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Immagini della casa ad Alghero di Antonio Marras e Patrizia Sardo: lo studio. Foto: Daniela Zedda
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Vivo in case affollate di mobili, oggetti e decori e desidero una casa tutta bianca, immacolata, deserta e sgombra di ogni suppellettile.
Raccolgo, ammucchio, combino tutto quello che trovo. Ho da sempre subito il fascino del passato. I mobili vecchi, gli abiti, gli oggetti destinati ad essere dimenticati nei solai, nelle soffitte, nei mercatini, pressati dall’urgenza di respira- re, tornare ancora a vivere e raccontare le loro storie mi attraggono.
Per me è innato, naturale riciclare tutto e non buttare via niente, perché nulla si distrugge ma tutto si ricrea.
Mi coinvolge ciò che sa di ombra, di passato, di vite rubate, negate. In particolare l’oggetto usato, logoro, rotto, strac- ciato, buttato via, inutile e sporco. Non riesco a non pen- sare a chi ha indossato quegli abiti, usato quegli oggetti, letto quei libri, chi si è soffermato su quei quadri, chi ha tra- scorso una vita su quei tavoli o allestito una vetrinetta con i propri preziosi oggetti. Distruggerli o peggio dimenticarli mi sembrerebbe un oltraggio, un sacrilegio: quasi come se cancellassi la presenza di tante esistenze precedenti alla mia. Reinterpretarli è una maniera per offrire loro un’altra possibilità e, nello stesso tempo, onorare la memoria di chi ha vissuto prima di me, attraverso i suoi effetti personali. Dice bene Francesco Guccini in Vite:
Mi piace rovistare nei ricordi
di altre persone, inverni o primavere per perdere o trovare dei raccordi nell’apparente caos di un rigattiere: quadri per cui qualcuno è stato in posa, un cannocchiale che ha guardato un punto, un mappamondo, due bijou, una rosa, ciarpame un tempo bello e ora consunto, pensare chi può averli adoperati,
cercare una risposta alla sciarada del perché sono stati abbandonati come un cane lasciato sulla strada. Oggetti che qualcuno ha forse amato ora giacciono lì, senza un padrone, senza funzione, senza storia o stato, nell’intreccio di caso o di ragione.
Oggetti e cani mi circondano dappertutto ma ora, in parti-
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colare, in uno spazio tutto mio. Il mio studio. Un rifugio, det- tato da necessità, urgenza, desiderio. Un luogo fisico da cui partire per tornare; in cui stare anche quando non ci sono; in cui fare, disfare, rifare, rincorrere i pensieri e trasfor- marli in forme concrete.
Una grande stanza da lavoro, con grandi vetrate, illumina- ta dal sole. Poche sedie e tanti tavoli. Una folla di memo- rie, oggetti segnati dall’uso, raccolti nei miei spostamenti in ogni parte del mondo, a volte per strada. Fotografie, quadri, disegni, ceramiche, giocattoli, libri, scaffali di offici- na, vecchie credenze, cassettiere di drogheria riciclate e non rimesse a nuovo per non perdere le impronte di chi le ha possedute. Un accumulo caotico e armonioso di cose abbandonate, perdute, dimenticate, cariche di vissuto, di esperienze, di tracce. Ammaccature, bordi consumati, smozzicati, coloriture rimosse dall’uso.
Una vecchia valigia di cartone che a Londra sembrava aspettarmi, consunta, piccola, sgualcita. I metri che usava mio padre per misurare i tessuti, un angioletto che illumina- va il mio lettino, una statuina di porcellana, un ex-voto, uno scoiattolo imbalsamato…
I miei tavoli cedono sotto il peso di libri, di fogli, di brandelli di stoffa, di foto, di ritagli di giornali. Taccuini, cartellini, bi- glietti di cinema, cedole delle poste, tessere telefoniche, un mazzo di carte spaiate, buste ingiallite di vecchie let- tere.
Amo i tappeti, mi circondo di vecchi e sapienti tappeti. “Perdersi a Eudossia è facile. ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto…”
Il tappeto di Eudossia conserva la forma della città invisibi- le, ordinata in figure simmetriche che ripetono i loro motivi lungo linee rette e circolari, gugliate dai colori splendenti, trame che si alternano lungo l’ordito. Al contrario, la città è caos, confusione, rumore. Ma a uno sguardo meno distrat- to non sfugge che il tappeto è la prova che c’è un punto dal quale la città mostra la sua vera realtà. In quell’ordine immobile, chi si perde trova una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino. Tappeto e città: due oggetti legati da un misterioso rapporto. Quale dei due è la vera mappa dell’universo? Quale approssimativo riflesso dell’al- tro? Il responso dell’oracolo è ambiguo e l’uomo del nuovo millennio contempla il tappeto e ascolta il racconto.
Figura 9 Nelle pagine seguenti:
immagini della casa ad Alghero di Antonio Marras e Patrizia Sardo: lo studio. Fotografia: Daniela Zedda
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La storia è appassionante ed è la storia dell’uomo. Un tap- peto è sempre un viaggio. Un viaggio in un mondo incan- tato, tra animali, bordure, alberi, fiori, catturati da forme e colori.
Un viaggio attraverso millenni, popoli, paesi, lungo il quale questo straordinario oggetto si è caricato di simbologie in- sospettate e di misterioso fascino.
Gran parte della mia attività si svolge ad Alghero, nella mia casa- laboratorio in collina, tra ulivi e mare, la mia isola per- sonale. Fino a poco tempo fa i confini tra spazio privato e lavorativo erano molto sfumati, se non inesistenti, nel senso che abitazione e luogo di lavoro erano comunicanti e for- mavano quasi un tutt’uno. Ora studio e laboratorio sono separati, ma solo da poche centinaia di metri. Davanti, attraverso grandi vetrate continuo a vedere il sole che tra- monta infuocato dietro Capo Caccia, il gigante che difen- de e protegge la distesa marina. E alle spalle, il galoppo dei cavalli del vicino maneggio.
Qui si progettano e sperimentano soluzioni che verranno poi riprodotte nella produzione industriale di grande serie; qui nasce la linea Laboratorio, una stanza che mi sono ri- servato a tutela della routine produttiva delle collezioni. Si tratta di una produzione semiartigianale realizzata gra- zie alla collaborazione di sarte, ricamatrici, artigiani e la- boratori di piccoli paesi limitrofi, poi riproducibili in grandi aziende. E ancora la linea Serie Limitata, pezzi unici realiz- zati completamente a mano e interamente in Sardegna, uno per volta, quasi a difesa dell’unicità dalla concorrenza della produzione seriale. Questa attività, in un certo senso, racchiude e riassume il mio pensiero: il lavoro sul vintage, la destrutturazione e il ri-assemblaggio, la sperimentazione sui tessuti, la ricerca di uno stretto rapporto con una tradizione di immenso valore, da conservare e, nel contempo, ricre- are. Insomma ad Alghero ha inizio tutta la fase ideativa e creativa, l’iter progettuale, la ricerca e la sperimentazione. Lo studio-laboratorio algherese è la vera base dell’intera attività, il centro pensante, il motore da cui partono tutte le storie.
Per me l’abitare è una condizione della mente, una con- dizione necessaria al mio andare e al mio tornare. Per me l’abitare è la Sardegna, che ha un ruolo determinante nel- la mia vita, nel mio lavoro, è una terra molteplice, vitale e creativa, chiusa e aperta, forte della sua tradizione e di-
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sponibile a nuovi progetti, una realtà carica di complessità, contraddizioni, conflitti che si trascinano da millenni, ma è anche una realtà viva e originale, attratta dalla corrente della modernità. Per me l’abitare sono gli influssi mediterra- nei, fenici, punici, bizantini, arabi, catalani, spagnoli, fran- cesi, ecc. ci fanno essere quelli che siamo, nella lingua, nei pensieri e nell’abitare. Per me l’abitare è il paradosso tra la mia voglia di nomadismo e il radicamento alle mie origini. La parola “Isola” significa “nel mare” e il mare per me è movimento continuo, agitarsi di onde, andare, venire. Per me l’abitare è l’istinto, ed è scoprire il mondo a fram- menti: prima la tua stanza, poi la tua casa, il tuo quartiere, la tua città, poi capisci che ci sono le province, le regioni, quindi che c’è un mondo intorno, e che questo mondo in- torno può essere infinito. Per me l’abitare è una collezione di spazi tutti in uno: ambienti per il lavoro, per gli incontri, per le mostre, per l’acco- glienza, per me l’abitare sono vecchi tavoli, cassetti, le piante, gli oggetti trovati, i segni che si accumulano alle pareti… Per me l’abita- re è la creazione di un’at- mosfera che abbia il segno del tempo e l’aria di casa. Per me l’abitare è il bisogno di una storia da raccontare. Per me, allora, l’abitare è la possibilità di ‘sentire’ lo spazio, uno spazio che non do per scontato, che ha bisogno di essere osservato e poi riconosciuto, prima di essere indicato come tale. “Lo spazio comincia così, solo con delle parole, segni tracciati sulla pagina bian- ca. Descrivere lo spazio, nominarlo, tracciarlo, come gli autori di portolani che saturavano le coste di nomi di porti, di nomi di capi, di nomi di cale, finché la terra
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Immagini della casa ad Alghero di Antonio Marras e Patrizia Sardo. Fotografia: Daniela Zedda (copyright Daniela Zedda)
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finiva con l’essere separata dal mare soltanto da un nastro continuo di test”, scrive Perec.
Per me l’abitare è la giusta dose di luce, ombra, riposo, desiderio che nascono dall’estrema consapevolezza del contrasto, come pure la mia insistenza sulla fatale “incom- piutezza” di un qualsiasi edificio, tavolo, brocca o piatto. Per me l’abitare è un mondo invisibile che diviene visibile attraverso oggetti e rapporti.
Si studia, si pensa, si costruisce, si vive in scenari dove si an- nulla la separazione fra vecchio e nuovo, dentro e fuori, io e l’altro, in cui la materia diventa spazio infinitamente piccolo da trasformare in un’altra dimensione.
L’abitare segue il cambiamento, modificando il pensiero e attivando i sensi. Nuovi e vecchi luoghi che disegnano il territorio dando luogo a trasversalità e interconnessioni, e che mi spingono oltre nella definizione di forme e con- tenuti.
L’abitare è quello che raccontano le opere d’arte, le sta- zioni e i caffè degli impressionisti, le strade illuminate da ba- gliori degli espressionisti, le piazze in rivolta e i cantieri dei futuristi. Così come le esistenze di individui e oggetti rac- contati tra le mura di casa: gli infiniti pavimenti a scacchi di Casorati, gli interni soffocanti di Balthus, le pareti incolore intorno alle bottiglie di Morandi, le stanze piatte delle case di Hopper, i riferimenti prospettici di Francis Bacon.
Jung sosteneva che la casa possiede una valenza intrap- sichica, in quanto luogo in cui l’uomo si rapporta e vive con le superfici e con gli oggetti di cui si è circondato per rappresentare il proprio mondo, ma anche una superficie intermedia tra il mondo interno e quello esterno dell’indi- viduo.
Per me l’abitare è il segno di un ciclo vitale, la cadenza del giorno e della notte, il luogo del passaggio delle stagioni. Martin Heidegger, nel suo libro “Costruire abitare pensare”, scrive: “L’abitare è il modo secondo il quale i mortali sono sulla terra”. Abitare è custodire, proteggere, accudire e non semplicemente soggiornare; una dimora è stabilire un “rapporto tra il luogo e l’uomo che è in esso”, e solo la “ca- pacità di far penetrare terra e cielo, gli immortali e i mortali in essenziale unitarietà nelle cose” può edificare la casa.
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