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Pietro Meloni Antropologo

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particolare, George, il quale vive in un appartamento privo di oggetti:

C’è violenza in un simile vuoto. Di fronte al vuoto, nulla ri- cambia lo sguardo e l’attenzione fatica a fissarsi su qualco- sa. Si perde la forma, il giudizio, l’integrità. In questi casi è impossibile sentire la persona che sta davanti a noi come un Altro che definisce i propri limiti e la propria importanza (Miller, 2008, p. 15).

In mancanza di oggetti, possiamo trovare difficoltà a capire con chi abbiamo a che fare, perché il soggetto, spesso, si esprime attraverso le cose, concedendo loro di rappresentarlo. L’identità di una persona può stratificarsi a tal punto sulle cose da rimanere impressa in esse come memoria duratura e profonda. Accade spesso con gli og- getti di affezione, quella particolare categoria di cose che sono legate ai possessori da un rapporto familiare. Gioielli, orologi, fedi nuziali, cimeli vari, “la zappa di mio padre” di Man Ray. Oggetti che testimoniano lo scorrere del tem- po, delle vite di chi li possiede e li trasmette. Tra persone e cose si instaura un rapporto dove entrambi costruiscono un proprio percorso biografico che si influenza vicendevol- mente: noi facciamo le cose, le cose fanno noi5 . Questa

biografia culturale delle cose (Kopytoff, 1986) ci permette di ragionare in una prospettiva diversa sulle politiche del valore che solitamente attribuiamo alle cose. L’economia6,

da sola, non è sufficiente per definire il valore di un oggetto di affezione, di antiquariato, di un pezzo da collezionismo, dell’opera di un brocanteur. Qui si evidenziano aspetti come la rarità, l’unicità, la profondità storica e, appunto, la biografia culturale. Quando introduciamo degli oggetti nel nostro spazio domestico, per permettere loro di abitare con noi, li sottoponiamo ad una attenta serie di esami, per- ché rispondano non solo alle nostre esigenze ma rispettino anche dei parametri culturali condivisi.

C’è poi qualcosa di magico nelle cose. A volte ci fa sorri- dere, basta prendere come esempio un qualunque ogget- to di IKEA e ricordarci delle prime difficoltà incontrate nel montarlo, al punto da chiederci come mai quel maledetto mobile “non faceva quello che gli dicevamo di fare” (Ver- rips 1994). Altre volte ci fa disperare, come quando “lascia-

5 Daniel Miller (1987) ha chiamato questo processo “oggettivazione”. 6 È bene ricordare come economia derivi da oikonomia, cura dello spazio familiare, intimo, privato. Qualcosa, quindi, che precede il mero rap- porto con il denaro.

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mo bruciare la padella sul fuoco o vacilliamo di fronte a 367 pezzi di LEGO dispersi per terra” (Lofgren, 1996, p. 91). Possono, inoltre, gettarci nello sconforto, farci comprende- re quanto il rapporto tra persone e cose sia profondo a tal punto che una volta reciso ci lascia sgomenti7 . Il romanzo

di Paul Auster, L’invenzione della solitudine (1982) si apre con il racconto della morte del padre e di come gli oggetti della vita quotidiana possano diventare improvvisamente estranei, contaminanti:

7 Non è un caso se nella teoria del dono di Marcel Mauss (1924) la cosa donata possiede lo “hau”, lo spirito di chi dona, che rimane dentro l’oggetto e vincola il ricevente in un rapporto di reciprocità.

Figura 7

Immagini dell’abitare Sospensioni Fotografia Stefano Follesa

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Ho imparato che niente è più terribile che trovarsi faccia a faccia con gli oggetti di un morto. Di per sé le cose sono amorfe: assumono significato solo in funzione della vita che ne fa uso. Quando essa giunge al termine, le cose cam- biano anche restando uguali. Ci sono e non ci sono, come spettri tangibili, condannati a sopravvivere in un mondo dove non hanno più posto. Che ne sarà, ad esempio, di un armadio pieno di vestiti in silenziosa attesa di esse- re indossati da un uomo che non aprirà l’anta mai più? o delle scatole di preservativi sparse nei cassetti rigurgitanti biancheria e calzini? o del rasoio elettrico abbandonato in bagno, ancora zeppo della barba polverizzata dell’ulti- ma rasatura? […] In sé le cose non significano nulla, come gli utensili da cucina di una civiltà scomparsa; e tuttavia ci dicono qualcosa, imponendosi non in quanto oggetti, ma come avanzi del pensiero, della coscienza, emblemi di una solitudine ove l’uomo giunge a prendere le decisioni personali (Auster, 1982, pp. 8-9).

Entrare in relazione con gli oggetti di un altro senza il suo consenso può rappresentare una violazione tale da portar- ci a chiedere chi siamo noi per fare questo, per toccare gli oggetti di un altro. Il romanzo di Paul Auster rende eviden- te quell’aspetto per cui gli oggetti dell’altro sono come gli oggetti archeologici per Freud (Dei Meloni, 2015, p. 16), il ritorno di qualcosa di rimosso, di perturbante.

Proviamo a immaginare alcuni modi in cui gli oggetti de- finiscono lo spazio abitativo, aiutando gli attori sociali a prendere familiarità con i luoghi vissuti. Possono essere og- getti del mondo globale, oppure quelli spesso trascurati – perché non riconosciuti – del mondo locale.

Ogni luogo costruisce un proprio senso di domesticità at- traverso l’uso e l’esposizione degli oggetti, poiché questi ultimi sono dei veri e propri negoziatori di relazioni socia- li. La scelta di una particolare mobilia, dell’oggettistica di rappresentanza non è mai disgiunta dal luogo in cui si vive, dalla classe sociale e generazionale, dal capitale sociale8.

Si pensi, per fare un esempio, al complesso mondo delle Contrade di Siena, dove gli oggetti sono segnalatori di ap- partenenza identitaria prima ancora di essere espressione di un gusto personale. Distinguono per corporazioni e non per appartenenza sociale. Campanine, zucchini, bandie-

8 Pierre Bourdieu (1979) definisce capitale sociale il gruppo di per- sone alle quali facciamo riferimento per esprimere i nostri gusti, la nostra identità. Nel caso specifico dell’arredamento domestico, il capitale sociale sono le persone che hanno accesso agli spazi privati dell’attore sociale.

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re, fazzoletti, oggetti che riprendono l’araldica, i colori ed il bestiario del mondo festivo, affollando le case dei senesi ed esprimendo un gusto che difficilmente può trovare gra- dimento altrove, perché spesso rappresenta una cacofo- nia di colori e il cedere al kitsch9 .

L’introduzione di oggetti folklorici è spesso legata all’ap- partenenza regionale – nel caso senese circoscritta alla sola città – ma può anche essere il risultato di un immagi- nario divenuto pervasivo: le clip magnetiche da attacca- re sui frigoriferi rappresentanti i vari luoghi dei viaggi (quelli propri o quelli di altri), le maschere veneziane, i pinocchi, matrioske. In una puntata della serie televisiva L’ispettore Barnaby10 , compare poggiato su un tavolo, un piatto con

i colori della Contrada della Chiocciola.

Tutto questo può suggerirci che l’abitare è sempre in stret- ta relazione con gli oggetti, i quali hanno diverse prove- nienze, sono vettori simbolici, espressione di appartenenze sociali, di buono o cattivo gusto. Rendono l’abitare come ambiente, habitus, ossia pratica interiorizzata, privata, emozionale, culturalmente determinata. Gli oggetti possie- dono una agentività pari a quella delle persone, sono in grado di imporci comportamenti, di orientarci verso parti- colari scelte. Sono, dunque, i mediatori per eccellenza tra l’uomo e l’ambiente.

Bibliografia

Auster P. (1982). L’invenzione della solitudine [The Inventa-

tion of Solitude]. Torino: Einaudi.

Bourdieu P. (1979). La Distinction. Critique sociale du juge-

ment. Paris: Minuit.

Dei F. e Meloni P. (2015). Antropologia della cultura mate-

riale. Roma: Carocci.

De Martino E. (1977). La fine del mondo. Contributo all’ana- lisi delle apocalissi culturali. Einaudi: Torino.

Douglas M. & Isherwood B. (1978). The Worlds of Goods.

London: Lane.

Kopytoff I. (1986). The Cultural Biography of Things: Com-

moditization as Process. In Appadurai A., editor, The Social

9 L’economia del testo non permette di affrontare il tema degli oggetti del festivo in maniera approfondita, per ulteriori letture rimando a Meloni 2011 e 2014.

10 Il lettore mi perdonerà se non sono in grado di fornire l’identifica- tivo preciso della puntata.

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Life of Things. Commodities in Cultural Perspective. Cambri-

dge: Cambridge University Press, pp. 64-94.

Löfgren O. (1996). Il ritorno degli oggetti? Gli studi di cultu- ra materiale nell’etnologia svedese. In: Bernardi S., Dei F.,

Meloni P., a cura di, La materia del quotidiano. Per un’an- tropologia degli oggetti ordinari. Pacini: Pisa, pp. 83-102.

Mauss M. (1924). Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche [Essai sur le don. Forme et

raison de l’échange dans les sociétés archaïques]. Torino: Einaudi.

Meloni P. (2011). Cultura materiale, pratiche di consumo,

oggetti domestici. Un’etnografia in Toscana. Studi Culturali, VIII, 3, pp. 395-414.

Meloni P. (2014). Il tempo rievocato. Antropologia del patri-

monio e cultura di massa in Toscana. Milano: Mimesis.

Miller D. (1987). Material Culture and Mass Consumption. Oxford: Basil Blackwell.

Miller D. (2008). Cose che parlano di noi. Un antropologo

a casa nostra [The Comfort of Things]. Bologna: il Mulino. Norman D. (1988). The Psychology of Everyday Things. New

York: Basic Book.

Roche D. (1997) Histoires des choses banales. Naissance de

la consommation dans les sociétés traditionelles (XVII – XIX siècle). Paris: Fayard.

Verrips J. (1994). The damn thing didn’t “do” what I wan-

ted: Some notes on modern animism in western societies.

In: Verrips J., editor, Transactions: Essay in honor of Jeremy

Boissevain. Amsterdam: Het Spinhuis, pp. 35-52.

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“ogni lavoro creativo è sospeso tra la memoria e l’oblio”

Jorges Luis Borges

È un tempo sospeso quello che domina i nostri giorni. Un tempo indefinito che assiste alle mutazioni continue dei processi, delle tecniche, dei linguaggi, dei percorsi; un tempo sfuggevole in cui “le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure... insomma una vita precaria, vissuta in condizioni di assoluta incertezza”1.

La sospensione attraversa la vita di ognuno di noi, il desti- no dei migranti, la condizione dei precari, il destino delle aziende. Sospese sono le parole che non riescono più a definire i concetti, sospese le arti, private della loro auto- nomia, sospesi i linguaggi del progetto tra innovazione e continuità. È un ritorno all’“epoché”2 dei filosofi greci, una

“sospensione del giudizio” su un mondo in continua trasfor- mazione del quale non possiamo che avere una visione parziale. È una sospensione che è pausa nel percorso che conduce dall’arenarsi della modernità ad un’idea di futuro che ancora non riesce a delinearsi.

È certamente tempo dell’attesa, di interruzione del mito di

1 Zygmunt Bauman (2014) Vita liquida, Laterza, Bari 2014

2 La “sospensione del giudizio” è stata teorizzata per la prima volta nell’antica Grecia tra il I e il II secolo d.C., dall’”accademia media” platoni- ca e da un gruppo di filosofi detti neo-pirroniani (o “veri scettici”). La con- sapevolezza che della realtà non possiamo che avere un giudizio parziale e falsato porta alla sospensione del giudizio e quindi all’imperturbabilità o atarassia. Lo scetticismo moderno attraversa le riflessioni di Hume ed Hegel ma Hegel ce ne restituisce una visione positiva quale consapevolezza della contingenza della realtà.