2. Regole e ruoli nei giochi linguistici
2.1 Regole esplicite
Tabelle, spiegazioni verbali e ostensive, campioni, unità di misura, proposizioni matematiche: la carne al fuoco è, pare, moltissima. A questo punto, cominciamo, per fare un po’ di chiarezza, a chiederci che ruolo le regole possono esercitare nelle nostre
Russell (Russell 1905). Il risultato della discussione è brillantemente sintetizzato in PI §30: “La
definizione ostensiva spiega l’uso – il significato – della parola, quando sia già chiaro quale funzione la parola debba svolgere, in generale, nel linguaggio”.
34 Nel Big Typescript, questo giro di pensieri è espresso in modo piuttosto chiaro. L’unico modo di dare una regola è attraverso la sua espressione, e gli esempi saranno una delle sue tante espressioni legittime (BT 42 §29).
37
attività linguistiche. Wittgenstein ci consegna in merito un paio di paragrafi estremamente preziosi nelle Ricerche, a cui si deve aggiungere una minuta discussione del medesimo tema nel Libro Marrone. Quando, si chiede Wittgenstein, un gioco si gioca secondo una determinata regola?
La regola può essere un ausilio nell’insegnamento del gioco. È comunicata allo scolaro, che viene esercitato ad applicarla. – Oppure è uno strumento del gioco stesso. – Oppure ancora: Una regola non trova impiego né nell’addestramento né nel gioco stesso, e non è neppure depositata in un elenco di regole. S’impara il gioco osservando come altri giocano. Ma noi diciamo che si gioca seguendo questa o quest’altra regola, perché un osservatore può ricavare queste regole dalla pratica del gioco, - come una legge naturale a cui si conformano le mosse del gioco.---- Ma in che modo l’osservatore distingue, in questo caso, tra un errore dei giocatori e una mossa corretta? – Per distinguere ci sono, nel comportamento dei giocatori, certe caratteristiche.
(PI §54, corsivo mio)
Wittgenstein distingue almeno tre funzioni delle regole in rapporto alle nostre pratiche linguistiche. Nei primi due casi, la regola può essere impiegata come strumento di insegnamento di un gioco, oppure può essa stessa esser parte del gioco. Un esempio di questi usi è già fornito da Wittgenstein nel paragrafo precedente (PI §53), in riferimento alla tabella illustrata in PI §48. Si può immaginare che una tabella sia usata per imparare delle modalità specifiche di associazione di determinati campioni di colore con delle lettere. In questo caso, la tabella sta prima e a condizione dello svolgersi del gioco, e, al massimo, può venir richiamata come standard di correttezza nel momento in cui non siamo più sicuri della sua applicazione. Se, ad esempio, mi dimentico come sia il rosso vermiglio e non sono più capace di distinguerlo dal cremisi, ecco che la tabella può esser richiamata per dirimere la difficoltà. D’altro canto, possiamo rendere la tabella essa stessa una parte costitutiva del gioco, se abbiamo imparato ad usarla e la utilizziamo ogni volta che se ne presenta l’occasione. In questo caso, la tabella diventa l’immagine sostitutiva dell’associazione mnemonica, e il gioco assume un carattere quasi meccanico nella propria esecuzione. Fuor di metafora, e allontanandoci dal testo, per sostanziare maggiormente questa distinzione possiamo citare, da un lato, le istruzioni di montaggio di un elettrodomestico come istanza canonica di regole attive
38
nel dispiegarsi stesso di un gioco, o ancora i suggerimenti che impieghiamo giocando ad una caccia al tesoro (Lugg 2000, p. 99), mentre dall’altro, possiamo pensare alle regole di determinati tipi di giochi, come gli scacchi e altri giochi da tavolo, le quali vengono solitamente enunciate in fase di apprendimento, e non più enunciate, se non per denunciarne una possibile violazione.
A questi due casi, Wittgenstein ne affianca un altro, fra tutti il più interessante. Le regole possono, ci dice, essere enunciate ex post, estratte dalla mera osservazione delle pratiche del gioco, che è possibile quindi padroneggiare senza esser sottoposti ad alcun tipo di addestramento. Senza sapere nulla delle regole degli scacchi, si può notare che l’alfiere muove sempre in diagonale, il re si sposta di una casella in ogni direzione, la regina pure ma senza vincoli nel numero di caselle, e così via. Si può, insomma, in linea di principio, acquisire padronanza del gioco senza che ci venga enunciata una sola regola, basandosi sulla sola osservazione, come Wittgenstein già aveva anticipato in un paragrafo precedente relativamente alle definizioni ostensive (PI §31)35. In tal caso l’attività che è richiesta all’osservatore non è così differente da chi cerca regolarità naturali, leggi che governano l’uso dei fenomeni. Non bisogna comunque troppo indulgere sull’attrattività di tale analogia: le regole del gioco, a differenza delle leggi naturali, sono standard che stabiliscono ciò che è corretto e ciò che non lo è, delimitando il lecito e distinguendolo dall’illecito. A differenza di un sasso in caduta libera o dell’acqua in ebollizione, gli esseri umani, appunto, seguono liberamente le regole, e ciò si manifesta all’interno di una serie di comportamenti conseguenti, il più evidente dei quali è il correggere gli errori, degli altri e di se stessi, qualora se ne presenti l’occasione (Wittgenstein, nel prosieguo del paragrafo riportato, cita, ad esempio, il comportamento tipico di chi corregge un lapsus linguae).
Riusciamo a sostanziare questa terza categoria di casi con un esempio linguistico? Come valido candidato possiamo pensare al lavoro di un interprete o di un etnologo,
35 PI §31 si colloca all’interno della discussione sullo statuto della definizione ostensiva. Affermare “Questo è il re” indicando la pedina ottiene il suo scopo secondo i contesti in cui lo si afferma. Se il nostro interlocutore conosce a memoria tutte le regole del gioco degli scacchi senza avere mai visto una scacchiera, la definizione lo metterà nella condizione di renderle operative nella pratica; se invece, per converso, l’interlocutore è già padrone del gioco, senza l’aiuto di regole alcune, l’ostensione può servire, ad esempio, per identificare una pedina dalla forma inconsueta, non riconoscibile da chi ha familiarizzato solo con un determinato tipo di pezzi. Nel primo caso la definizione mette l’interlocutore in grado di giocare, nel secondo invece serve a chiarire un uso le cui regole sono già padroneggiate indipendentemente.
39
intento a mappare la lingua di una popolazione a lui sconosciuta. In questo caso, l’interprete formula delle vere e proprie ipotesi linguistiche, analoghe a quelle di una scienza empirica, che metterà alla prova dell’evidenza di cui dispone; di fronte alla parola gavagai, ad esempio, pronunciata ricorsivamente dagli indigeni nel descrivere i conigli, l’etnologo ipotizza che gavagai significhi effettivamente “coniglio” 36, ipotesi che sarà più o meno accurata a seconda di quanto e come essa si accordi con il comportamento manifesto degli indigeni, e così via. Il risultato del suo lavoro, idealmente, sarà una grammatica37, o un lessico, in cui troveremo la trascrizione verbale di regole attive tra la popolazione, la quale potrebbe benissimo non avere alcun equivalente nella propria cultura, senza che ciò crei qualsivoglia handicap nelle loro pratiche. Ancora, un esempio a noi più vicino sono le comuni grammatiche, della nostra stessa lingua: codificazioni ex post di regole sintattiche, condizioni né necessarie né sufficienti per parlare una lingua, bensì utili come strumenti consultabili a capacità acquisita, per chiarirsi le idee quando e se necessario.
Tale esempio, così, illumina una caratteristica fondamentale delle nostre pratiche linguistiche: non è necessario per la loro costituzione passare sotto le maglie di un sistema esplicito di regole, vuoi nella forma di istruzioni e manuali, vuoi nella forma di campioni e definizioni ostensive, tenute sempre presente consapevolmente nell’articolarsi delle nostre attività. In altre parole ancora, ciò che la classificazione articolata in questo paragrafo suggerisce, è che è possibile pensare una pratica linguistica che si articoli indipendentemente da un sistema di regole reso esplicito nel
36 L’esempio è tratto, com’è noto, da Quine 1960. Si potrebbe interrogare Wittgenstein sui problemi relativi all’incommensurabilità e dell’indeterminatezza della traduzione, su cui pure il filosofo si è espresso (ad esempio in PI §206), seppur non in questi termini. Difficile sbrigarsela con poche parole. Di certo, basti per ora affermare che, se forse gli esiti sono analoghi, non lo sono sicuramente gli argomenti: Quine (e Davidson) muovono da un modello intellettualistico e astratto del linguaggio, fondato esclusivamente sulla descrizione e sulla vero-funzionalità per rendere conto del fenomeno della traduzione. Per Wittgenstein, questa è un’ottica quanto meno parziale, poiché sottovaluta la dignità di qualsiasi altro gioco linguistico, e non rende conto, soprattutto, del fatto che il fenomeno del significato non può essere decontestualizzato dalle circostanze di vita che lo rendono possibile (PI §432). Se c’è incommensurabilità, in Wittgenstein, essa deve ricercarsi nell’inconciliabilità delle pratiche, non dei sistemi teorici, che pure su di esse si fondano. Per un’analisi più approfondita, si veda Perissinotto 2002.
37 Ovviamente in questo caso, sembra contro-intuitivo sostenere che la regola lessicografica stillata dal nostro etnologo, nella forma di una definizione inter-linguistica, ad esempio, sia effettivamente seguita dagli indigeni: se, una volta imparata la lingua, le formulassimo per avere conferma, gli indigeni non le comprenderebbero affatto, o se capissero a sufficienza l’italiano, negherebbero di seguire proprio quella regola. Questo perché, in altri termini, le istruzioni di un buon dizionario bilingue non sono equivalenti a quelle di un vocabolario monolingue: è più corretto dire che quelle del primo siano regole di associazione tra sistemi autonomi di regole, capaci di rendere le une espressione delle altre. Tali istruzioni saranno
40
gioco o a condizione del gioco stesso. La considerazione a margine del Big Typescript sopra accennata, sulla superfluità di sistemi annotati di regole, ritorna nelle Ricerche in questo preciso frangente.