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4. Dare un esempio, fornire una definizione

4.2 Oltre l’esempio

Abbiamo visto, nel paragrafo precedente, quanto sia centrale la nozione di esempio, e di spiegazione tramite esempio, nell’economia complessiva del discorso wittgensteiniano sulle regole. Tramite esempi, le regole si esibiscono, e l’addestramento si configura, in un certo qual modo, come una particolare istruzione ad un modo di vedere:

“Ma lo vedi, no?...!” Ebbene, questo è appunto il modo di esprimersi caratteristico di uno che è costretto dalla regola.

(PI §231)

Di fronte ad un interlocutore che non capisce la spiegazione, ad esempio, di una determinata operazione matematica, manifestando la sua incomprensione in una serie costante di errori, siamo portati a ripetere gli esempi, ed esortarlo, dicendogli di guardare cosa fa. A questo livello, la regola non serve a nulla, non è invocabile per fornire una spiegazione, in quanto è essa stessa la cosa spiegata (Z §302). Possiamo esortare finché vogliamo il nostro alunno recalcitrante a prestare attenzione a cosa facciamo: altro non possiamo fare, se egli è naturalmente predisposto a non cogliere la regola come facciamo noi. L’incapacità radicale di capire la regola, in questo senso, non è molto distante da chi è predisposto a guardare in direzione del polso, di fronte ad un gesto ostensivo della mano (PI §185).

L’analogia con la visione, tanto cara a Wittgenstein, non deve però fuorviarci. Se è vero che la visione ha un carattere soggettivo che non coinvolge direttamente la natura di ciò che è visto, ma piuttosto il nostro modo di vedere le cose, allo stesso tempo possiamo cadere nell’errore di pensare che ciò che si tratta di cogliere sia una specifica peculiarità

68 La filosofia della matematica di Wittgenstein può essere considerata come un complesso tentativo di emancipazione e dal logicismo e dall’intuizionismo classico. Conseguentemente, esito di questa operazione è il disconoscimento di supposti rapporti gerarchici e fondativi tra differenti sistemi di calcolo, così come il logicismo li aveva intesi nel tentativo di ridurre la matematica alla logica. Tuttavia, logica e matematica sono analoghe sotto un importante aspetto: sono sistemi rigidi di norme che intessono il medesimo rapporto con l’esperienza (LFM, p. 286; RFM I §165). Non stupisce, dunque, che entrambe abbiano la medesima funzione metodologica negli scritti wittgensteiniani.

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presente nell’oggetto esibito durante l’addestramento. Ancora e in altri termini, non bisogna dimenticare che il vedere lo stesso, l’analogo, il diverso, è il risultato dell’addestramento, e che quindi la sua possibilità non sta a condizione dello stesso, bensì ne sarà l’esito. Siamo spesso spinti a pensare che la serie di esempi sia solo la resa parziale del nostro conoscere la regola, intesa come oggetto molto particolare nascosto da qualche parte oltre gli esempi: si danno esempi, verrebbe da dire, in virtù della conoscenza pregressa della regola, possibile indipendentemente da essi, e l’esempio può al massimo fornire l’occasione in cui l’intelletto possa dispiegarsi e cogliere l’unità universale nella molteplicità dei diversi casi. Insomma, varie confusioni si agglutinano intorno alla relazione tra la particolarità monca dell’esempio e l’universalità immacolata che siamo soliti attribuire alla regola e alla definizione: pensiamo che si debba vedere una qualche comunanza sottesa ai diversi casi, pensiamo che essa sia accessibile tramite un atto di intuizione intellettuale, oppure, che il pattern di esecuzione che sostanzia la lista di esempi sia solo indovinabile. Soffermiamoci ancora un po’ su queste opzioni. La discussione del concetto di comunanza in relazione alle spiegazioni tramite esempi viene sviluppata nel bel mezzo della discussione wittgensteiniana delle somiglianze di famiglia. Non c’è del resto da stupirsi, in quanto i concetti aperti sono nella maggior parte dei casi indefinibili verbalmente, e dare un esempio è di conseguenza la tipologia di spiegazione semantica più ovvia in questi casi. In PI §71, Wittgenstein mette subito in chiaro che gli esempi non sono una mossa esplicativa surrogata per cogliere una comunanza oggettiva tra i diversi casi, esprimibile da una definizione che non riusciamo in via provvisoria a formulare. Al contrario, al lessico della comunanza si deve sostituire quello dell’applicazione: ciò che viene insegnato è, semmai, un modo di applicare gli esempi. Si deve dunque sgombrare il campo dall’ipoteca empirista e induttivista, che sul concetto di comunanza si fonda, nell’unico modo a noi consentito: dissolvendone la presunta necessità, elaborando una rappresentazione perspicua degli usi del termine in questione, magari di elementi a prima vista non sospettabili, a differenza dei concetti aperti, come i colori. Il paragrafo successivo formula esattamente questo intento:

Vedere ciò che è comune. Supponi che io mostri a qualcuno differenti immagini

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definizione che l’altro capisce nella misura in cui cerca, e vede, ciò che quelle immagini hanno in comune. Allora potrà guardare ciò che è comune, indicarlo. Confronta con questo: Gli indico figure di forma differente, dipinte tutte con lo stesso colore, e dico: “Ciò che queste figure hanno tra loro in comune si chiama ocra”.

E confrontalo con questo: Gli indico campioni di differenti sfumature di blu, dicendo “Il colore che è comune a tutti lo chiamo blu”.

(PI §71)

Abbiamo, affiancati l’un l’altro, esattamente tre casi distinti del vedere ciò che è comune. I primi due sono piuttosto simili: in entrambi i casi, la comunanza è indicabile, è rappresentata dal colore in comune a tutte le figure. La distinzione si da però, nel fatto che nel primo uso il colore in comune va cercato, e la definizione si regge sulla capacità del discente di scovare l’elemento in comune, mentre nel secondo l’associazione è immediata, e non è esito di una attività di riconoscimento (Baker Hacker 2005, Vol.2, p. 163; Lugg 2000, pp. 127-128). Tutt’altro paio di maniche il terzo esempio. Siamo di fronte ad un caso di definizione ostensiva, in questo caso della parola blu, tramite l’accostamento di diverse sfumature del colore. Il riconoscimento di qualcosa in comune tra i differenti campioni non gioca alcun ruolo riconoscibile in questa attività, come invece si può sostenere per gli esempi precedenti69. Possiamo dire che chiamiamo blu tutto ciò che le sfumature in questione hanno in comune, ma è evidente che una tale formulazione non significa nulla di più del fatto che usiamo la parola blu per questa molteplicità specifica di casi. Sembra chiaro, dunque, che i rapporti tra comunanza e applicazione sono diametralmente invertiti rispetto ai due casi concernenti l’ocra: non è più l’applicazione a basarsi sul riconoscimento di una comunanza tra campioni specifici, ma semmai il contrario, è la comunanza ad essere l’esito del nostro utilizzare la parola in un determinato modo70.

69 In PI §33 abbiamo alcune anticipazioni su questo tema, relativamente alla possibilità di isolare una modalità specifica di riferirsi all’oggetto definito tramite ostensione. In tal caso, la discussione sulle molteplici modalità che sviluppiamo per riferirci ai colori si salda con una riflessione più generale sull’intendere una cosa piuttosto che un’altra come ciò che fissa l’oggetto dell’indicare.

70 Possiamo estendere queste considerazioni, in maniera analoga, a concetti ben più complessi, come il

dolore: è davvero necessario pensare che a condizione dell’applicazione legittima di tale concetto debba

essere individuabile qualcosa in comune in tutti i casi in cui applichiamo legittimamente il termine? Davvero c’è qualcosa di irriducibilmente identico nella sensazione che proviamo sbucciandoci il ginocchio, tagliandoci il dito mentre tagliamo le cipolle, sbattendo la testa sullo stipetto del bagno o

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Si possono estendere tali considerazioni ai casi paradigmatici e ai campioni generali (PI §§73, 74). Fuorviati dall’analogia tra la definizione ostensiva e le tabelle di associazione, pensiamo che capire la definizione ostensiva sia possedere un concetto della cosa definita, o un’immagine mentale che rifletta specularmente la comunanza. Ma l’essere un’immagine un paradigma, uno schema di applicazione in ogni occasione futura, è dato dal modo in cui impieghiamo il campione in questione, non certo da una sua proprietà intrinseca, impossibile da isolare e da ritagliare tra tutte le possibili forme che potrebbe assumere (che forma deve avere, ad esempio, il campione generale di verde “puro”?). Il significato non dipende da elementi esperenziali, almeno non del tutto e non necessariamente (PI §74): non ha infatti alcun senso sostenere che un campione generale, ad esempio, di una foglia, sia visto diversamente se inteso come tale o, piuttosto, come campione di una determinata forma geometrica. Ciò che è necessario che cambi non è altro che il modo di operare con esso, questo è l’unico criterio valido in nostro possesso per capire il ruolo dei campioni nella nostra vita71.

Se la comunanza è un prodotto della nostra attività, nel senso che attesta la costanza di un uso, e non viceversa, comunque rimane l’impressione che la comprensione vada ben oltre l’esempio, il quale ai nostri occhi difetta costitutivamente di generalità . Quando padroneggiamo una regola, abbiamo la sensazione di “avere di più” rispetto all’enumerazione dei singoli esempi dati nella spiegazione (PI §209), come se qualcosa di essenziale sempre mancasse. Ognuno sa cos’è un gioco, sarebbe quanto meno contro-intuitivo pensare il contrario; eppure, il mio sapere non è dicibile, nel senso che non è esprimibile in una chiara definizione verbale, ma è esprimibile solo tramite una serie di esempi. Questo ci fa problema, e pensiamo allora che oltre all’esempio debba stagliarsi un contenuto cognitivo esprimibile da una definizione. Il punto però, è che non è affatto necessario pensarla così. Ci sono forme di sapere che si esauriscono nel venire espressi

mettendo le dita nella presa elettrica? Su tale tema getta luce, ancora, Z §380, in cui si elabora il caso immaginario della tribù che possiede un lessico del dolore divergente dal nostro.

71 PI §74 si conclude ammettendo che si deve concedere che si possa distinguere un vedere così e un

vedere diversamente. Si anticipa, quindi, la discussione sul vedere aspetti (PI pp. 229- 267), e insieme,

quella sulla comprensione (PI §139). Si prenda il caso di un disegno di un cubo, dice Wittgenstein: lo si può vedere come una figura tridimensionale o bidimensionale (in modo analogo al caso dell’anatra-coniglio); ai due modi di vedere, comunque, corrispondono due modi di applicazione, e questo è tutto ciò che ci serve per comprendere ciò che avviene. I casi del vedere aspetti e del rapporto logica-esperienza, ad ogni modo, produrranno più di un grattacapo a Wittgenstein, che tornerà ossessivamente su questo tema nell’ultima fase della sua produzione, nella seconda parte delle Ricerche, e nelle Osservazioni sui

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verbalmente, come quando, ad esempio, ci viene chiesto quale sia il numero atomico del Carbonio: in questo caso saperlo e dirlo si manifestano sempre insieme, e il dire costituisce un criterio del sapere72. Altre, di contro, si caratterizzano per non essere dicibili affatto: è il caso di una melodia, di un particolare suono, o ancora del gusto di una pietanza. In un certo senso, sappiamo come sono tutte queste cose, eppure ben poco di esplicativo potremmo fornire a chi ci chiedesse com’è il suono di un’ocarina o il sapore di un mango; più verosimile è reagire facendo ascoltare un campione o porgendo al discente il frutto in questione. Caso analogo a questo, ma ben distinto, è il nostro sapere cosa sia un gioco, o un numero, o uno sport, e così via (PI §78). Il nostro sapere, in questo caso, si esaurisce nel fornire una serie di esempi, e dare definizioni non è affatto richiesto. Insomma, il sapere è anch’esso, a sua volta, un concetto aperto: con esso giochiamo giochi analoghi, ma ben distinti. In particolare, sapere il significato è una forma specifica di know-how, di capacità (questo è l’esito, tra l’altro, dell’indagine sul concetto di comprensione linguistica sviluppata in PI §§138-184, preludio dei paragrafi sul seguire una regola), distinta dalla mera conoscenza proposizionale dell’esempio del Carbonio, o da quel tipo molto speciale di familiarità tipica degli esempi dell’ocarina e del mango. Degradare la spiegazione tramite esempi ad un surrogato, risponde ancora una volta alla logica della sublimazione, che in questo contesto isola la spiegazione verbale e la pone ad unico paradigma legittimo del conoscere il significato. Il nostro sapere diventa, così, equivalente ad una definizione non formulata (PI §75)73, implicita, completamente scissa e indipendente dalla mia

72 Non sempre è così, naturalmente. E’ sensato sostenere che si possa dire un’informazione senza sapere nulla a riguardo, come quando mi si chiede di riportare un’informazione di cui non conosco le fonti, o quando esprimo un giudizio in uno stato alterato, e di cui non riesco a rendere conto in un secondo momento. Non c’è, quindi, un unico criterio per l’attribuzione di sapere.

73 Suggeriamo, quindi, di leggere PI §75 e PI §78 insieme: il primo disarticola il sapere il significato dal possederne una definizione, e il secondo suffraga questa conclusione producendo una rappresentazione perspicua dei diversi usi della parola sapere in relazione alla possibilità della sua espressione. Eike Von Savigny, al contrario, sostiene l’opposto: i due paragrafi sono autoescludentisi, in quanto PI §78 dimostrerebbe che non è affatto necessario dare una spiegazione del significato per seguire una regola, sia pure nel senso debole del fornire un esempio (Von Savigny 1991, p. 73). Non riusciamo davvero a comprendere come una tale posizione sia sostenibile. In primo luogo, una simile lettura sottovaluta il ruolo che Wittgenstein attribuisce alla capacità di fornire spiegazioni del significato come chiave di accesso al concetto di significato stesso (PI §560, BB, p. 5); in secondo luogo, e soprattutto, essa non coglie il punto di PI §78: tale paragrafo non si interroga sulla necessità o meno del fornire spiegazioni come criterio della comprensione delle parole, ma piuttosto, cerca di liberarci dalla convinzione che ogni forma di sapere sia di carattere proposizionale, come il sapere l’altezza del Monte Bianco, citando un caso chiaramente non ad esso ascrivibile, la conoscenza di un suono. Che essa non sia esprimibile non prova nulla sulla relazione che intercorre tra un tipo molto specifico di sapere, quello del significato, e la sua spiegazione, come vorrebbe Von Savigny.

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capacità di rendere conto del significato delle parole che uso. E deve essere così, perché così vogliono le nostre esigenze teoriche. Cerchiamo spiegazioni ulteriori, quando invece ci servono solo descrizioni di differenti usi, come nel caso della comunanza o dei tipi di sapere. “La difficoltà, qui, sta nel fermarsi”: nell’accettare come risultato della nostra ricerca ciò che ci sembra solo un preliminare (Z §314), perché è nella logica della spiegazione non essere mai sufficientemente esaustiva74.

Del resto, non si ferma certo chi, di fronte alla serie di esempi, pensa che la comprensione sia paragonabile ad un indovinare il significato, e quindi l’applicazione del termine o della regola per gli usi futuri. Ma cosa vuol dire, davvero, indovinare la prosecuzione di una serie numerica, o il significato dell’arcaismo imperocchè, per fare un esempio linguistico?

“Ma gli spieghi veramente ciò che tu stesso capisci? L’essenziale non glielo lasci forse indovinare? Tu gli dai esempi, - egli però deve indovinare dove vanno a parare, e dunque il tuo intento”. – Ogni spiegazione, che io posso dare a me stesso, la do anche a lui. – “Egli indovina ciò che io intendo“ vorrebbe dire: alla sua mente si affacciano differenti interpretazioni ed egli cerca di indovinarne una. In questo caso, potrebbe fare domande; e io potrei rispondergli, e gli risponderei.

(PI §210)

Pensare che comprendere la regola equivalga ad indovinarla è frutto di una confusione. Infatti, l’indovinare è strettamente connesso al concetto di scelta (Z §307): posso indovinare di che regola si tratti soltanto se sono incerto tra più alternative egualmente valide, che già conosco e padroneggio. Il caso è analogo a quello della sotto-determinazione empirica delle ipotesi rispetto all’esperienza in sede epistemologica: in tali circostanze, abbiamo una stessa evidenza di conferma alla base di due o più ipotesi in competizione. Si potrebbe pensare che comprendere come proseguire una serie numerica sia non molto differente al formulare un’ipotesi, con la risposta linguistica del

74 Esemplare, in tal senso, è PI §87, che denuncia il carattere vacuo della pretesa di giungere ad una spiegazione ultima. Nessun regresso nella catena delle spiegazioni è richiesto, perché nessuna spiegazione lo richiede. Siamo noi che ricorriamo a molteplici spiegazioni, le quali sono sempre relative a

fraintendimenti specifici, mai ad ogni possibile fraintendimento. La discussione sulla natura della

spiegazione si interseca, a sua volta, con le osservazioni relative alla liceità del dubbio (PI §§84, 85, 213) e col concetto di completezza normativa sopra esposto.

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mio istruttore che va a sostituire i risultati empirici della sperimentazione di conferma, ma ciò è fuorviante. Nessuna attività di scelta e di delibera, o nessuna scommessa, è in atto quando capisco che 102 è il numero successivo a 100 in una serie a base due. Non si prevede niente quando si capisce una regola75. La comprensione è già cosa acquisita affinché sia possibile deliberare tra alternative differenti. Comprendere una regola non può essere indovinarla: quando seguo una regola, non ho nessuna scelta, la seguo ciecamente (PI §219), nel senso che la seguo nella più completa sicurezza di chi non è turbato dalle alternative logicamente possibili (PI §212), non nell’accezione (fuorviante) di chi agisce completamente senza guida, brancolando nel buio (Fogelin 1987, p. 159). Fare ipotesi su un determinato comportamento linguistico è, tra le altre cose, il lavoro di un interprete alle prese con una lingua che non conosce. A questo punto, abbiamo abbastanza elementi per capire a fondo PI §32, in cui si ribadisce che acquisire una lingua ed interpretarne un’altra sono due attività ben distinte:

Chi giunge in terra straniera impara talvolta la lingua degli indigeni mediante le definizioni ostensive che questi gli danno; e spesso dovrà indovinare come si devono interpretare quelle definizioni, e qualche volta indovinerà giusto, altre volte no.

E ora possiamo dire, credo: Agostino descrive l’apprendimento del linguaggio umano come se il bambino giungesse in una terra straniera e non comprendesse la lingua del paese; vale a dire come se possedesse una lingua, ma non questa. O anche: come se il bambino fosse già in grado di pensare, ma non ancora di parlare. E qui “pensare” vorrebbe dire qualcosa come: parlare a se stessi.

(PI §32)

Da una parte l’interprete che cerca di acquisire ex novo una seconda lingua, dall’altra un bambino che, invece, è completamente sprovvisto di competenze linguistiche: sono i

75 Sul rapporto tra calcolo, predizione ed esperimento, Wittgenstein torna ricorsivamente negli scritti dedicati alla matematica. Si vedano in particolare la lezione 10 delle Lezioni (LFM, pp. 97-107) e RFM V.

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due corni del terzo caso nella tripartizione degli usi in PI §5476. Appiattire il caso del bambino su quello dell’interprete è all’origine, secondo Wittgenstein, delle confusioni concettuali dell’immagine agostiniana del significato. Rispetto all’attività compilativa del lessicografo, alle ipotesi linguistiche dell’interprete o agli sforzi di uno studente alle prese con una seconda lingua, che ricorre a manuali e quindi, a regole esplicite, l’attività di un bimbo che cerca di imparare la propria lingua madre non coinvolge né ipotesi, né interpretazioni, ne’ qualsiasi altro tipo di attività razionale che coinvolga una scelta tra diverse possibilità logicamente percorribili. È un errore interpretare ciò alla luce del caso dell’interprete: significa, secondo Wittgenstein, cadere nelle maglie dell’immagine agostiniana, che appunto ritiene che i bambini posseggano già una lingua nel momento in cui si apprestano ad imparare la propria; il che è, ovviamente, assurdo77.

Se l’indovinare non è un concetto adeguato per rendere conto della comprensione linguistica, “scappatoia superflua” è allo stesso modo l’intuizione (PI §213). Ci manca, in questo caso, un’immagine che sostanzi l’uso di un concetto simile (PI §191). Come dobbiamo intenderla infatti, come una voce interna che mi guidi singolarmente ad ogni passo? Ma in tal modo non sfugge di certo al dubbio iperbolico, che pure era sua intenzione esorcizzare (la voce potrebbe sempre ingannarci). Seguire una regola, poi, in queste condizioni, si tramuterebbe nel seguire una sorta di suggerimento interiore (PI §232): la commistione tra i due giochi non regge, però, perché seguire una regola non significa aspettarsi passivamente alcunché, e inoltre la mia capacità di seguire il