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L’abitare delle mie case

Figura 12 Disegno di Alessandro Mendini

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ed egiziane, di ristoranti islamici e rinascimentali, di piscine giapponesi e gotiche. L’architetto austriaco Hans Hollein è il primo progettista di avanguardia che capta il senso con- cettuale di questo bisogno di diversità abitativa, realizzan- do nel 1972, per la sede centrale della Siemens a Monaco, la ben nota sequenza di salette da pranzo, ciascuna delle quali progettata con un proprio stile.

L’arredamento della nostra casa diventa il teatro della vita privata, quella scena dove ogni stanza permette il cam- biamento, la dinamica degli atteggiamenti e delle situa- zioni: è la casa palcoscenico. Che poi la nostra vita sia una cosa vera, mentre il teatro ne rappresenta la finzione, sta a noi deciderlo: resta il fatto che una casa concepita con questo progetto rende protagonisti i suoi abitanti.

La mia casa, come quella di tutti, è un magazzino di ten- sioni, di ideali, di reliquie, di programmi e di banalità quo- tidiane.

La mia casa non è mia, ma è stata ed è l’abitacolo del gruppo cui appartengo. È un “progetto non progetto” in perenne movimento, una stratificazione di interventi, trac- ce di un progetto collettivo, che vorrei chiamare “erma- frodito”.

Come architetto, però, non posso negare di avervi com- piuto un atto disciplinare, un progetto di immagine più consapevole di quello delle altre persone di casa.

All’arredo mi piace talvolta pensare non come architetto o voyeur di mille case altrui, ma come individuo che nello svolgersi della sua vita riceve di volta in volta sensazioni importanti e diverse.

Non ricordo la mia prima latente sensazione ambientale, ma mi è stata descritta bene: essa risale al 1931 quando vissi i miei primi giorni chiuso fra due poltrone Frau, affian- cato da due bottiglie di acqua calda, nello stesso chiaro grande locale a bow-window di una casa borghese a Mi- lano disegnata da Portaluppi, che ancora oggi è il sog- giorno che uso. Un soggiorno che appare per me come un fenomeno a ciclo chiuso, una rete spezzatasi molte volte ma sempre ricucita e capace di filtrare, di fare respirare tutti i miei avvenimenti: si tratta, per così dire, del “soggior- no della mia vita”, che amalgama tutti i miei personaggi e gli oggetti salienti.

Il mio arredo è come l’acqua per un pesce: elemento vita- le, inviluppo inconscio, situazione ora dominata ora subita,

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ma sempre essenziale. Da bambino vivo in un sistema di oggetti protettivo e retrogrado.

L’“arredo del padre” è severo, ostile, realista e scostante come un museo, per via dell’indiscusso rispetto per i mobili antichi “da non toccare”. Il mio primo letto, fatto da un famoso falegname libero interprete di strani stili, è come un Rococò Islamizzato la cui immagine di gesso accompagna la mia timidezza notturna fino all’università, salvo la guerra. Gli arredi dei nonni sono luoghi romantici, disponibili per me e i miei fratelli alla fuga fantastica.

L’arredo dei nonni di campagna sono gatti, solai, cortili, mastelli da bucato, scale e cucine sprecate, sono mistero, sensualità e grandi dimensioni.

L’arredo dei nonni (e poi zii) di città non è dilatato, ma com- presso e di tutt’altro genere. Nel loro appartamento fatto in moderno Settecento Tirolese, collocato sopra al mio, le mie sensazioni di arredo hanno come fulcro l’“Apparizio- ne” di Savinio, quadro inquietante appeso a un palmo dal mio naso quando riposo di pomeriggio su un sofà-libreria- armadio-mensola-vetrinetta-cassettiera disegnato da un noto arredatore. In questa casa non esiste tappezzeria. Tutti i muri sono un concentrato di quadri di Funi, de Chiri- co, Carrà, Sironi. Fa da contrappunto a questi arredi princi- pali la sequenza (confusa, provvisoria e kitsch) degli inde- scrivibili arredi della villeggiatura, atti di reciproca violenza fra noi e gli affittacamere.

Poi gli arredi frantumati dalla guerra, caotico e dramma- tico mixage delle stanze e delle provviste di tutti i parenti, arredi concepiti come difesa diretta del corpo e dei propri valori venali. Dopo la guerra mobili di guerra, livido freddo e paura e luce fioca. Fino all’università non faccio para- goni con arredi altrui e non ho un concetto progettuale dell’arredo. Ma finalmente arrivano le riviste e il design de- gli anni ’50 e ’60, e con essi nasce la mia prima coscienza critica dell’arredo.

Mi seduce la casa di Rogers in via Borgonuovo, dove lo schema razionalista fa da supporto alle cineserie più sofi- sticate.

Mi seducono i virtuosismi formali del Bel Design, Albini, Vi- ganò, Magistretti, Zanuso, Aulenti, Castiglioni, Sottsass, Joe Colombo, Lucio Fontana, il neo-liberty, il contro-design. Ma mentre procede la mia presa di coscienza dell’arre- do come progetto, diminuisce la mia sensibilità ad usare

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dell’arredo per istinto, come settimo senso.

Così che quando mi metto con Lidia, costringo lei e me a rinunciare al progetto di arredo per la nostra casa, e mi limito a introdurmi con lei dentro l’“arredo del padre”, den- tro quel mistico soggiorno a ciclo chiuso, dove quasi “non può” passare alcun oggetto di design.

L’idea fissa è che un arredo mal gestito contiene in sé una forza negativa di inerzia e di oppressione, tale da vincere lo sviluppo libero della creatività personale: molti degli arredi più seducenti sono in realtà delle prigioni.

Figura 13 Disegno di Alessandro Mendini

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Esiste una grande famiglia di viaggiatori incalliti che abita- no gli aeroporti del mondo.

Alcuni di questi viaggiano per necessità, altri per passione. Altri ancora, come il sottoscritto, per necessaria passione. Sono artisti, business man, diplomatici, sportivi, politici... Persone che si spostano da una nazione all’altra e da un continente all’altro con frequenza regolare e che fanno dei luoghi di transito la loro casa.

È una categoria particolare questa, che si differenzia da quella dei viaggiatori sporadici o dei turisti che si muovono una o due volte all’anno. Se la seconda categoria necessi- ta semplicemente di un luogo di transito la prima necessita invece di un luogo che sia riconosciuto come proprio in quanto vi si tornerà più volte.

Il viaggiatore sporadico infatti è concentrato sul passag- gio che prelude alla meta di arrivo mentre il viaggiatore professionista è colui che ha una relazione circolare con i luoghi. Tutti e indistinti. Poco importa che siano quelli di transito apparente o di arrivo.

Per questo è necessario fruire di luoghi funzionali che siano facili da abitare e che siano ospitali. Luoghi con un calore che ti accoglie sia nella macro architettura che negli spazi raccolti come una sala d’aspetto o una lounge.

In un aeroporto sono fondamentali la struttura logistica, la qualità della luce e l’utilizzo di materiali caldi come, ad esempio, la pavimentazione in legno utilizzata in molte ae- rostazioni della Scandinavia. Due tra tutti quelli di Copena- ghen e di Oslo.

Struttura logistica e organizzativa che raggiunge uno dei massimi livelli nell’aeroporto di Monaco di Baviera (uno dei pochi che riesce a garantire coincidenze strettissime)

L’abitare nomade