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Immagini dal Museo delle Cose
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Pamuk ha colto e utilizzato nel suo romanzo “Il museo dell’innocenza” nel quale si è servito, quale fonte princi- pale di ispirazione, di un insieme di oggetti da lui raccolti in più di dieci anni; oggetti legati ai suoi ricordi di luoghi, eventi, suggestioni del passato, affetti familiari. Oltre a rive- lare efficacemente il clima culturale e sociale della città di Istanbul all’inizio degli anni Settanta, periodo in cui è am- bientato il romanzo, questi oggetti, sebbene in apparenza anonimi, hanno saputo rendere visibile nel racconto l’inti- mità dei due protagonisti, Kemal e Fusun. Nella narrazione sono raccolti da Kemal per mantenere viva la sua storia
sentimentale con Fusun morta prematuramente; sono pic- cole cose legate ai loro momenti più intimi e al loro destino. Giunto al termine della vita, Kemal chiede all’amico scrit-
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tore, che nella narrazione è lo stesso Pamuk, di realizzare un museo capace di accogliere tutte quelle testimonian- ze della sua storia, tormentata e al tempo stesso emozio- nante. L’aspetto sorprendente è che Pamuk, con quegli oggetti, ha effettivamente realizzato a Istanbul un museo, determinando attraverso di essi un magico gioco d’intrec- ci tra immaginazione e realtà. Per il suo museo Pamuk ha scelto un luogo significativo della Istanbul della sua adole- scenza, il quartiere Cukurcuma. In questo, ha acquistato un edificio che bene si è prestato ad assumere l’immagi- ne dell’abitazione di Fusun e al suo interno ha allestito il museo attraverso una successione di vetrine in cui sono
Figura 10 L’abitazione che ospita il museo di Pamuk a Istambul By Lambiam - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wiki- media.org/w/index.
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esposti tutti gli oggetti da lui raccolti organizzati attraverso piccole narrazioni visive: “Le lacrime di Fusun”, “Il Palazzo della Pietà”, “La sofferenza dell’attesa”, “Il conforto degli oggetti”, “La Festa di fine estate”. Nella prima vetrina, ap- peso ad un tessuto di lino dai bordi finemente ricamati, bril- la l’orecchino ritrovato da Kemal tra le lenzuola della prima notte d’amore con Fusun. Nelle vetrine successive penne stilografiche e matite, orologi ottomani dall’aurea specia- le, tazze decorate destinate ai riti del tè e del caffè, pettini- ni dalle varie forme, fotografie ingiallite dal tempo. Oggetti composti con cura, silenziosi, ma capaci di svelare quella dimensione evocativa che è propria delle cose quando queste sanno farsi testimonianza di storie sentimentali. Come ha scritto Pamuk nel libro “L’innocenza degli ogget- ti”, nel quale racconta la realizzazione del suo museo, la vera sfida è saper raccontare attraverso gli oggetti le storie delle persone, perché queste storie, quotidiane, semplici e apparentemente anonime, sono più ricche di significati rispetto a quelle che raccontano le grandi comunità. Una capacità evocativa che ancor più gli oggetti possie- dono all’interno della casa nella quale, attraverso il loro stratificarsi nel tempo, divengono l’espressione più autenti- ca dell’interiorità e dell’identità culturale di chi vive in quel luogo. Oggetti in grado di preservare quella dimensione intima dell’abitare che cerchiamo di proteggere costruen- do intorno a noi barriere fisiche, ma anche psicologiche, che siano capaci di difenderci da una realtà “altra” che ci appare caotica e a volte minacciosa. Un confine più o meno tangibile che a volte però produce una nostra sepa- razione dal mondo, trasformando la casa in un rifugio che limita le nostre esperienze e l’ampiezza del nostro orizzonte. Una chiusura in se stessi talmente rischiosa da far scrivere a Nietzsche nella Gaia scienza “fa parte della mia fortu- na non possedere una casa”. A questa preoccupazione oggi se ne associa un’altra diametralmente opposta e non meno pericolosa, determinata dalla perdita di consistenza di quel confine fisico, ma anche e soprattutto psicologico, che protegge la dimensione intima dell’abitare. Questo confine, infatti, è reso sempre più inconsistente e fragile; è sempre più violato da un apparato tecnologico che mette a nudo la nostra interiorità e rende di dominio pubblico le nostre esperienze più personali.
L’affermarsi di tecnologie informatiche e di mezzi di co-
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municazione sempre più evoluti permettono nuove forme di relazioni sociali e aprono al nostro sguardo l’immagine del mondo, ma al tempo stesso rendono più permeabili le pareti materiali e immateriali della casa e dell’abitare; ren- dono evanescente il confine che separa un dentro da un fuori, l’interiorità dall’esteriorità.
Internet e i social network hanno generato lo sviluppo di una “ciber-intimità” in cui i nostri desideri e le nostre espe- rienze più personali divengono di dominio pubblico. L’inti- mità si rende così disponibile ad uno sguardo morboso che ha reso di successo siti web e programmi televisivi in cui il mostrare le azioni più private fa aumentare il numero di contatti e alzare l’audience. Un atteggiamento che rive- la un bisogno continuo di visibilità favorito e sostenuto da un crescente mondo massmediatico che ha ormai con- tagiato tutti noi. Per esistere bisogna apparire! E si appare solo sulla base dei Follower e nel mantenersi sempre con- nessi, generando una spettacolarizzazione continua delle proprie esperienze, della propria esistenza. Si produce una realtà sociale illusoria che spesso genera nuove forme di solitudine; una specie di nuovo autismo in cui si è soli da- vanti ad uno schermo, più o meno grande, ma connessi con milioni di amici, il più delle volte virtuali, dei quali si desi- dera conoscere le loro esperienze quotidiane e, attraverso queste, la loro interiorità più profonda, e al tempo stesso possa renderci partecipi di queste loro esperienze.
Una nuova condizione esistenziale che ha trasformato in modo radicale il concetto di “Privacy”. Rispetto solo a qualche anno fa siamo di fronte ad un rovesciamento del- le relazioni sociali che determina un consistente cambia- mento culturale: dall’abitare la propria intimità decidendo quali poche parti del nostro privato rendere pubbliche, ad una dimensione dell’esperienza personale resa completa- mente pubblica, scegliendo quali poche parti mantenere nella sfera dell’intimità. Un disvelamento continuo dei nostri sentimenti e delle nostre esperienze più personali che inevi- tabilmente ha modificato il senso del pudore. Un processo di cambiamento che, come la recente cronaca ci ha rac- contato, può avere effetti devastanti sul piano psicologico di chi, con ingenuità, si è fatto travolgere da questo turbi- nio mediatico e abbia perso la coscienza della necessità di custodire nella sfera del privato le esperienze e le rela- zioni più intime.
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Il pudore, pertanto, rimane la sola difesa della nostra inte- riorità per resistere ad una sorta di omologazione dei sen- timenti.
In un articolo del 1 novembre 2012, scritto per il Corriere della sera dall’eloquente titolo “Scrivere in prigione per non essere letti”, Claudio Magris ha messo in evidenza un’esi- genza di riservatezza e di resistenza allo sguardo altrui che ciascuno dovrebbe coltivare.
Nell’articolo Magris descrive un incontro avuto in un carce- re in cui fu invitato a tenere una conferenza su come nasce un libro, su quali siano i motivi che inducono la sua scrittura, e su come questo sia in grado di stabilire articolati rapporti tra l’autore e i lettori. Nel corso dell’intervento un carcerato, che stava scontando una lunga detenzione per omicidio, intervenne per mettere in evidenza che lui, come altri car- cerati, scriveva, ma con una incolmabile differenza: “Voi scrivete per pubblicare, per comunicare, per trasmettere ad altri quello che avete dentro; per me, e per quelli come me, le ragioni che ci inducono a scrivere sono opposte. Scriviamo per avere una cosa nostra, solo nostra, sottratta al controllo che fa passare la nostra vita ai raggi X”. In una vita spogliata di ogni riservatezza le parole, sottratte allo sguardo altrui, rimangono l’unico modo per difendere
la libertà, per abitare la propria intimità. TEMI
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Quanto essenziale sia per l’essere umano una qualche in- timità, che per noi è soprattutto assicurata dalle quattro mura domestiche, lo possiamo vedere da un sogno che un medico tedesco fece nel 1934, l’anno dopo l’avvento del nazismo al potere. Il suo sogno era stato raccolto da Char- lotte Beradt, una giovane giornalista ebrea, la quale ave- va avuto l’idea di collezionare i sogni dei tedeschi durante il regime nazista, dal 1933 al 1939. Ne raccolse trecento, facendone poi un libro uscito in Germania nel 1966 (in Italia nel 1991). Ecco il sogno del medico tedesco:
A visite concluse, verso le nove di sera, mentre sono in procinto di stendermi pacificamente sul divano con un libro su Matthias Grün- ewald, improvvisamente le pareti scompaiono dalla mia stanza, dal mio appartamento. Mi guardo attorno costernato, tutti gli ap- partamenti che riesco a vedere non hanno più pareti. Sento grac- chiare un altoparlante: “In conformità al decreto del 17 del mese corrente, relativo alla rimozione delle pareti” (Beradt, 1991, p. 21).
I nazisti non avevano emesso alcun decreto che ingiun- gesse la rimozione fisica delle pareti degli appartamenti tedeschi; ma il medico sogna che questo fosse avvenuto e che davvero le pareti del suo appartamento fossero scom- parse, insieme alle pareti degli appartamenti degli altri. Il medico vive tutto ciò con profondo sgomento e costerna- zione: si sente in forte disagio. Il sogno è praticamente un incubo, in quanto il protagonista sente che all’improvviso