3. Le neuroscienze in tribunale
3.3. L’elemento soggettivo del reato. La mens rea
Il concorso della volontà al fatto materiale rappresenta il cosiddetto elemento soggettivo o psicologico del reato. Grazie all’introduzione di questo elemento, è stato possibile superare le forme primitive di responsabilità oggettiva, in cui la responsabilità derivava dalla semplice presenza di un puro nesso di causalità materiale tra l’azione umana e l’evento dannoso127. L’art.
27 della Costituzione stabilisce la personalità della responsabilità penale, limitandola al fatto
126 RIVELLO P.P., La prova scientifica, in UBERTIS/VOENA (diretto da), Trattato di procedura penale (XVIII), cit., p.
172 ss.
127 ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale, Giuffrè, Milano, XVI ed., 2003.
39 proprio e colpevole; in tal modo viene aggiunto un elemento di rimproverabilità alla condotta oggettivamente illecita: la colpevolezza riguarda il rapporto tra fatto materiale, contrario all’ordinamento, quindi oggettivamente illecito, ed atteggiamento psicologico dell’autore.
Autorevole dottrina sostiene, a proposito, che “l’elemento soggettivo del reato è un fatto d’ordine naturale ed in particolare un fenomeno psicologico e, come tale, si aggiunge all’elemento oggettivo o materiale. […] Esso consiste in ogni caso in un comportamento psichico: in un atteggiamento della volontà dell’agente”128. L’affermazione del principio penalistico nulla poena sine colpa parte dal presupposto che l’uomo sia in grado, a differenza degli animali, di controllare i propri istinti e di reagire agli stimoli del mondo esterno scegliendo tra possibili condotte diverse, e di orientarsi secondo sistemi di valori129. Da ciò emerge un concetto di colpevolezza basato su una visione dell’uomo come essere capace di disporsi in relazione alle sue azioni, da cui deriva un’importante conseguenza: l’atteggiamento in relazione al comportamento è rimproverabile solo se l’atteggiamento nasce libero. È necessario, comunque, sottolineare che il giudizio di colpevolezza deve limitarsi al comportamento assunto dall’autore relativamente al fatto commesso, senza poter sfociare in un giudizio sulla personalità dell’autore; questo principio risulta, in primo luogo, dal divieto di perizia psicologica o criminologica stabilito nell’art. 220, co. 2, c.p.p. Il giudizio di colpevolezza, inoltre, deve necessariamente essere effettuato dal giudice, mentre accade, spesso, che il perito o il consulente scientifico passi da una valutazione sulla capacità di intendere e di volere ad una valutazione sul dolo e sulla colpa, finendo così per utilizzare la diagnosi psichiatrica al fine di fornire un giudizio sull’elemento soggettivo del reato.
Per quanto riguarda i metodi neuroscientifici che vengono utilizzati per indagare i correlati neurali della mens rea, si tratta, in questi casi, di effettuare una perizia neuroscientifica al fine di valutare l’elemento soggettivo del reato; è necessario, però, che questo tipo di perizia sia in grado di adattarsi alla struttura normativa del nostro ordinamento. Bisognerebbe, da un lato, evitare di partire da un presupposto riduzionistico nell’interpretazione del comportamento, che si porrebbe in contrasto con la visione giuridica dell’uomo libero di determinarsi, dall’altro, trovare una soluzione alla questione legale circa la differenza tra factum probans e factum probandum. L’evento storico oggetto del processo costituisce il factum probandum del giudice, al cui accertamento è finalizzato il processo, mentre i mezzi di prova del perito, intesi come elementi rappresentativi del fatto da provare, rappresentano il factum probans; i metodi di
128 ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale, cit.
129 FIANDACA G./MUSCO E., Diritto penale, Zanichelli, Bologna, VII ed., 2014.
40 neuroimaging, che si propongono di analizzare direttamente l’intenzione nel reato, costituiscono un factum probans del perito oppure lo stesso factum probandum del giudice130?
3.3.1. Imputabilità e colpevolezza
Ex art. 85 c.p., “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. L’imputabilità è la categoria giuridica che più si apre al contributo delle scienze del comportamento e rappresenta l’istituto che si occupa di regolare i casi in cui l’autore del reato manca dei requisiti psichici appartenenti al modello astratto di soggetto capace di autodeterminarsi131: se mancano tali requisiti, l’ordinamento rinuncia alla pretesa punitiva. Non mancano, in dottrina, contrasti riguardanti alcuni aspetti giuridici: un primo contrasto riguarda il rapporto tra imputabilità e colpevolezza. La posizione maggioritaria132 sostiene che, nonostante la disciplina dell’imputabilità sia rinvenibile nel nostro codice nel titolo relativo al reo e non in quello relativo all’elemento soggettivo, l’imputabilità sia da considerare presupposto della colpevolezza; si potrebbe collegare, così, il concetto di colpevolezza, intesa come rimproverabilità, solo ai soggetti capaci di intendere e di volere. In assenza di tale presupposto, verrebbe meno anche l’elemento costitutivo della colpevolezza133. Altri ritengono, invece, che sia necessario separare i due concetti: la colpevolezza, con i suoi elementi di dolo e colpa, determina l’esistenza del reato, mentre l’imputabilità produce conseguenze a livello di reazione dell’ordinamento, quindi pena o misura di sicurezza134. Il rapporto tra colpevolezza ed imputabilità comporta degli effetti non solo sul piano di astrattezza giuridica, ma anche su quello pratico; è proprio l’incertezza relativa al rapporto intercorrente tra i due concetti che pare essere la causa di quanto detto in precedenza, ossia della situazione che viene a crearsi in sede di consulenza scientifica: la perizia sulla capacità di intendere e di volere tende a sfociare in un accertamento dell’elemento soggettivo del reato135, facendosi carico il perito di competenze che non gli appartengono, e in una perizia sulla capacità del soggetto di compiere il reato, che indirettamente fornisce un indizio di responsabilità. In un simile quadro, l’imputabilità può definirsi come “il presupposto del presupposto della risposta penale: se da una parte non può esserci pena senza colpa (nulla poena sine culpa), dall’altra non può esserci colpa senza
130 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., pp. 46-50.
131 FIANDACA G./MUSCO E., Diritto penale, cit.
132 ROMANO M./GRASSO G., Commentario sistematico del codice penale, vol. 2, III ed., Giuffrè, Milano, 2005, p.
1.
133 ROMANO M./GRASSO G., Commentario sistematico del codice penale, cit., p. 3.
134 ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale, cit., p. 286.
135 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 52.
41 imputabilità”136.
Anche il rapporto tra l’imputabilità e il requisito di coscienza e volontà (art. 42, co. 1) appare controverso. Dal punto di vista giuridico, l’indagine su coscienza e volontà riguarda il fatto tipico, quindi la sussistenza di un atteggiamento psicologico necessario affinché un fatto materiale possa essere considerato comportamento umano137; l’imputabilità riguarda, invece, l’esistenza dei requisiti mentali necessari affinché un atteggiamento psicologico possa essere considerato rimproverabile. Sul piano pratico, però, “nel determinare l’attribuibilità (che attiene al fatto e, dunque, precede la valutazione dell’imputabilità, che riguarda il reo), ci si richiama a coscienza e volontà dell’autore (art. 42, co. 1) e come presupposto della colpevolezza si pone l’imputabilità concretizzata nella capacità di intendere e di volere: il fatto x è attribuito al soggetto s in quanto quest’ultimo lo ha commesso con coscienza e volontà (art. 42, co. 1), ma il soggetto s non è condannato in quanto incapace di intendere e di volere (art. 85)”138. L’impostazione normativa distingue la mancanza di nesso psichico dalla presenza di un nesso psichico malato: nei casi in cui l’azione risulta unicamente frutto di meccanismi cerebrali e slegata da una qualsiasi forma di coscienza e volontà, essa viene considerata dal diritto un puro accadimento naturale, qualcosa privo di natura umana e, di conseguenza, privo di reazioni giuridiche nei suoi confronti; nei casi in cui, invece, l’azione deriva da una mente malata, essa è considerata dal diritto azione umana, anche se priva di libero arbitrio, suscettibile, dunque, di provocare una reazione giuridica, attraverso l’utilizzo di misure volte a contrastare un’eventuale pericolosità sociale139.
All’interno di un simile panorama, il contributo che le neuroscienze vogliono garantire al diritto, facendosi portatrici di altri modi di vedere e pensare la mente ed il comportamento umano, si trova a fare i conti con questa impostazione giuridica. Gli esiti di questo incontro potrebbero essere molteplici: da un’integrazione priva di mutamenti sostanziali, ad una rivoluzione scientifico-culturale tale da necessitare una modificazione normativa.
3.3.2. Neuroscienze e responsabilità criminale
La responsabilità può essere definita come la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione140; secondo tale concezione,
136 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 53.
137LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 53.
138 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 53.
139 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 54.
140 SARTORI G./SCARPAZZA C., Cervello e responsabilità, in DE CARO M./LAVAZZA A./SARTORI G. (a cura di), Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società, Codice edizioni, Torino, 2013, p. 59.
42 il presupposto della responsabilità sarebbe la libertà: l’individuo è libero di scegliere che tipo di comportamento adottare. Di conseguenza, se egli non fosse libero di operare questa scelta, nel caso in cui potesse prevedere le ripercussioni delle proprie azioni, non sarebbe comunque in grado di comportarsi diversamente alla luce della sua previsione141. Per quanto riguarda il ruolo che possono assumere le neuroscienze nella considerazione neurobiologica della responsabilità criminale, è necessario, innanzitutto, prendere in considerazione il sistema di valutazioni che viene utilizzato nei processi per distinguere la responsabilità dell’autore di reato “normale” e quello “malato di mente”; come visto in precedenza, il sistema italiano fa uso, al fine di operare tale valutazione, dell’istituto dell’imputabilità, la cui causa tipica di esclusione è rappresentata dal vizio di mente. Ci si chiede, a tal proposito, se le neuroscienze possano rivelarsi utili nell’accertamento processuale della responsabilità. La prima questione riguarda la profonda diversità tra l’impostazione scientifica e quella giuridica: il problema si fonda sul tentativo di trovare un punto d’incontro in riferimento alla “pretesa di un ingresso di approcci toto corde riduzionistici all’interno di un modello penale implicitamente fondato su una visione dualistico-mentalistica dell’agire umano”142; il modello scientifico, quindi, non deve presentarsi in contrasto con l’impostazione giuridica, e l’impianto legislativo non può venire contrastato da una perizia, ma, se si presentasse la necessità, dovrebbe essere modificato in altra sede dal legislatore stesso. Risulta, poi, importante chiarire il fraintendimento circa il presunto necessario legame tra l’applicazione al processo delle neuroscienze e la conseguente attenuazione della pena. Si rivelano emblematici, a tal proposito, alcuni casi giurisprudenziali, che verranno analizzati meglio in seguito, in cui il particolare patrimonio genetico dell’imputato ha giocato un ruolo importante all’interno del processo; il clamore che si è sollevato intorno a queste sentenze è dovuto al fraintendimento circa la considerazione del contributo della genetica come diretto fattore attenuante della pena. In realtà, la riduzione della pena non era legata ad una limitazione della responsabilità penale per via di un’anomalia genetica, ma l’analisi del particolare corredo genetico dell’imputato, insieme ad altri strumenti neuroscientifici, aveva contribuito a rafforzare la prova dell’esistenza di un vizio parziale di mente ex art. 89 c.p.; un altro soggetto portatore di simili anomalie genetiche, ma privo di caratteristiche psicopatologiche, non avrebbe potuto ottenere una riduzione della condanna. Il diritto non è tanto interessato alle cause che determinano delle anomalie comportamentali, quanto piuttosto alla certezza degli elementi utilizzati per valutare che si tratti davvero di infermità mentale; in questo senso, si può affermare
141 SARTORI G./SCARPAZZA C., Cervello e responsabilità, cit., p. 59 ss.
142 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 193.
43 che la genetica ha contribuito a dare maggior certezza alla diagnosi di seminfermità mentale, garantendo un maggior livello di oggettività della perizia psichiatrica143. Quando si parla di criminalità e di responsabilità in ambito forense, è necessario porsi una domanda fondamentale: il soggetto imputato sarebbe stato in grado di agire diversamente, se solo lo avesse voluto? Due casi emblematici hanno portato a risposte opposte a riguardo: il primo riguarda un serial killer, il quale inizialmente era stato ritenuto incapace di dominare il suo impulso di soffocare le proprie vittime durante atti di sesso estremo, a causa di una lesione al lobo frontale; essendosi scoperto, però, che l’imputato utilizzava le stesse pratiche sessuali anche con la fidanzata, senza averla mai uccisa, era crollata la convinzione che il suo discontrollo comportamentale fosse in qualche modo collegato alla lesione cerebrale, in quanto il soggetto avrebbe potuto agire diversamente se lo avesse voluto. Un altro caso ebbe un esito differente: un professore, inizialmente condannato a 15 anni di reclusione per aver ucciso il titolare di una panineria, fu poi assolto in seguito al riconoscimento di una totale infermità mentale dovuta alla presenza di un grosso tumore nell’area frontale del cervello; in questo caso i periti ritennero che il soggetto non sarebbe stato in grado di agire diversamente.
Ciò che è importante sottolineare è che le neuroscienze cognitive e le tecniche di neuroimaging non vengono utilizzate per individuare la causa di un crimine violento, ma per indicare un substrato neuronale di un determinato disturbo: è il sintomo del paziente che crea il legame causale tra anomalia cerebrale e comportamento criminale. Le metodiche neuroscientifiche, dunque, dovrebbero contribuire alla conferma di una diagnosi fatta in precedenza sulla base di valutazioni psichiatriche, cliniche e neuropsicologiche; il loro utilizzo non si pone come obiettivo quello di fondare una concezione neoriduzionistica della criminalità, ma tenta di spiegare il modo in cui il controllo di un soggetto sulle proprie azioni possa diminuire a causa di anomalie cerebrali. Ma le neuroscienze non cambiano il concetto legale di responsabilità, la quale rimane fondata sul legame causale tra disturbo mentale ed atto criminale144.
3.3.3. L’elemento soggettivo nei reati economici
L’interesse circa l’indagine concreta della dimensione psicologica del comportamento delittuoso non può non estendersi anche agli ambiti del diritto penale dell’economia e della criminologia economica. A tal proposito, ci si domanda come sia possibile che i legami tra psicologia ed economia siano così forti, mentre pochi risultano i contributi della psicologia alla
143 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 192 ss.
144 SARTORI G./SCARPAZZA C., Cervello e responsabilità, in DE CARO/LAVAZZA/SARTORI (a cura di), Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società, cit., p. 67 ss.
44 criminologia e al diritto penale dell’economia; una possibile spiegazione potrebbe nascere dal fatto che la psicologia forense ritenga giusto occuparsi solo di situazioni giuridiche
“emotivizzate”, mentre l’indagine circa i meccanismi psicologici devianti dei crimini economici viene volentieri lasciata ad approcci diversi, in particolare di carattere sociologico.
Sembrerebbe trattarsi di una “divisione di competenze: a noi abusi e violenze, a voi truffe ed evasioni”145. Pare esserci nei confronti dei reati economici una sorta di “de-psicologizzazione”, tant’è che, nonostante in questo tipo di reato debba essere analizzato sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo – come in qualsiasi altro reato – l’analisi della componente psicologica viene spesso lasciata da parte. Il giurista tende, quindi, a rivolgersi alla psicologia solo quando si trova a che fare con comportamenti distorti dalla patologia delle emozioni, ma non quando vengono in gioco comportamenti “freddi” come quelli di tipo economico. Si rischia, perciò, che
“l’approfondimento di tutte le sfumature delle modalità psicologiche della condotta rimproverabile venga assorbito in un modello di azione razionale che è di per sé svuotato di ulteriori connotazioni psichiche (l’agire asettico dell’homo oeconomicus): tutto ciò che può essere oggetto di indagine psicologica ai fini del giudizio risulta di per sé, anche se inconsapevolmente, da escludersi proprio per il tipo di comportamento cui si riferisce”146. Le particolarità del reato economico sollevano il problema della colpevolezza e della responsabilità in termini nuovi, facendo riferimento ai concetti di motivabilità e di riprovevolezza. Il primo riguarda l’esigibilità del comportamento conforme alla norma penale;
si presume che l’homo oeconomicus sia un soggetto profondamente razionale e poco condizionato dagli elementi caratteristici della psiche, al contrario dell’autore di un delitto passionale o d’impeto. In relazione alla riprovevolezza ci si trova di fronte ad un’alta accettazione sociale dei crimini economici, a cui fa seguito una scarsa percezione dell’elemento della colpevolezza147.
Proprio grazie alle moderne neuroscienze cognitive è stato possibile assistere allo sviluppo della disciplina neuroeconomica, che si occupa di analizzare il comportamento economico dal punto di vista cerebrale. Da questi studi è emerso che alcune caratteristiche psicologiche della
145 BORSARI R./SAMMICHELI L., Neuroscienze, razionalità decisionale ed elemento soggettivo nel reato economico. Note introduttive per una linea di ricerca, in BORSARI/SAMMICHELI/SARRA (a cura di), Homo oeconomicus. Neuroscienze, razionalità decisionale ed elemento soggettivo nei reati economici, Padova University Press, Padova, 2015, p. 12.
146 BORSARI R./SAMMICHELI L., Neuroscienze, razionalità decisionale ed elemento soggettivo nel reato economico. Note introduttive per una linea di ricerca, in BORSARI/SAMMICHELI/SARRA (a cura di), Homo oeconomicus. Neuroscienze, razionalità decisionale ed elemento soggettivo nei reati economici, cit., p. 12.
147 PALIERO C.E., Principio di colpevolezza e reati economici, in BORSARI/SAMMICHELI/SARRA (a cura di), Homo oeconomicus. Neuroscienze, razionalità decisionale ed elemento soggettivo nei reati economici, cit., p. 22.
45 personalità rappresentano fattori di rischio di criminalità economica e può succedere che il disturbo di personalità non si traduca solo in una condotta aggressiva ed antisociale, ma che possa appartenere anche a soggetti ben adattati socialmente e lavorativamente. Si tratta dello psicopatico di successo (toxic leader), il quale si mostra in una posizione di potere, dotato di un quoziente intellettivo medio o al di sopra della media e di elevato stato socio-economico148. In questo contesto, può succedere che veri e propri criminali vengano scambiati per leader carismatici e geniali; è proprio a partire dalla scoperta della natura psicopatica di personalità simili, che si è cominciato ad abbandonare lo stereotipo che accomunava l’agire delittuoso dello psicopatico unicamente al crimine violento: anche per quanto riguarda i crimini economici, dunque, diventa necessario indagare sull’imputabilità del reo, nel momento in cui egli manifesti tratti di carattere psicopatico149.