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2.6 La disciplina delle intercettazioni in mare negli accord

2.6.2 Gli accordi Italia-Libia

Agli inizi degli anni 2000 si presentano significativi mutamenti dei flussi migratori verso il nostro Paese. Se da un lato diminuiscono gli arrivi nelle coste di Puglia e Calabria, dall'altro aumentano in misura inversamente proporzionale gli sbarchi in Sicilia e Lampedusa.

Queste nuove ondate migratorie provengono dai porti delle coste nord-africane ed in particolar modo dalle coste libiche, punto di partenza per i migranti provenienti dall'Africa del nord e sub- sahariana, e diretti verso il continente europeo.

Gli accordi bilaterali stipulati dall'Italia con la Libia suscitano un notevole interesse non solo perché la Libia riveste il ruolo di Paese di transito dal quale partono la maggior parte dei flussi migratori che hanno come destinazione le coste italiane, ma soprattutto per le forti critiche che essi hanno sollevato.114

113 A. DI PASCALE, “Migration Control at Sea: the Italian Case”,in B. RYAN, V. MITSILEGAS (edited by), Extraterritorial Immigration Control: Legal

Challenges, Leiden, Martinus Nijhoff Publishers, 2010, p. 294.

114 Il testo non fa alcun riferimento specifico allo status dei migranti oggetto della cooperazione e tale lacuna è alquanto criticabile se si pensa che la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati. Sebbene la Convenzione non assicuri un diritto soggettivo all’asilo, offre comunque una serie di garanzie, tra cui il non respingimento del rifugiato alle frontiere di uno Stato in cui la sua vita o libertà sarebbero messe in pericolo. Il fatto che la Libia non sia parte della Convenzione sullo status dei rifugiati ha suscitato una serie di preoccupazioni per le sorti degli immigrati intercettati e respinti alle frontiere libiche durante le operazioni di pattugliamento.

La cooperazione tra Italia e Libia ha inizio il 13 dicembre del 2000 con la stipula a Roma di un “Accordo per la collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico illegale di stupefacenti e sostanze psicotrope e alla immigrazione clandestina”. L'Accordo, di carattere prevalentemente programmatico, prevedeva uno scambio di informazioni sui flussi di immigrazione illegale, nonché sulle organizzazioni criminali che li favoriscono e la reciproca assistenza e cooperazione nella lotta contro l'immigrazione illegale.

Qualche anno dopo, il 29 dicembre 2007, Italia e Libia firmano a Tripoli due Protocolli115 finalizzati a realizzare una cooperazione

per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina.116

Sulla base di questi ultimi Protocolli i due Paesi si impegnano ad intensificare la collaborazione nella lotta contro le organizzazioni criminali coinvolte nel traffico degli esseri umani e nello sfruttamento dell'immigrazione irregolare. Se l’Accordo del 2000 si limitava ad introdurre la generica disponibilità della parti a collaborare essenzialmente attraverso lo scambio di informazioni, i Protocolli del 2007 intendono mettere in pratica la volontà di reciproca assistenza e collaborazione tra i due Paesi. Riveste una particolare importanza l'introduzione della possibilità di effettuare pattugliamenti marittimi congiunti nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni dedite al

115 Protocollo tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica

popolare socialista (Protocollo); Protocollo Aggiuntivo Tecnico-Operativo al Protocollo di cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista, per fronteggiare il fenomeno dell'immigrazione clandestina (Protocollo Addizionale).

116 L'intesa è stata poi perfezionata il 4 febbraio 2009 con la firma a Tripoli di un protocollo d'attuazione da parte del Ministro dell’interno italiano e delle autorità libiche.

trasporto di immigrati clandestini, sia in acque territoriali libiche che internazionali.

Successivamente, il 30 agosto 2008 viene firmato a Bengasi il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”.117 L’articolo 19 del Trattato prevede, per quanto riguarda

disciplina della lotta all'immigrazione irregolare, un espresso rinvio all’intero corpus di accordi, protocolli attuativi ed intese tecniche sino ad allora intercorsi tra il Governo italiano e quello libico. Viene proposta un'intensificazione della collaborazione tra i due Paesi e sono rafforzate inoltre le operazioni di pattugliamento congiunto, da effettuarsi con equipaggi misti e motovedette messe a disposizione dall’Italia. Per quanto riguarda il finanziamento delle operazioni si prevede che le spese siano condivise in maniera paritaria tra l’Italia e l’Unione Europea. Nel 2009, contestualmente all’entrata in vigore del Trattato, i due Paesi firmavano a Tripoli un “Protocollo di attuazione dell'Accordo di cooperazione tra Italia e Libia del 29 dicembre 2007 ” in materia di collaborazione nella lotta all’immigrazione clandestina. Il nuovo Protocollo, di natura tecnica, definendo le modalità di attuazione dei pattugliamenti congiunti, avrebbe costituito lo strumento tecnico in grado di rendere operativi i pattugliamenti congiunti italo-libici nelle acque internazionali e

117 Ratificato e reso esecutivo con legge n. 7 del 6 febbraio 2009, GU n. 40 del 18 febbraio 2009. Sugli accordi Italia-Libia cfr. N. RONZITTI, Il trattato Italia-

Libia di amicizia, partenariato e cooperazione, in Istituto di Affari

Internazionali (IAI), Contributi di istituti di ricerca specializzati, n. 108, 2009; S. TREVISANUT, “Immigrazione clandestina via mare e cooperazione tra Italia e Libia dal punto di vista del diritto del mare”, in Diritti umani e diritto

internazionale, III, 2009, p. 609 ss.; C. FAVILLI, “Quali modalità di

conclusione degli accordi internazionali in materia di immigrazione?”, in

nel mare territoriale libico.118 Si stima che solo durante i primi sei

mesi di operatività delle operazioni di pattugliamento congiunto, dal 6 maggio 2009 al 6 novembre 2009, siano stati in totale 834 i migranti intercettati in mare e respinti presso i porti delle coste libiche dai quali erano partiti.119

Le misure di contrasto all'immigrazione clandestina proveniente dalla Libia, che si esplicano nella prassi dei pattugliamenti e dei respingimenti in mare trovano quindi una diretta legittimazione nel contenuto degli accordi stipulati tra i due Paesi.120 Né i

Protocolli del 2007 né il Trattato del 2008, tuttavia, contengono disposizioni specifiche riguardanti la riammissione in Libia dei migranti partiti dalle coste libiche ed intercettati in alto mare.121

Per quanto riguarda la sorte delle persone intercettate in alto mare esiste un vero e proprio vuoto giuridico, che lascia presagire la presenza di una “zona grigia” nelle acque internazionali, all'interno della quale non sono chiari gli obblighi che vincolano gli Stati.122 Esiste tuttavia anche in queste ipotesi

118 Poiché il testo del Protocollo risulta riservato non vi è tuttavia alcuna certezza sul suo contenuto.

119 A. DI PASCALE, “Italy and Unauthorized Migration”, in R. RUBIO-MARÍN (edited by), Human Rights and Immigration, Oxford University Press, 2014, p. 303.

120 Cfr. ex multis M. GIUFFRÈ, “State Responsibility Beyond Borders: What Legal Basis for Italy's Push-back to Lybia?”, in International Journal of Refugee Law, Vol. 24, No. 4, 2013.

121 A. TERRASI, “I respingimenti in mare di migranti alla luce della Convenzione europea dei diritti umani”, in Diritti umani e diritto internazionale, III, 2009, p. 591.

122 “Governments occasionally argue that state borders controls, particulary on the

high seas, take place in a space where refugee and human right law do not apply”, A. FISCHER-LESCANO, T. LOHR, T. TOHIDIPUR, “Border Controls

at Sea: Requirements under International Human Rights and Refugee Law”, in

International Journal of Refugee Law, Vol. 21, Issue 2, 2009, p. 257; M. T. GIL-

BAZO, “The Practice of Mediterranean States in the context of the European Union's Justice and Home Affairs External Dimension. The Safe Third Country Concept Revisited”, in International Journal of Refugee Law, Vol. 18, Issue 3-4, 2006, p. 572.

un nucleo di norme, aventi ormai assunto carattere consuetudinario, che devono essere rispettate e che garantiscono anche in alto mare il rispetto degli obblighi derivanti dalle norme internazionali in materia di diritti umani ed a tutela dei rifugiati. In particolare, il rischio più grande connesso alle operazioni di intercettazione e respingimento in mare è rappresentato dalla violazione dell'obbligo di non-refoulement.123

Con la sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia,124 del 23 febbraio

2012, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la politica dei respingimenti messa in atto dall’Italia nei confronti di cittadini stranieri ricondotti verso le coste libiche dalle quali erano partiti. La sentenza della Grande Camera ha inoltre rappresentato un monito a conformarsi ai princìpi in essa contenuti, nel caso in cui le autorità italiane avessero nuovamente intercettato in mare migranti o richiedenti asilo.125

I fatti per i quali l'Italia è stata condannata risalgono a maggio 2009, quando, in esecuzione del Trattato italo-libico di partenariato, amicizia e cooperazione del 30 agosto 2008 e del Protocollo addizionale del 4 febbraio 2009 ed in attuazione di una politica di controllo dell’immigrazione irregolare via mare incentrata sulla collaborazione bilaterale con i Paesi di origine e di transito dei migranti, lo Stato italiano iniziava la pratica dei respingimenti in alto mare e nelle acque territoriali libiche. Più di

123 v. infra cap. 3.5.

124 Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa e a.

c. Italia, (n. 27765/09).

125 B. NASCIMBENE, Condanna senza appello della “politica dei

respingimenti”? La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Hirsi e altri c. Italia, in Documenti Istituto Affari Internazionali, marzo 2012,

800 persone, nell’estate 2009, furono intercettate dalle autorità navali italiane, nel tentativo di raggiungere l’Italia, e furono rinviate verso le coste della Libia, dalle quali erano partite.

In particolare i fatti sui quali si è pronunciata la Corte risalgono al 6 maggio 2009, data in cui un gruppo di circa duecento persone partite dalla Libia a bordo di tre imbarcazioni veniva intercettato da navi della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera italiana a trentacinque miglia a sud di Lampedusa e, una volta a bordo delle navi militari italiane, veniva ricondotto a Tripoli.

Il ricorso alla Corte fu presentato da ventiquattro migranti - undici cittadini eritrei e tredici somali - parte del gruppo, i quali sostenevano che le autorità italiane non avevano fornito loro alcuna informazione in merito alla loro destinazione e non avevano intrapreso iniziative per identificarli.

La Corte ha ritenuto sussistenti tutte le violazioni contestate all’Italia da parte dei ricorrenti, ed in particolare: la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il quale prevede il divieto di trattamenti inumani e degradanti; dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, che vieta le espulsioni collettive; dell’articolo 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, da solo ed in combinato disposto con l’articolo 3 e con l’articolo 4 del Protocollo n. 4, essendo mancato un rimedio interno adeguato che avrebbe permesso un esame dei reclami dei migranti.

Secondo la giurisprudenza della Corte esistono esigenze assolute e inderogabili di tutela dei diritti fondamentali, le quali giustificano l'apposizione di limiti al potere dello Stato di

respingere ed espellere gli stranieri che tentano di fare ingresso sul suo territorio in maniera irregolare. Il governo italiano, prima di attuare il respingimento, avrebbe dovuto verificare che le autorità libiche verso cui i migranti furono respinti li trattassero in modo conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed in particolare all'articolo 3, e non li rimpatriassero nei rispettivi Paesi di origine. I ricorrenti, al contrario, corsero il rischio di subire trattamenti disumani e degradanti in Libia e di essere espulsi verso i rispettivi Paesi di provenienza, Somalia ed Eritrea. I soggetti esterni intervenuti in giudizio innanzi alla Corte - ad esempio l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il Commissario europeo per i diritti umani ed il Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti - hanno confermato che si tratta di Paesi in cui è notoria la violazione dei diritti fondamentali della persona. Inoltre l'Italia era a conoscenza del fatto che la Libia non è parte della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, né della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato.

Gli accordi italo-libici, seppur garantiscono formalmente il rispetto dei diritti fondamentali, non sono di per sé sufficienti a fornire al contempo una tutela degli stessi anche sotto il profilo sostanziale.