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Il problema dell'identificazione del luogo di sbarco delle

3.3 Gli emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR e le Linee

3.3.1 Il problema dell'identificazione del luogo di sbarco delle

Nonostante il dovere per il comandante della nave e per lo Stato di cui l'imbarcazione batte bandiera di provvedere immediatamente all'assistenza di coloro che sono in una situazione di pericolo, e gli obblighi di cooperazione dello Stato costiero e di coordinamento dei soccorsi da parte dello Stato responsabile della zona SAR in cui le persone sono state tratte in salvo, manca, nelle disposizioni convenzionali, uno specifico obbligo per gli Stati coinvolti di consentire lo sbarco dei superstiti nel proprio territorio.

L'assenza di riferimenti giuridici idonei a determinare quale debba essere il porto di sbarco delle persone soccorse in mare rappresenta una grossa lacuna e le conseguenze della mancanza di un qualsiasi obbligo relativamente allo sbarco, soprattutto quando si tratti di consentire l'ingresso ai migranti soccorsi in mare, possono essere affrontate con riferimento al caso Tampa.47

Il 26 agosto del 2001 un'imbarcazione norvegese, la MV Tampa, soccorse nell'Oceano Indiano, nello specchio d'acqua tra l'Indonesia e l'Australia, un'imbarcazione battente bandiera indonesiana con a bordo 433 richiedenti asilo di origine afghana. Le persone vennero trasferite con successo a bordo della MV

47 Cfr. E. WILLHEIM, “MV Tampa: The Australian Response”, in International

Journal of Refugee Law, Vol. 15, Issue 2, 2003, pp. 159-191; . R. BARNES,

“Refugee Law at Sea”, op.cit., p. 48; N. KLEIN, “International Migration by Sea and Air”, in B. OPESKIN, R. PERRUCHOUD, J. REDPATH-CROSS (edited by), Foundations of International Migration Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, p. 278; D. GUILFOYLE, Shipping

Interdictions and the Law of the Sea, Cambridge University Press, 2009, p. 199

Tampa, con l'intenzione di proseguire la rotta ed effettuare lo sbarco sulle coste indonesiane. Tuttavia, assecondando le richieste dei superstiti e considerando le precarie condizioni di salute della maggior parte di essi, la decisione finale fu di dirigersi verso il porto di Christmas Island - territorio australiano - a 75 miglia di distanza, quale next port of call. Quando il capitano della nave norvegese comunicò alle autorità australiane l'intenzione di condurre i superstiti sull'isola gli fu negata l'autorizzazione. Se l'imbarcazione non si fosse astenuta dal continuare lungo la rotta ed avesse contravvenuto al divieto di ingresso nel territorio australiano, il comandante sarebbe stato accusato di migrant smuggling. Nonostante ciò, dopo diversi giorni di attesa in mezzo al mare, il capitano della MV Tampa, a causa della scarsità di acqua e cibo a bordo della nave e dell'aggravamento delle condizioni di salute delle persone soccorse, dichiarò lo stato di emergenza, oltrepassando il limite esterno delle acque australiane. L'Australia rispose con l'invio di speciali servizi armati (Special Armed Services - SAS) incaricati di ispezionare la nave e prenderne il controllo. I migranti, spostati su una nave australiana, vennero infine condotti in Papua Nuova Guinea, dove vennero esaminate le rispettive richieste di asilo.

Il caso Tampa servì a focalizzare l'attenzione internazionale sulla questione irrisolta dello sbarco delle persone soccorse in mare e rappresentò la causa che spinse, nel 2004, ad adottare gli emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, e le Linee guida sul trattamento dei migranti soccorsi in mare, da parte del Maritime Safety Committee dell'Organizzazione marittima

internazionale. Per evitare il verificarsi di nuovi “casi Tampa” fu disposto che i comandanti delle navi che avessero soccorso le persone in pericolo in mare fossero maggiormente tutelati nell'adempimento dei loro obblighi e ricevessero supporto, al fine di minimizzare il più possibile gli inconvenienti, quali ad esempio le deviazioni dalla rotta prevista, specie quando si tratti di un'imbarcazione privata. Ancor più significativa è stata la previsione dell'obbligo per lo Stato responsabile della zona SAR in cui avviene il soccorso, di garantire ai superstiti un place of safety.48 Una simile obbligazione non è stata tuttavia sufficiente a

colmare il vuoto riguardante la sorte delle persone soccorse.49

Il garantire un posto sicuro non significa infatti necessariamente, come già ricordato, dover consentire lo sbarco nel proprio territorio e pertanto l'obiettivo di assicurare con certezza un luogo in cui sbarcare i superstiti ancora non è stato raggiunto. Il place of safety, infatti, potrebbe anche coincidere con la nave che procede ad effettuare il salvataggio, quando sia in grado di fornire alle persone soccorse un minimo di servizi indispensabili, quali ad esempio cibo e cure mediche. Una simile soluzione deve tuttavia essere necessariamente temporanea e non può chiaramente configurarsi come definitiva.

48 Annex 3.1.9., Convenzione SAR: “[...] The Party responsible for the search and

rescue region in which such assistance is rendered shall exercise primary responsibility for ensuring such co-ordination and co- operation occurs, so that survivors assisted are disembarked from the assisting ship and delivered to a place of safety, taking into account the particular circumstances of the case and guidelines developed by the Organization. In these cases, the relevant Parties shall arrange for such disembarkation to be effected as soon as reasonably practicable”.

49 Cfr. ex multis M. PUGH, “Drowning not Waving: Boat People and Humanitarianism at Sea”, in Journal of Refugee Studies, Vol. 17, No.1, 2004.

La mancanza di una soluzione condivisa dagli Stati sull'identificazione del luogo di sbarco delle persone soccorse, ripercuote le sue conseguenze negative su tutto il sistema della ricerca e soccorso in mare. In particolare, uno dei rischi più concreti è legato alla mancata attuazione dell'obbligo per i comandanti delle navi di procedere al salvataggio delle persone in pericolo in mare.50 Nella prassi infatti accade, purtroppo, che

le navi si trovino in condizioni tali da “dover” ignorare le chiamate di soccorso, proseguendo lungo la propria rotta. Si tratta di una condotta che viola chiaramente le norme di diritto internazionale in materia di soccorso in mare e soprattutto si concretizza in un comportamento senza alcuna giustificazione dal punto di vista umano. Le navi che, al contrario, adempiono all'obbligo di soccorso, nella maggior parte dei casi51 si vengono

a trovare, successivamente, in una situazione di stallo, nell'attesa che uno Stato consenta loro di sbarcare i superstiti sulla terraferma.52 Durante l'attesa, spesso subiscono ritardi e, di

conseguenza, ingenti perdite economiche.53

Pertanto, la sconfitta da parte degli Stati nella buona riuscita dei meccanismi di cooperazione nell'organizzazione delle operazioni

50 J. COPPENS, E. SOMERS, “Towards New Rules on Disembarkation of Persons Rescued at Sea”, in The International Journal of Marine and Coastal Law, Vol. 25, Issue 3, 2010, p. 380.

51 Per alcuni esempi cfr. il caso Tampa, supra 3.3.1; ed il caso Pinar., infra 3.4.2. 52 Sul punto, e più in generale sulla questione delle problematiche connesse al

soccorso in mare, cfr. M. DI FILIPPO, “Irregular Migration and Safeguard of Live at Sea. International Rules and Recent Development in thr Mediterranean Sea”, in A. DEL VECCHIO (a cura di), International Law of the Sea. Current

Trends and Controversial Issues, The Hague, Eleven International Publishing,

2013.

53 A. KLUG, “Strengthening the Protection of Migrants and Refugees in Distress at Sea through International Cooperation and Burden-Sharing”, in International

di salvaguardia della vita in mare pone i comandanti delle navi in una condizione insostenibile.54

Un ulteriore motivo che decreta il fallimento delle operazioni di search and rescue in mare da parte delle imbarcazioni private è rappresentato dall'assenza, al livello nazionale, di una disposizione normativa che dia attuazione all'obbligo di soccorso previsto a livello internazionale. Solo con un'armonizzazione delle fonti legislative in materia e la previsione di specifiche responsabilità in capo ai comandanti inadempimenti, l'obbligo di soccorso di mare sarà effettivamente portato a termine.55

La riluttanza degli Stati nel mettere a disposizione i propri porti per lo sbarco risiede nel fatto che la maggior parte delle persone soccorse in mare sono migranti, e la possibilità che questi una volta a terra facciano richiesta di asilo sembra essere il disincentivo più grande.56

Una possibile soluzione per colmare la lacuna riguardante il porto di sbarco delle persone soccorse, consiste nella predisposizione dell'obbligo per gli Stati che intervengono nelle operazioni di soccorso di permettere l'ingresso, anche temporaneo, all'interno del proprio territorio. Una simile imposizione, se da una parte garantirebbe una maggiore certezza

54 International Transport Workers' Federation (ITF), “Damned if they do...”, 2006; disponibile online: <http://www.itfseafarers.org/damned.cfm>.

55 M. SCHEININ, “Rescue at Sea - Human Rights Obligations of States and Private Actors, with a Focus on the EU’s External Borders”, Robert Schuman

Centre for Advanced Studies (RSCAS) Policy Paper, Firenze, European

University Institute (EUI), 2012, pp. 7-8; J. PUGASH, “The Dilemma of the Sea Refugee: Rescue Without Refuge”, Harvard International Law Journal, Vol. 18, No. 3, 1977, pp. 579-581 .

56 V. MORENO-LAX, “Seeking Asylum in the Mediterranean: Against a Fragmentary Reading of EU Member States' Obligations Acruingat Sea”, in

sul luogo di sbarco, tuttavia, dall'altra, limiterebbe del tutto la discrezionalità con cui attualmente gli Stati affrontano le questioni legate al soccorso in mare, e difficilmente si rivelerebbe accettabile per gli Stati, i quali vedrebbero del tutto annullato l'esercizio della potestà decisionale relativamente agli ingressi sul proprio territorio. Vi è pertanto il rischio che gli Stati si esimano dall'intervenire, ignorando le richieste di soccorso, per evitare di dover consentire lo sbarco delle persone soccorse nei propri porti.

Qualora gli Stati acconsentissero all'introduzione di un obbligo di sbarco sulle proprie coste, di fatto finirebbero col cedere buona parte della propria sovranità. Tuttavia la prassi adottata negli ultimi anni sembra confermare il contrario.57 Gli Stati non

sembrano infatti pronti ad accettare il dovere di sbarco sulle proprie coste, qualora fosse loro chiesto di acconsentire all'ingresso dei migranti soccorsi in mare sul loro territorio. La Convenzione SAR si limita solamente ad affermare che lo Stato dovrebbe autorizzare l'immediato ingresso,58 senza l'imposizione

di alcun obbligo a riguardo.

Nel momento in cui gli Stati mantengono la discrezionalità relativamente allo sbarco delle persone soccorse, potendo anche rifiutarne l'ingresso nel territorio, la determinazione a priori di un luogo di sbarco sarebbe certamente opportuna. È auspicabile, dunque, l'introduzione di un criterio normativo per individuare con certezza il luogo in cui sbarcare i superstiti, sia esso il porto più vicino all'emergenza, il cosiddetto next port of call, il

57 J. COPPENS, E. SOMERS, op.cit., p. 400. 58 Annex 3.1.2, Convenzione SAR.

successivo porto di attracco o di destinazione dell'imbarcazione che ha effettuato il soccorso, ovvero qualsiasi altro porto che rappresenti un place of safety per le persone soccorse.59

Secondo il parere dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, le persone soccorse in mare dovrebbero essere sbarcate al porto di scalo successivo.60 Sebbene non si tratti di un

parere vincolante ha di fatto orientato il comportamento degli Stati durante le operazioni di salvataggio. La prassi seguita in materia di soccorso in mare, difatti, consiste in genere nel favorire lo sbarco delle persone nel next port of call. Nonostante il porto più vicino al luogo di salvataggio sia l'opzione maggiormente adottata, non si può tuttavia sostenere che vi sia l'affermazione di una regola di natura consuetudinaria a riguardo.61

La questione aperta dell'identificazione del luogo di sbarco delle persone soccorse e delle relative responsabilità rappresenta probabilmente il più grande ostacolo all'effettivo funzionamento del regime di search and rescue nel Mediterraneo. Di fronte all'incessante ondata di arrivi via mare e all'incremento delle richieste di soccorso da parte dei migranti che si apprestano ad attraversare il mare in condizioni precarie, al momento rimane ancora irrisolto un grande interrogativo: quando viene adempiuto

59 “Study on the international law instruments in relation ti illegal migration by sea”, SEC(2007) 691 final, 15 maggio 2007.

60 ExCom Conclusion No. 23 (XXXII), 3: “In accordance with established

international practice, supported by the relevant international instruments, persons rescued at sea should normally be disembarked at the next port of call. This practice should also be applied in the case of asylum-seekers rescued at sea”.

61 R. BARNES, “Refugee Law at Sea”, op. cit., p. 63 ; J. PUGASH, op. cit., p. 577.

l'obbligo degli Stati di prestare assistenza? È sufficiente che le persone soccorse vengano portate a bordo di un'imbarcazione sicura o il dovere di salvaguardia della vita in mare viene assolto solamente una volta che le stesse siano sbarcate sulla terraferma?

3.4 La responsabilità degli Stati per la violazione