept. of Art History and Archeology della Columbia University di New York. Egli si occupa di ricerche multidisciplinari che indagano le possibili applicazioni dei neuroni specchio.

32 ONNIS L., Introduzione. Psicoterapia e neuroscienze: un dialogo possibile, in ONNIS L. (a cura di), Una nuova alleanza tra psicoterapia e neuroscienze. Dall’intersoggettività ai neuroni specchio. Dialogo tra Daniel Stern e Vittorio Gallese, FrancoAngeli, Milano, 2015, p. 17.

33 ONNIS L., Introduzione. Psicoterapia e neuroscienze: un dialogo possibile, cit., pp. 17-19.

34 SAMMICHELI L., SARTORI G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, cit., p. 36.

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10

2.3. Metodi neuroscientifici. Brain imaging

I recenti sviluppi tecnologici e scientifici hanno aperto la strada verso l’indagine circa la possibile correlazione non solo tra le connessioni neuronali e il comportamento umano, ma anche tra queste e i fenomeni mentali più complessi: in particolare, la neuroanatomia permette oggi di analizzare la struttura del cervello e la sua funzionalità, consentendo, in tal modo, di rilevare eventuali anomalie cerebrali ed alterazioni strutturali relative ad alcune aree del cervello, tra cui amigdala, ippocampo, talamo, ipotalamo, nucleo caudato e setto pellucido.

Fondamentali per questo tipo di indagine sono gli strumenti di visualizzazione cerebrale, brain imaging, tra cui, ad esempio, la Risonanza Magnetica Funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI), la Tomografia ad Emissione di Positroni (Positron Emission Tomography, PET), la Tomografia Assiale Computerizzata (TAC), l’Elettroencefalografia (Electroencephalogram, EEG), la Magnetoencefalografia (Magnetoencephalography, MEG).

Queste tecniche si occupano dello studio diretto dell’attività cerebrale durante l’esposizione a una stimolazione emotiva o durante la risposta comportamentale in condizioni fisiologiche e renderebbero possibile sia riscontrare una componente neurobiologica nel processo decisionale e comportamentale di tipo automatico e involontario, sia nel giudizio morale e sociale35. Gli studi di brain imaging vengono impiegati, in questo ambito, relativamente all’indagine sui comportamenti violenti ed antisociali; in particolare, il risultato più replicato con riferimento a questi comportamenti è il ridotto funzionamento del lobo frontale, il quale sarebbe responsabile delle cosiddette funzioni esecutive del cervello, capaci di influenzare la personalità e la coscienza sociale dell’individuo36. Attraverso una meta-analisi di 43 studi di imaging funzionale e strutturale, sono state individuate all’interno del lobo centrale tre aree, le quali hanno presentato le maggiori riduzioni: la corteccia orbitofrontale, la corteccia del cingolo anteriore e la corteccia dorsolaterale prefrontale. La prima viene coinvolta nei processi di decision-making, di apprendimento per ricompense e punizioni e di elaborazione delle emozioni; l’importanza della seconda emerge in relazione ai processi di apprendimento per errore e al monitoraggio delle situazioni conflittuali; la terza è associata all’attenzione, alla flessibilità cognitiva e, con molta probabilità, al comportamento aggressivo, posto che una sua scarsa funzionalità porta a un mancato controllo degli impulsi37. Lesioni della corteccia

35 COLLICA M.T., Gli sviluppi delle neuroscienze sul giudizio di imputabilità, in Diritto penale contemporaneo, rivista online, 2018, pp. 2-5.

36 MERZAGORA I./PIZZOLI S., Neuroscienze e rischio di criminalità violenta, in BERTOLINO M./UBERTIS G., Prova scientifica, ragionamento probatorio e decisione giudiziale, Jovene Editore, Napoli, 2015, p. 334.

37 YANG Y./RAINE A., Prefrontal structural and functional brain imaging findings in antisocial, violent, and psychopathic individuals: a meta-analysis, in Psychiatry Res., 2009, p. 81 ss.

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11 orbitofrontale, prefrontale e della corteccia del cingolo anteriore portano non solo allo sviluppo di comportamenti aggressivi, ma anche alla mancanza di empatia; questi risultati sono emersi, in particolare, osservando soggetti “normali” da un punto di vista psicologico e comportamentale, i quali, dopo aver subito un danno neurologico nelle aree appena citate, mostravano improvvisamente un elevato livello di aggressività e inclinazioni ad un comportamento aggressivo ed antisociale.

Un’altra regione cerebrale di notevole importanza nell’indagine circa la correlazione tra cervello e comportamento antisociale è l’amigdala, la quale risponde in modo diverso a seconda delle differenti situazioni cognitive, emotive e comportamentali, ed è coinvolta, in particolare, nel riconoscimento delle emozioni negative e della paura. Gli individui che presentano un danno dell’amigdala, infatti, soffrono di una ridotta percezione del pericolo, provano meno paura e mostrano una tendenza a interpretare negativamente gli stimoli sociali ambigui. Inoltre, è possibile operare una distinzione a seconda del tipo di disfunzionalità di questa regione: coloro che mostrano un tipo di aggressività premeditata e “fredda”, accompagnata da una ridotta capacità emotiva, presentano tipicamente una riduzione del funzionamento e del volume dell’amigdala; coloro che mostrano, invece, tratti impulsivi e un’aggressività di carattere esplosivo, presentano un’attività amigdalare eccessiva38.

Nonostante questi risultati suggeriscano possibili legami tra alterazioni cerebrali e comportamento aggressivo o criminale, gli esperimenti effettuati utilizzano dati sperimentali di tipo correlazionale, i quali impediscono, da un lato, di poter rilevare in che modo vari nel tempo il legame tra le variabili in gioco, dall’altro, di stabilire un nesso causale tra le stesse. Le evidenze raggiunte dai neuroscienziati nel corso degli ultimi anni rappresentano, senza dubbio, grandi passi avanti nello studio dei correlati di rischio neuroscientifici per la predizione del comportamento violento, ma risulta, allo stesso tempo, necessario approfondire le ricerche e replicare i risultati in vista di un approfondimento degli effetti osservati, così come è necessario utilizzare una certa cautela nell’interpretazione dei dati39.

2.3.1. PET, EEG, TAC, Brain Fingerprinting

Le moderne metodiche di esplorazione del cervello, che permettono di misurare i parametri di attività cerebrale dell’essere umano vivente in modo non invasivo e in differenti condizioni sperimentali, prendono le mosse da studi più remoti, condotti attraverso l’uso di tecnologie

38 Cfr. COCCARO E.F. et al., Amygdala and orbitofrontal reactivity to social threat in individuals with impulsive aggression, in Biol. Psychiatry, 2007, p. 168 ss.

39 MERZAGORA I./PIZZOLI S., Neuroscienze e rischio di criminalità violenta, cit., p. 319 ss.

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12 arretrate, che gettano, però, le basi di una ricerca neuroscientifica ancora oggi in via di sviluppo.

A questo proposito, il primo studio di cui si ha conoscenza risale al 1881, quando il fisiologo italiano Angelo Mosso, durante l’osservazione di un paziente colpito da una lesione della teca cranica, notò delle pulsazioni, al di sotto delle meningi, dovute allo scorrere del sangue nei vasi cerebrali; riuscendo a misurare queste pulsazioni, il fisiologo riuscì a dimostrare che queste variavano a seconda di che cosa facesse il paziente. Di conseguenza, si poté constatare come l’attività mentale fosse legata a fenomeni fisici che avvengono nel cervello e che si possono addirittura misurare40. Partendo dai risultati ottenuti attraverso gli studi di Mosso, assistiamo oggi allo sviluppo di tecniche che consentono di misurare gli indici indiretti di attività neuronale-sinaptica, visualizzando, così, l’attività cerebrale pressoché in tempo reale41.

Una delle tecniche di neuroimaging è la Tomografia a Emissione di Positroni (PET): essa si occupa di produrre immagini del corpo, ottenute per mezzo di traccianti marcati con dei radiofarmaci iniettati nel paziente; in questo modo, è possibile registrare le radiazioni emesse dai positroni dei tessuti in analisi, arrivando ad ottenere informazioni di carattere quantitativo e qualitativo. Se si misura l’attività cerebrale di un soggetto con gli occhi chiusi, si può notare che il flusso ematico nella zona della corteccia visiva risulta minore rispetto alle altre regioni cerebrali, mentre se la stessa analisi viene compiuta quando il soggetto ha gli occhi aperti, la corteccia visiva presenta un’attività metabolica maggiore, dovuta al fatto che i neuroni lavorano di più per processare gli stimoli sensoriali che giungono attraverso la vista42. Grazie a queste tecniche è possibile anche esaminare meccanismi cerebrali più complessi, come quelli coinvolti in funzioni mentali ritenute difficilmente analizzabili scientificamente, quali, ad esempio, le emozioni e il rispetto di regole morali e sociali. Anche la Tomografia Assiale Computerizzata (TAC) riveste una fondamentale importanza in questo ambito, infatti si tratta di un’indagine morfo-funzionale radiologica di elevato potere risolutivo: le radiazioni, che vengono trasformate in impulsi elettrici, permettono di ottenere immagini di sottili strati del corpo indagato, consentendo un approfondito studio del sistema nervoso centrale e dell’encefalo.

Oltre a questo tipo di analisi, si sono sviluppate metodologie di ricerca che utilizzano misurazioni dell’attività elettrica cerebrale: posto che i neuroni dialogano tra loro attraverso

40 PIETRINI P./BAMBINI V., Homo ferox: il contributo delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti aggressivi e criminali, in BIANCHI/GULOTTA/SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., pp. 45-46.

41 MERZAGORA BETSOS I., Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano, 2012, pp. 79-80; PIETRINI P., La macchina della verità alla luce delle recenti acquisizioni delle neuroscienze, in Cassazione penale, fasc. 01, 2008, pp. 408-409; PIETRINI P./BAMBINI V., Homo ferox: il contributo delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti aggressivi e criminali, in BIANCHI/GULOTTA/SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., pp. 45-46.

42 PIETRINI P., La macchina della verità alla luce delle recenti acquisizioni delle neuroscienze, cit., p. 409.

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13 delle microcorrenti elettriche che trasferiscono l’impulso nervoso da un neurone all’altro43, l’Elettroencefalografia (EEG) consente di misurare questi potenziali elettrici, in maniera non invasiva, attraverso l’applicazione di elettrodi allo scalpo dell’individuo sottoposto all’esame.

Mettendo a confronto le tecniche elettroencefalografiche e la Risonanza Magnetica Funzionale (di cui parlerò più avanti), si evince una minore capacità delle prime di riconoscere come distinti due eventi vicini nello spazio, ma una maggiore capacità a livello temporale – cioè di riconoscere come separati nel tempo due eventi vicini – perché queste misurano direttamente il fenomeno elettrico neuronale.

Appartenente allo stesso ordine di tecniche di indagine cerebrale è, inoltre, la Magneto- encefalografia (MEG), la quale misura il campo magnetico generato dall’attività elettrica dei neuroni: essa permette di creare una mappa dell’organizzazione funzionale del cervello, con una risoluzione spaziale inferiore al centimetro e una temporale dell’ordine del millisecondo.

Anche queste tecnica, così come l’EEG, misura direttamente l’attività elettrica cerebrale attraverso un approccio per nulla invasivo, ed il suo scopo principale è quello di identificare, nel tempo e nello spazio, la sede cerebrale di una determinata funzione nervosa44.

Una tecnica di neuroimaging che potrebbe rivelarsi particolarmente utile durante le indagini relative ad un determinato crimine è il Brain Fingerprinting, un metodo improntato sull’analisi dell’onda P300. Quest’onda assume rilievo in risposta a stimoli sensoriali e varia la sua ampiezza a seconda che risponda a stimoli familiari o non familiari: in questo modo, sarebbe possibile stabilire, ad esempio, se un soggetto mostri familiarità con un determinato oggetto presente sulla scena del crimine. Tuttavia, il metodo in questione è ancora lontano dall’ottenere un riconoscimento scientifico di carattere oggettivo, soprattutto per quanto riguarda la specificità della risposta. Un’onda P300 di ampiezza maggiore, infatti, significa solamente che il cervello ha recepito un’immagine come più familiare rispetto ad altre, ma, partendo da questo dato, risulta difficile stabilire un necessario legame causale con un determinato atto criminale;

senza tenere conto, poi, delle possibili interferenze legate a traumi, ricordi o ad associazioni mentali difficilmente spiegabili45.

43 PIETRINI P., La macchina della verità alla luce delle recenti acquisizioni delle neuroscienze, cit., p. 412.

44 PIETRINI P., La macchina della verità alla luce delle recenti acquisizioni delle neuroscienze, cit., pp. 412-413.

45 PIETRINI P., La macchina della verità alla luce delle recenti acquisizioni delle neuroscienze, cit., p. 413.

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14 2.3.2. Lie detection

Riuscire a leggere nella mente delle persone e poter stabilire con certezza se queste stiano dicendo la verità è un argomento che ha affascinato gli studiosi fin dall’antichità. In tempi più recenti sono nati strumenti che si sono proposti come obiettivo quello di misurare dei parametri oggettivi, i quali possano indicare, con un certo grado di specificità, se in un determinato momento un individuo stia dicendo la verità o meno. Le prime tecniche sperimentate si basano sulla misurazione di indici periferici suscettibili di rapide variazioni relativamente allo stato emotivo del soggetto esaminato, tra cui la frequenza respiratoria, la frequenza cardiaca e la conduttanza palmare; il presupposto su cui si fonda l’analisi di questi parametri è che l’attività del mentire comporta, innanzitutto, l’inibizione della risposta ritenuta vera e, successivamente, la volontaria attivazione di una risposta sostitutiva riconosciuta come falsa46. La menzogna, intesa come atto innaturale e non spontaneo, dunque, indurrebbe la persona che mente in modo consapevole a compiere uno sforzo mentale maggiore, in quanto inibire la risposta veritiera e fabbricarne una falsa richiederebbe un processo mentale qualitativamente e/o quantitativamente diverso, rispetto a quello che richiederebbe dire la verità47.

Nel tentativo di sviluppare tecnologie accurate, gli studiosi hanno sperimentato diverse metodologie finalizzate a valutare la veridicità di una versione, che possono distinguersi in:

strumenti di lie detection, con l’obiettivo di valutare se la risposta di un soggetto sia veritiera o menzognera, e strumenti di memory detection, con l’obiettivo di identificare una traccia di memoria nel cervello del soggetto.

Tra i metodi di lie detection più studiati emerge la figura del Poligrafo con Control Question Test (CQT). Si tratta di uno strumento che rileva le reazioni neurovegetative, quali pressione arteriosa, frequenza cardiaca e sudorazione, a determinate domande relative al crimine su cui si sta indagando; confrontando queste reazioni con quelle a domande di cui si conosce la risposta, sarebbe possibile stabilire se il soggetto stia dicendo la verità oppure stia mentendo, a seconda che le reazioni esaminate risultino sovrapponibili tra loro o meno. Il poligrafo può essere applicato con l’utilizzo della metodologia CQT, per mezzo della quale si confrontano le reazioni fisiologiche delle risposte verbali a una domanda critica con quelle relative alle risposte a domande di controllo: le domande critiche sono riferite direttamente al crimine, quelle di controllo, invece, a comportamenti, avvenuti sicuramente, ai quali il soggetto deve rispondere.

Se la risposta alla domanda critica è veritiera, il profilo della risposta fisiologica dovrebbe

46 SARTORI G./AGOSTA A., Menzogna, cervello e lie detection, in BIANCHI/GULOTTA/SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè, Milano, 2009, p. 165.

47 PIETRINI P., La macchina della verità alla luce delle recenti acquisizioni delle neuroscienze, cit., p. 407 ss.

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15 essere simile a quello esaminato in seguito alla domanda di controllo48. Successivamente, partendo dal presupposto che un maggiore sforzo mentale, richiesto nel momento in cui un soggetto mente, comporti un diverso coinvolgimento di diverse aree cerebrali, è stato messo a punto un sistema di lie detection basato sulla Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI): con questo strumento è possibile da un lato, confrontare e misurare la variazione nell’attività cerebrale indotta dalla bugia con quella relativa alla risposta veritiera, dall’altro, localizzare con elevata precisione le aree cerebrali coinvolte nella produzione della bugia49. In particolare, è stato condotto un esperimento durante il quale i partecipanti dovevano mentire riguardo ad una carta da gioco pescata da un mazzo; sullo schermo di un computer appariva, di volta in volta, una carta e i partecipanti dovevano affermare di possederla o meno, mentre, come compito di controllo, essi dovevano semplicemente indicare se la carta apparsa sullo schermo fosse il cinque di cuori. Dal confronto tra i pattern50 di attività neuronale associati alle diverse condizioni, è emersa una maggiore attivazione di alcune aree della corteccia dei lobi frontali e del cingolo anteriore nel soggetto che mentiva volutamente; a tal proposito, risulta interessante osservare come la zona della corteccia del cingolo anteriore si attivi proprio durante l’esecuzione di compiti che prevedono l’inibizione della risposta automatica, quella più semplice, indice del fatto che l’atto di mentire richieda, come prima attività, quella di inibire la risposta veritiera51.

Tuttavia, molte sono le critiche mosse finora all’attendibilità e alla validità di tali strumenti, tali da poter giustificare un loro utilizzo sistematico. Innanzitutto, bisogna evidenziare che esistono delle contromisure sia fisiche che mentali (es. mordersi la lingua oppure contare all’indietro a partire da 100 sottraendo ogni volta il numero 7) suscettibili di alterare i risultati52; inoltre, i metodi di lie detection non misurano direttamente la menzogna, ma il modo in cui reagisce il sistema nervoso in seguito ad un evento stressante e, di conseguenza, una reazione di imbarazzo o di stress potrebbe essere facilmente confusa con una reazione originata da una bugia. Senza contare i casi relativi a persone capaci di mentire senza batter ciglio o a persone che, a causa di un disturbo psicopatologico, mentono senza sapere di mentire. In casi del genere, la cosiddetta

“macchina della verità” prenderebbe come buone affermazioni false, ma riportate in buona fede.

Infine, un altro importante limite all’affidabilità di questi strumenti consiste nel fatto che,

48 SARTORI G./AGOSTA S., Menzogna, cervello e lie detection, cit., pp. 168-170.

49 SARTORI G./AGOSTA S., Menzogna, cervello e lie detection, cit., p. 170.

50 Pattern: struttura ripetitiva, schema ricorrente.

51 LANGLEBEN D.D./SCHROEDER L./MALDJIAN J.A./GUR R.C./McDONALD S./RAGLAND J.D./O’BRIEN C.P./CHILDRESS A.R., Brain activity during simulated deception: an event-related functional magnetic resonance study, in Neuroimage, 2002, vol. XV, p. 727 ss.

52PIETRINI P., La macchina della verità alla luce delle recenti acquisizioni delle neuroscienze, cit., pp. 407-408.

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16 durante gli esperimenti, i partecipanti, solitamente giovani e sani, sono istruiti ad eseguire compiti cognitivi ben definiti e a mentire ad una semplice e specifica questione. Di conseguenza, una ridotta collaborazione del soggetto nel corso dell’esperimento potrebbe portare a risultati difficilmente interpretabili. Per ovviare ad alcuni di questi problemi, sarebbe necessario creare un paradigma sperimentale ad hoc costruito in modo tale che le varie domande abbiano lo stesso peso, cosicché la rilevanza emotiva, la difficoltà di ricostruzione del fatto, il contenuto visivo immaginativo ecc. dovranno essere calibrate nelle diverse condizioni; se così non fosse, le differenze nel pattern di risposta cerebrale potrebbero essere connesse semplicemente al diverso carico cognitivo che comporta un differente grado di attivazione proprio delle stesse strutture dei lobi frontali53.

2.3.3. Memory detection

Per quanto riguarda i metodi diretti ad identificare una traccia di memoria - memory detection – rilevanti sono il Poligrafo con Guilty Knowledge Test (GKT) e l’Autobiographical Implicit Association Test (a-IAT). La registrazione poligrafica basata sulla tecnologia GKT segue principi scientifici più solidi rispetto al CQT (cfr. cap. primo, par. 3.2) e permette di rilevare una differenza tra un aspetto critico del crimine, conoscibile solo dall’imputato sospettato, e aspetti simili, ma irrilevanti. In particolare, vengono presentati al soggetto oggetti banali o situazioni dal contenuto solitamente indifferente e, conseguentemente, misurate le reazioni emotive: colui che riconosce ciò che gli viene presentato come associato al crimine da lui commesso, rivela reazioni fisiologiche distintive. Il GKT utilizza domande, le quali prevedono una risposta rilevante – con riferimento al crimine in questione – e diverse alternative di controllo: in tal modo, la persona innocente non sarebbe in grado di distinguere le risposte rilevanti da quelle di controllo e presenterebbe risposte fisiologiche identiche per tutte le opzioni. Nonostante la sua validità, l’utilizzo sistematico di questo metodo è, comunque, limitato da alcuni fattori, ad esempio dal fatto che l’informazione critica deve essere necessariamente nota solo al sospettato colpevole: può succedere, in alcuni casi, che persone innocenti siano giunti a conoscenza di determinati dettagli relativi al crimine in questione per mezzo della stampa, senza necessariamente averne avuto una conoscenza diretta sul luogo del delitto54.

Più vicino ai criteri necessari per una possibile applicazione in ambito forense è l’Autobiographical – Implicit Association Test (a-IAT). Questo metodo, a differenza dei

53 PIETRINI P., La macchina della verità alla luce delle recenti acquisizioni delle neuroscienze, cit., p. 412.

54 SARTORI G./AGOSTA S., Menzogna, cervello e lie detection, cit., pp. 172-174.

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17 precedenti, non si basa sulla rilevazione della menzogna, ma permette di identificare la traccia mnestica che si trova nella mente del soggetto esaminato; si tratta di un metodo di detenzione della memoria implicita e la conoscenza riguardo al fatto oggetto dell’indagine si ricava indirettamente da una combinazione nei tempi di reazione dell’individuo. L’a-IAT costituisce una modificazione innovativa dell’Implicit Association Test (IAT), strumento che stabilisce l’associazione tra concetti in base alla latenza delle risposte. Nello specifico, lo IAT consiste in una serie di prove di categorizzazione: in ciascuna prova, al partecipante viene richiesto di classificare uno stimolo apparso sul monitor del computer, nella maniera più accurata e più veloce possibile. Gli stimoli consistono, normalmente, in immagini o parole ed appartengono a quattro categorie differenti: due di queste rappresentano concetti (es. donne e uomini), le altre due rappresentano due attributi opposti (es. positivo e negativo). Il partecipante può utilizzare solo due tasti di risposta, quindi a ciascuno dei tasti corrispondono due categorie di risposta; se nella rappresentazione cognitiva di una persona è presente un’associazione tra un concetto ed un attributo, i tempi di classificazione saranno molto rapidi, mentre, quando i concetti associati richiedono risposte differenti, i tempi di reazioni saranno più lenti. Nella variante dello IAT, ossia l’a-IAT, non si identifica il livello di associazione tra concetti, ma si indaga sull’esistenza di una traccia della memoria autobiografica; vengono utilizzate così, non solo parole ed immagini, come nello IAT, ma frasi che consentono di verificare il reale grado di conoscenza fattuale relativa a determinati eventi autobiografici, normalmente esprimibili per mezzo di frasi.

È possibile, dunque, stabilire quale tra due versioni alternative è quella veritiera55.

Questa metodologia mostra notevoli vantaggi rispetto a quelle di lie detection descritte in precedenza, per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, gli esperimenti effettuati tramite l’a-IAT presentano un livello di accuratezza di oltre il 90%, con ulteriori margini di miglioramento e, di conseguenza, l’identificazione della traccia di memoria segnala percentuali di errore molto basse56. L’a-IAT, inoltre, dimostra una particolare resistenza avverso i tentativi di alterazione volontaria dei risultati, nonostante sia comunque possibile ottenere una certa alterazione da parte di soggetti opportunamente addestrati; ad ogni modo, per mezzo di questo strumento, è addirittura possibile identificare il soggetto che altera intenzionalmente i risultati, mentre per gli altri metodi ciò rappresenta un grande ostacolo57. Oltre a ciò, ulteriori vantaggi riscontrabili altrettanto importanti sono il costo contenuto rispetto ad altre metodologie più costose, quali la fMRI; un tempo di somministrazione breve (circa dieci minuti, contro le ore di una fMRI);

55 Sull’argomento lie detection e memory detection vedi anche LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello.

La mente tra scienza e diritto, Codice Edizioni, Torino, 2012, p. 202 ss.

56 SARTORI G./AGOSTA S., Menzogna, cervello e lie detection, cit., p. 188.

57 SARTORI G./AGOSTA S., Menzogna, cervello e lie detection, cit., pp. 188-190.

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18 un’analisi di tipo algoritmico, il cui risultato si ottiene in modo automatico, a differenza del poligrafo e dell’fMRI che necessitano le competenze di esperti che hanno affrontato un lungo addestramento; la mancanza di limitazioni di utilizzo simili a quelle del GKT.

Gli impieghi di questa tecnica di memory detection possono essere molteplici, in particolare in fase di indagini, in cui l’a-IAT può identificare dei soggetti potenzialmente collegati all’attività criminosa; ma anche nell’ambito processuale, la difesa potrebbe trarre vantaggio dal suo utilizzo, ad esempio per dimostrare l’innocenza di un imputato in un processo costruito su indizi poco convincenti, attraverso la constatazione dell’inesistenza di una traccia di memoria, corrispondente all’ipotesi d’accusa, nella sua mente58. Nonostante il loro fascino, il mondo giuridico si dimostra ancora piuttosto restio – come si vedrà più avanti - all’ingresso nei tribunali di simili tecnologie, sia per questioni di carattere scientifico, dovute al loro difetto di oggettività e di certezza assolute, sia per questioni più strettamente giuridiche, legate ad alcune norme del Codice di Procedura Penale italiano, le quali limitano l’ammissibilità e la validità di strumenti del genere.

2.4. L’anatomia della violenza

“Mi misi dunque a studiare il delinquente nelle carceri e quivi un giorno mi imbattei in un brigante, il Vilella […]. Il Vilella essendo venuto a morte, in una fredda e grigia mattina di novembre, io ne feci l’autopsia, ed ecco, all’aprire del cranio, apparire all’occipite, proprio al punto dove ordinariamente si erge una cresta, una fossa che io chiamai occipitale mediana […]

e che corrispondeva ad una ipertrofia del Vermis, di quello che chiamano cervelletto mediano degli uccelli. Questo non fu solo un’ondata, ma un lampo rivelatore. Alla vista di quel cranio mi apparve ad un tratto, come una larga pianura sotto un infinito orizzonte, illuminato il problema della natura del delinquente”59.

È proprio a partire dalle intuizioni e dalle ricerche dell’antropologo Cesare Lombroso, tanto criticate da molti e considerate una parentesi buia per la scienza, che hanno preso spunto numerosi ricercatori e neuroscienziati, con l’intento di sviluppare il suo pensiero tramite un approccio più scientifico e moderno, soprattutto grazie all’aiuto dei progressi tecnologici riconosciuti in ambito neuroscientifico. L’assunto che sta alla base delle ricerche degli studiosi consiste nella concreta speranza di riuscire a combattere le cause del crimine, mediante una

58 SARTORI G./AGOSTA S., Menzogna, cervello e lie detection, cit., p. 174 ss.

59 LOMBROSO C., Prefazione al libro della figlia Gina: La nuova scuola penale riportata, in Archivio di Psichiatria, Scienze Penali ed Antropologia Criminale, 1910, fasc. 1-2.

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19 migliore comprensione delle origini dei comportamenti violenti ed antisociali.

Al giorno d’oggi, molti scienziati sono giunti ad affermare che esiste, in parte, una base evolutiva del crimine, il che getta le basi per un fondamento genetico e cerebrale del crimine:

l’anatomia della violenza60. I processi che delineano la violenza sono estremamente complessi e coinvolgono un’ampia serie di fattori eterogenei tra loro: dalle anomalie cerebrali strutturali, alla componente genetica, al funzionamento del sistema nervoso autonomo, ai fattori ambientali, evolutivi, sociali e familiari. È difficile rilevare con assoluta certezza le condizioni biologiche e sociali che portano alla commissione di un atto criminale, e, soprattutto, è difficile evidenziare un necessario nesso causale tra determinati fattori legati al soggetto delinquente e la commissione del delitto. Ciò nonostante, molti studi si sono occupati – e si occupano tuttora – di indagare possibili correlazioni a riguardo, partendo dall’analisi di dati oggettivi ed eseguendo esperimenti che hanno permesso, oggi, di raggiungere importanti risultati.

2.4.1. Il cervello aggressivo: le basi cerebrali del controllo degli impulsi

Grazie agli strumenti esaminati in precedenza, è stato possibile mettere a punto paradigmi sperimentali sempre più sofisticati ed analizzare l’attività cerebrale che supporta non solo funzioni mnemoniche, linguistiche o percettive, ma anche quelle più difficilmente esaminabili scientificamente, come le emozioni e il comportamento; è stato anche possibile confrontare i dati ottenuti circa il funzionamento cerebrale di popolazioni differenti, riuscendo, così, ad indagare gli effetti di variabili, quali le patologie, l’invecchiamento e l’apprendimento. Gli studi più recenti sono stati in grado di confrontare i correlati neurofisiologici del comportamento aggressivo in soggetti normali, criminali, e nelle diverse diagnosi psichiatriche61. L’aggressività ha sempre costituito un tratto costante nella storia dell’umanità e anche nell’esperienza umana individuale; in epoca contemporanea, in particolar modo, il tasso di aggressività è talmente aumentato da rappresentare un vero e proprio problema sociale62. Ma da dove deriva questa aggressività? Si è cercato, in primo luogo, di descrivere le basi neurali di questo genere di meccanismi, soprattutto per mezzo dell’indagine sul ruolo dell’area della corteccia frontale nella generazione e inibizione degli impulsi aggressivi, e si è giunti a constatare come, in seguito ad una lesione o malformazione di questa regione cerebrale, questi meccanismi possono risultare alterati e facilitare, così, reazioni aggressive.

60 RAINE A., L’anatomia della violenza. Le radici biologiche del crimine, Mondadori, Milano, 2016, p. 4.

61 PIETRINI P./BAMBINI V., Homo ferox: il contributo delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti aggressivi e criminali, in BIANCHI/GULOTTA/SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 47.

62 PIETRINI P./BAMBINI V., Homo ferox: il contributo delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti aggressivi e criminali, cit., p. 48.

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