3. Archeologia testuale
3.1 Accordo
I tre famigerati paragrafi sull’accordo nelle Ricerche condensano in pochi fulminei passaggi tutta una serie di considerazioni svolte ricorsivamente ed estensivamente altrove (in particolar modo, vedremo, nelle Osservazioni sui Fondamenti della Matematica). Come tali, la loro apparente semplicità nasconde un grande insieme di problematiche intricate. Iniziamo citandoli uno di seguito all’altro, in quanto sviluppano il medesimo flusso di pensieri, e nel commentarli cercheremo di allargare lo sguardo coinvolgendo altre osservazioni, tratte da altri testi:
Non sorge alcuna disputa (poniamo tra i matematici) per stabilire se si è proceduto o meno secondo una regola. Per questo non si viene, ad esempio, a vie di fatto. Ciò fa parte dell’intelaiatura sulla cui base opera il nostro linguaggio (sulla cui base, ad esempio, dà una descrizione).
“Così, dunque, tu dici che è la concordanza fra gli uomini a decidere che cosa è vero e che cosa è falso!” – Vero e falso è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita.
Della comprensione che si raggiunge tramite il linguaggio non fa parte soltanto una concordanza nelle definizioni, ma anche (per quanto strano ciò possa sembrare) una concordanza nei giudizi. Ciò sembra togliere di mezzo la logica, ma non è così. – Una cosa è descrivere i metodi di misurazione, un’altra è ricavare ed enunciare i risultati della misurazione. Ma ciò che chiamiamo “misurare” è determinato anche da una certa costanza nei risultati delle misurazioni.
(PI §§240, 241, 242)
L’argomento inizia con un’osservazione: fa parte della nostra esperienza quotidiana il fatto che chi calcola, e per estensione chi segue regole, chi parla, chi riceve ed esegue ordini, e così via, non è discorde sulla loro esecuzione. Il disaccordo c’è, e si manifesta ovviamente nella possibilità di commettere errori, ma questo è possibile solamente se esiste un accordo diffuso su cosa significhi il calcolo che si sta eseguendo. Questo accordo placido è descritto come l’intelaiatura (framework, nella traduzione inglese) su
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cui poggia il linguaggio. Nella seconda parte delle Ricerche, Wittgenstein ritorna su questa considerazione, dicendoci che in tal modo non si fornisce una ragione, un perché, ma, piuttosto, una descrizione di un elemento fattuale delle nostre pratiche: così succede (PI, p. 264). A ciò replica indispettito l’interlocutore: questo significa, forse, che questo accordo decide della verità delle nostre affermazioni? È un’obiezione lecita e non di poco conto, questa, se infatti non si chiarisce il tipo di accordo di cui stiamo parlando. Per fare un esempio, ci si può accordare facendo compromessi, prendendo una decisione, o ancora stabilendo una convenzione: se pensiamo all’accordo alla base della matematica in questo senso, allora si potrebbe ritenere che il numero successivo a quattro in una sequenza numerica a base due sia sei e non cinque perché abbiamo così deciso, in termini non dissimili a quanto sostenuto da Bloor e dalla prospettiva finitista. In tal modo, si farebbe dipendere la verità di proposizioni quali 4 + 2 = 6 dall’arbitrio affatto contingente delle nostre esigenze. La risposta di Wittgenstein, a tal proposito, si concentra nel raffinare il concetto di accordo in questione. La verità riguarda il dire, che come tale è concettualmente indipendente dal concordare, un concordare che non è nelle opinioni, ma nella forma di vita. Le opinioni, come tali, possono essere vere, e questa mera possibilità le connette concettualmente alla nozione di vero e falso, e quindi al dire. Una concordanza delle opinioni, quindi, fenomeno tipico della nostra vita in comunità, in questa sede non avrà alcun ruolo.
Cosa significa però una concordanza nella forma di vita? Secondo Wittgenstein essa è attestata non solo dall’accordo nelle definizioni, ma anche nei giudizi. Ci siamo soffermati a lungo sul concetto di definizione nel primo capitolo: ricordiamo che con esso Wittgenstein tende ad indentificare non solo le definizioni verbali, ma anche e soprattutto, quelle ostensive (come specifica in un passo per il resto identico nelle Osservazioni, RFM VI §39), e i modelli campione alla base di attività specifiche. Dare una definizione, in generale, è dare una spiegazione, e dare una spiegazione è la manifestazione tangibile del significato, il quale si esaurisce completamente in questa pratica specifica (BB, p. 5; PI §560). Se questo plesso di identità è corretto, si può allora concludere che l’accordo nelle definizioni si esaurisce in un accordo sul significato delle parole e delle espressioni che usiamo: di fronte ad un campione di colore verde, tutti i parlanti italiani lo riconosceranno come questo colore, e non altri, e così via per ogni espressione man mano più complessa della nostra lingua, se compresa. Fino a qui,
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Wittgenstein sembra insomma sostenere che l’accordo di cui stiamo parlando debba essere connotato in termini esclusivamente linguistici: da una parte ci sono le opinioni, su cui possiamo concordare o meno a seconda dei casi, dall’altra, a loro fondamento, ci sono i significati condivisi senza i quali non ci sarebbe linguaggio, e infine, di fronte ad entrambi, svetta il mondo dei fatti, ad essi indipendenti. Questa sorta di triangolarismo però viene fatto saltare in PI §242, nel momento in cui il filosofo ci dice che la concordanza nelle forme di vita si sostanzializza in un accordo anche nei giudizi, ossia nelle applicazioni specifiche delle regole nei singoli casi, su cui il mondo dovrebbe avere, intuitivamente, l’ultima parola. Il motivo di questa aggiunta ulteriore ci viene spiegato tramite un’analogia con i sistemi di misurazione, dove il ruolo della definizione è assunto dallo strumento di misura, mentre quello del giudizio dai singoli risultati delle misurazioni. È indubbio che descrivere i metodi di misurazione sia un’attività indipendente dal misurare, ma a sua volta è altrettanto evidente che se le applicazioni non manifestassero una costanza nei risultati, non avremmo proprio quei metodi di misurazione che abbiamo, e tale costanza la può garantire solo la fattualità placida del mondo così per come esso è. In maniera analoga, se non fosse attestabile un accordo condiviso nell’uso delle parole, non avremmo i significati che abbiamo, non esisterebbero i giochi linguistici corrispondenti. La struttura dei tre passaggi, si noti, è conseguentemente circolare: da una constatazione palese di un fatto (c’è un accordo manifesto nelle nostre pratiche) ad una chiosa sulle condizioni di possibilità fattuali dei nostri sistemi concettuali. Pare evidente, che in questo reciproco condizionamento tra definizioni e uso, tra standard di rappresentazione e applicazioni specifiche, sullo sfondo della costanza e delle regolarità del mondo, Wittgenstein stia cercando di pensare il momento liminale in cui il dualismo linguaggio-mondo viene meno, dissolto in una reciproca co-implicazione dei termini in gioco.
Cerchiamo ora di focalizzarci su alcuni punti chiave, appellandoci ad ulteriore evidenza testuale quando serve. In primo luogo, come già anticipato, l’accordo di cui si sta parlando nulla ha a che vedere con il concetto di decisione, o di delibera, o ancora di testimonianza del vero (LFM, p. 112): esso è un presupposto che non entra in gioco nell’applicazione specifica (Z §430), perché quando diciamo che due più due fa quattro non lo stiamo decidendo, e nessuno lo ha deciso in passato, magari ricorrendo ad una votazione pubblica (Z §431). In tal senso, suggeriamo, forse è il caso di distinguere il
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concetto di accordo da quello fuorviante di consenso, che coinvolge in maniera diretta la consapevolezza e la scelta di opzioni in conflitto. Ricordiamoci, in base a quanto detto nel primo capitolo, che seguire una regola non coinvolge affatto questo plesso di concetti relati: agiamo senza scelta, ciecamente (PI §219).
In secondo luogo, in conseguenza a quanto appena detto, l’accordo non è una ragione che mi giustifichi ad agire come effettivamente agisco: la discussione sullo statuto dell’accordo, una volta separato dal consenso, si connette alla discussione sull’agire senza ragioni, come il riferimento alla cecità di cui sopra già anticipava. Wittgenstein è esplicito, a tal proposito, in più di un passaggio: se durante un addestramento uno scolaro dovesse chiedere perché quello che fa è giusto, è più facile non rispondergli affatto, piuttosto che dire “perché tutti fan così” (Z §319)165. L’accordo è una constatazione fattuale, empirica166, che nulla ha a che fare con le ragioni167 del nostro agire così come agiamo (PI, p. 264). Se si giustificano le proprie azioni in virtù di ciò che gli altri fanno, non stiamo affatto seguendo una regola, ma semmai imitando le azioni altrui: stiamo giocando un altro gioco, non certo esplicitando ciò che il seguire una regola è in realtà. In maniera ancora più incontrovertibile, un passaggio delle Osservazioni corrobora questa osservazione, in riferimento al concetto di identico (il quale, ricordiamolo, è concettualmente connesso a quello di regola). Pensiamo ad un gioco linguistico in cui si intima di portare la stessa cosa ad un ascoltatore, il quale potrà
165 Su questo aspetto cruciale si basa, ricordiamolo, la critica di Baker e Hacker al revisionismo kripkiano (si veda il capitolo precedente).
166 Questa distinzione marcata tra il fornire una ragione e l’attestare un fatto rispecchia una serie di considerazioni wittgensteiniane sulla distinzione tra esser chiamato e essere: il fatto che la gente chiami lo stesso, l’identico, il rosso, e così via, così come effettivamente fa, non va in generale confuso con ciò che lo stesso, l’identico e il rosso effettivamente sono (RFM I §127), e rappresenta una delle tante declinazioni che la distinzione tra fattuale e grammaticale può assumere. Nel primo caso, siamo di fronte a delle constatazioni lessicografiche, e come tali empiriche, nel secondo, tramite una spiegazione del significato dei concetti in questione, forniamo una regola, uno standard di rappresentazione definito, di carattere totalmente differente. Per fare un esempio, asserire “la balena è questo”, magari indicando un’immagine della stessa in un libro illustrato, non è la stessa cosa che affermare “La balena è chiamata
whale dalla maggioranza degli inglesi”: nel primo caso, il significato è introdotto tramite spiegazione, nel
secondo è presupposto e già saputo, tramite correlazione di espressioni differenti della medesima regola; nel primo caso la spiegazione orienta l’azione, nel secondo si può utilizzare la formulazione lessicografica per fare previsioni sul comportamento linguistico altrui (RFM III §70).
167 Sembra che Wittgenstein abbia avuto dei dubbi e delle oscillazioni in merito a questo tema. Nelle
Lezioni sui Fondamenti della Matematica, ad esempio, l’accordo viene citato come giustificazione del
calcolo matematico. (LFM, p. 106). È lecito dubitare che ciò rappresenti davvero la posizione definitiva di Wittgenstein: in fin dei conti le Lezioni sono appunti che testimoniano l’attività speculativa del filosofo in itinere (e forse prevalentemente in questo sta il loro valore), oltre al fatto che altri passaggi all’interno del testo smentiscono questa affermazione, come LFM, p. 112 e LFM, p. 306.
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comprendere ciò che intendiamo solo dopo essere stato addestrato all’uso di questa parola: in un certo senso, la nozione di identità che costui impara riposa sull’accordo altrui, tramite esso è stata assimilata. Che conclusioni siamo invogliati a trarre da questa constatazione?
Does this mean e.g. that the definition of “same” would be this: same is what all or most human beings with one voice take for the same? – Of course not. For of course I don’t make use of the agreement of human beings to affirm identity. What criterion do you use, then? None at all.
To use the world without justification does not mean to use it wrongfully. The problem of the preceding language-game exists also here: Bring me something red. For what shows me that something is red? The agreement of the color with a sample? – What right have I to say: “Yes, that’s red”? Well, I say it; and it cannot be justified. And it is characteristic of this language game as of the other that all men consent in it without question.
(RFM VII §40)
L’accordo non costituisce il concetto di identità attivo nel gioco linguistico specifico, non è suo sinonimo, non funge da sua giustificazione, perché la correttezza dell’esecuzione è svincolata e svincolabile dall’essere espressa da una ragione appropriata, perché questa stessa correttezza è interna alla regola (PI §224, RFM VII §39; soprattutto, RFM VI §41), non esterna, estrinseca e appellabile al di fuori della regola stessa. L’accordo che questi giochi e giochi analoghi, come l’attribuzione del colore, manifestano, è una constatazione che nulla ha a che fare con le ragioni costitutive delle nostre pratiche linguistiche. Del resto, come è attestabile l’accordo tra la mia esecuzione e quella degli altri? Esclusivamente nel caso in cui le mie risposte siano le stesse degli altri, ma se è riconoscibile un’identità di qualche tipo, allora la regola è già attiva nello scambio tra me e gli altri, e riconosciuta come tale. A tal proposito, nel paragrafo precedente a quello citato, Wittgenstein ci ricorda che il concetto di accordo tra la regola e la mia applicazione è anch’esso implicito e costitutivo del plesso concettuale su cui ruota la nozione di regola: sono nozioni che si imparano insieme (RFM VII §39). L’interrogativo, si badi, riguarda la prima persona, non la terza, è l’accordo tra le mie risposte e la regola appresa che è in discussione: il
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punto è proprio che l’accordo, chiamiamolo così, intra-normativo, è esattamente lo stesso di quello inter-normativo della comunità, tramite cui ci accorgiamo che abitanti della medesima comunità agiscono tutti allo stesso modo. Solo in base a questa basilare identità riusciamo a cogliere la forza di PI §211, in cui Wittgenstein decentra l’interrogativo sul saper proseguire nell’esecuzione (ad esempio, di un motivo ornamentale) dalla terza alla prima persona, concludendo che nemmeno io ho delle buone ragioni per agire come agisco. L’accordo delle mie azioni con la regola e quindi con quelle degli altri funge da presupposto costitutivo di un’attività già normata, e come tale non può essere tacciato a criterio esterno ed indipendente dalla regola stessa.
Questa principale caratteristica che è attestabile nei nostri giochi, l’accordo, essendo costitutivo della nozione stessa di norma, ha una certa importanza: se i nostri calcoli smettessero di avere dei risultati costanti per tutti (LFM, pp. 106, 306) o se il disaccordo lo sostituisse nell’uso di ciò che chiamiamo “rosso”, il linguaggio si dissolverebbe (RFM III §70), il gioco linguistico dei colori si sfalderebbe (PI, p. 265), e così via. Del resto, la nozione di accordo è appunto interna alla regola, e se pensiamo ad una situazione controfattuale in cui l’accordo inter-soggettivo nelle applicazioni delle regole non si dà, semplicemente non sarebbe possibile seguire regola alcuna, e la comunicazione imploderebbe. È naturale giungere a queste conclusioni perché, ribadiamolo, non c’è altro accordo che non sia quello costitutivo della regola in se stessa: immaginare una situazione in cui l’accordo inter-soggettivo nelle applicazioni non esiste, è analogo al caso in cui siano le mie applicazioni a non essere le stesse nei medesimi contesti in tempi diversi. Le applicazioni degli altri, così, rimandano reciprocamente alle mie applicazioni, e viceversa: parlare di accordo inter-soggettivo, allora, viene da concludere, non è altro che un modo per gettare luce sulla grammatica del seguire una regola e le sue connessioni con i concetti di identità e concordanza, senza al contempo impegnarsi a sostenere teorie e a delineare una primazia della comunità sull’individuo; quanto meno, non in questo contesto sembra individuabile un intento di questo tipo.
L’accordo, così, si deve manifestare anche nei giudizi, ossia nelle applicazioni specifiche della regola in circostanze normali e abituali: del resto non si può pensare diversamente, nel momento in cui si pensa al significato, con Wittgenstein, non come
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altro dalla sua applicazione (in modo tale che possa essere concepibile un accordo sui significati, poniamo, dei colori, ma avere pareri sistematicamente diversi nel momento in cui ci troviamo ad applicarli), ma piuttosto come elementi internamente connessi, facce della medesima medaglia, esattamente come, in maniera analoga, è assurdo pensare che le unità di misura si introducano senza riferimento alla costanza dei risultati, alla determinazione di esempi specifici. Se non si concorda sui giudizi, di fatto, non c’è regola alcuna stabilita e condivisa (LFM, p. 106). Su questo punto, in particolare relativamente all’analogia con i sistemi di misurazione, Wittgenstein torna a più riprese, ad esempio nella seconda parte delle Ricerche (PI, p. 263), dove appunto ci viene detto che si compie un grosso errore a pensare separatamente il concetto di lunghezza dalla propria determinazione in casi specifici, come se fossero elementi tra loro indipendenti, o ancora nelle Osservazioni, dove la sicurezza cieca, priva di ragione, di chi afferma senza esitazione che la rosa che ha di fronte è rossa, è paragonata alla rigidità di uno strumento di misura: è il presupposto che costituisce la nostra attività di descrizione, senza la quale non ci sarebbe descrizione affatto (RFM VI §28)168.
Se ci fosse un disaccordo costante nei giudizi, quindi, non ci sarebbe linguaggio condiviso. Il linguaggio condiviso però c’è, e possiamo constatarlo con grande facilità. Come rendere conto di questa caratteristica fondamentale? Secondo Wittgenstein, essa riposa su alcune invarianze empiriche su cui di fatto non facciamo mai conto, perché rappresentano quei fatti generalissimi che proprio per la loro generalità sfuggono alla nostra vista (PI, p. 68, PI §142, LFM, p. 306). Chiaro è questo passaggio della seconda parte delle Ricerche, in cui Wittgenstein sviluppa la considerazione di PI §240 relativamente all’accordo matematico:
Si può discutere sul risultato corretto di un calcolo (per esempio di una lunga addizione). Ma una disputa del genere sorge raramente e dura poco. Essa si può, come si dice, decidere con sicurezza.
168 A questo livello, la discussione si interseca con la fondamentale distinzione tra proposizioni matematiche e asserzioni empiriche: 25 ×25 = 625 è una proposizione matematica e non empirica perché funge da standard di rappresentazione, previa accettazione del quale costruiamo ogni giudizio inerente le quantità del mondo (RFM VI §28). Notiamo la modalità analogica di ragionare di Wittgenstein relativamente a questi temi: il rapporto tra definizioni e applicazioni ricalca quello tra regola e impiego, tra campione ed esempio, tra unità di misura e misurazione effettiva, tra proposizioni matematiche e giudizi empirici. Lo stesso esempio numerico, tra l’altro, ritorna in LFM, p. 44.
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In genere tra i matematici non sorgono discussioni sul risultato di un calcolo. (questo è un fatto importante.) – Se accadesse altrimenti; se, per esempio, uno fosse convinto che una cifra è inavvertitamente cambiata, o che la memoria ha ingannato lui o un altro, ecc., ecc., - allora il nostro concetto di “sicurezza matematica” non esisterebbe.
(PI, p. 264)
Come nel caso di RFM VI §28, in cui Wittgenstein parla della sicurezza priva di esitazioni di chi giudica rossa una rosa, qui il tema è la sicurezza matematica, la quale si manifesta ovviamente nei risultati dei singoli calcoli, nel modo in cui ci relazioniamo ad essi: da una parte il significato di rosso in relazione ad un giudizio, dall’altra la regola matematica in relazione all’esito di un calcolo specifico. La sicurezza matematica, ci viene detto, non esisterebbe, in un contesto in cui le circostanze ambientali fossero radicalmente diverse, come nel caso in cui avrebbe senso dubitare della natura cangiante dei numeri impressi su carta, o non avessimo la capacita di tenere a memoria anche le più semplici sequenze. Questi sono fatti naturali, che in qualche modo sostengono e compongono le condizioni di contorno dei nostri calcoli. Si badi bene, sono, queste, regolarità fattuali, non giustificazioni, come subito lo stesso Wittgenstein prova a mettere in chiaro:
Ma voglio dire che la certezza della matematica riposa sull’attendibilità dell’inchiostro e della carta? No. (Questo sarebbe un circulus vitiosus) – Non ho detto perché fra i due matematici non sorga mai una discussione, ma soltanto
che non sorgono mai discussioni.
(PI, p. 264)
Prendiamo il controfattuale della carta instabile e ingannatrice, che rende impossibile la stabilità dei calcoli e ne dissolve la praticabilità. Ciò non succede, è un fatto che non succeda: ciò significa forse che questa fattualità, l’attendibilità dell’inchiostro su carta, sia la garanzia, la corroborazione, la giustificazione della certezza della matematica, come se essa fosse un tipo particolare di certezza teorica? Per Wittgenstein la risposta è
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negativa169: in caso contrario, la certezza matematica sarebbe giustificata dal fatto che la carta non mi inganna, e questa stessa certezza relativa alla carta è attestabile solo dal fatto che agisco con certezza quando eseguo i miei calcoli (da qui, l’oscura allusione al