4. La fisionomia del dibattito
4.2 Grammatica, comunità e possibilità
Il fulcro della proposta di Malcolm si basa sulla constatazione di un’insufficienza: le mere connotazioni logiche, quali la regolarità, del concetto di regola, non bastano per rendere conto del significato. Di qui, l’accordo, che è pensato come costitutivo della norma in se stessa. Ci si deve chiedere, però: di quale accordo stiamo parlando? Perché è indubbio che, in Wittgenstein, il concetto di accordo abbia a che fare con il seguire una regola, e ciò lo attestano diversi passaggi, che Malcolm stesso cita, come RFM VII §39, o l’incipit di RFM VI §41; qui il filosofo ci dice chiaramente che i due termini sono cugini, e s’imparano insieme, l’uno rimanda all’altro, insieme a molti altri, quali identità, differenza, ripetizione, e così via. È altrettanto evidente, però, che l’accordo in questione è quello che coinvolge la regola e le proprie applicazioni, oppure, se vogliamo, in termini semantici, il significato di una parola e il suo uso182. L’accordo di cui si parla, allora, è sì costitutivo della regola, nel senso che non può darsi norma senza
182 Seguo, in ciò questo, un’intuizione di Paul Moser, che suggerisce di pensare alla riflessione sull’accordo comunitario nei termini dell’accordo intra-normativo tra regola e propria applicazione (Moser 1990, p. 104).
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consapevolezza di ciò che con essa concorda, ma allo stesso tempo non vede necessariamente una comunità in atto a sua garanzia.
Le riflessioni sull’accordo comunitario, allora, abbiamo già visto nel precedente paragrafo, non sono riflessioni su un concetto esterno alla regola, che interviene dall’esterno, nella concretezza fisica di altri parlanti che con l’individuo interagiscono, e che devono essere posti come necessari per il darsi di qualsiasi forma, anche minimale (come fare dei segni sul muro, ad esempio), di normatività. La filosofia, come sappiamo, non produce tesi (PI §128), e il lessico modale del necessario e del possibile tendenzialmente è un segno di riconoscimento del discorso metafisico, da guardare con sospetto. Piuttosto, tali riflessioni hanno natura euristica e strumentale alla dissoluzione di un problema filosofico specifico, ossia, come è possibile che io sappia quali applicazioni siano corrette in relazione alla regola appresa. Sappiamo che la domanda è mal posta, che non c’è alcun gap da colmare tra i due termini della questione, che comprendere una regola significa sapere cosa a essa concorda (“l’atto” coinvolto è uno solo, non due o più). C’è una connessione interna che emerge, allora, tra regola e accordo, che deve essere indagata: il ricorso all’accordo comunitario deve essere collocato, di conseguenza, in questo specifico contesto d’analisi, perché l’accordo inter-soggettivo non è altro che l’espressione macroscopica del medesimo concetto, non è qualcosa d’altro rispetto alla regola, come se fosse una componente aggiuntiva da addizionare al contenuto netto del fenomeno del linguaggio. Il fatto che le azioni degli altri concordino con le mie, siano le stesse che compio io, presuppone che io le riconosca come tali, e che quindi, a questo livello, la regola, con concetto di identità e accordo annessi, sia già attiva. Il controfattuale di una società in cui nessuno concorda sulle applicazioni delle regole (RFM III §70) diventa il contesto immaginario più adeguato per mettere alla prova il legame interno tra regola e sue applicazioni: in un simile contesto, non si potrà parlare di regola, perché la regola, fissando un criterio di identità e di accordo, è insieme accordo nelle applicazioni, in maniera analoga al caso in cui l’individuo singolo manifesta disaccordo tra le stesse applicazioni di una regola nei medesimi casi, rendendo così visibile la propria incomprensione, e il fatto che non agisce in conformità a regola alcuna. Insomma, la strategia di Wittgenstein rimarrebbe ancora squisitamente grammaticale: lo scopo è illuminare la relazione sussistente tra i concetti di regola, accordo e identità. Il fatto che Wittgenstein oscilli nelle proprie
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considerazioni da una prospettiva in prima persona a una in terza, coinvolgendo spesso la comunità dei parlanti, non andrebbe quindi letto in termini sostanziali e gerarchici, come se volesse stabilire un ordine tra i diversi livelli in cui la regola possa manifestarsi, in cui svetta la comunità a sua condizione, ma semmai come un tentativo di rinunciare esplicitamente, nell’indagine grammaticale, a distinzioni posticce, quali comunità e individuo, esterno e interno, e così via, alla luce di un problema che è e rimane grammaticale. Paragonare il seguire una regola al marciare tenendo il passo, come fa Von Savigny, oltre ad essere un esempio in se stesso precario (tale attività è per definizione collettiva: non lo è, invece, andare a pesca, o contare le conchiglie sulla spiaggia; se penso l’individuo in astrazione dal contesto sociale, in totale solitudine, continuerà a pescare o a contare conchiglie, senza dovergli attribuire lo status di marionetta), non può trovare sostegno nelle riflessioni sull’accordo. Non è a esse che ha senso rivolgersi, dunque, per sostanziare la necessità della comunità e viceversa l’impossibilità del linguista solitario: il concetto di accordo, in questo senso, tace. Oltre a ciò, Malcolm, in maniera analoga a Bloor e a Kripke, ricorrerebbe all’accordo comunitario per determinare l’elemento in più capace di fissare il significato: la sua proposta assume i caratteri di una soluzione e di una scoperta, capace di individuare il modo per bloccare il regresso delle interpretazioni (PI §201) e garantire il fenomeno della significazione. C’è il sospetto, allora, che Malcolm incappi in quello stesso fraintendimento dal quale Wittgenstein avrebbe voluto fermamente liberarci, e che riposa sull’accettazione del paradosso delle interpretazioni, che Malcolm invece legittima tramite il ricorso alla comunità (Minar 1991, p. 221). La posta in gioco, ancora una volta, è anche meta-filosofica: Wittgenstein non sta andando in cerca di spiegazioni e soluzioni a problemi legittimi, ma semmai sta cercando di denunciare l’illegittimità di tali questioni. Ci torneremo più avanti, poiché questo punto è centrale.
Stiamo quindi suggerendo che la prospettiva di Baker e Hacker sia più solida, e che in ultima analisi non ci resta che concordare con loro? Crediamo che dal confronto, tutto sommato, i due autori escano vincitori, ma, nondimeno, siano individuabili alcuni punti poco chiari che meriterebbero ulteriore approfondimento. In primo luogo, dalla conclusione di quanto detto qui sopra, non discende la necessità di una comunità di accordo per seguire una regola, ma nemmeno il suo contrario, la possibilità di un
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linguista solitario: quest’oscillazione sembra non interessare affatto a Wittgenstein. In secondo luogo, il modo con cui le circostanze vengono ridotte a un insieme di pratiche normative interconnesse, non sembra garantire del tutto la possibilità di un linguista solitario: seguire una regola può anche voler dire esibire tutta una serie di atteggiamenti, quali il fornire giustificazioni e spiegazioni che possono anche non essere forniti saltuariamente; ma possono non essere forniti mai? Perché a questo è destinato il linguista solitario, e se è vero che non si può inventare un gioco in un contesto in cui non si è mai giocato (PI §203), ha davvero senso asserire che si possa iniziare di punto in bianco a fornire spiegazioni ad altri, quando non lo si è mai fatto? I linguisti solitari di PI §243, che parlano solo per monologhi, infatti, vengono descritti come capaci di essere compresi, ma nulla viene detto relativamente alla loro capacità di farsi comprendere da altri: un esempio di questo genere, più che esibirci un caso non controverso di fenomeno linguistico, sembra più suggerirci un caso liminale, di confine, in cui i criteri semantici tradizionali perdono presa su ciò che sta loro di fronte; di fronte ai monologhi di queste persone, forse, non sapremmo come comportarci. Oltre a ciò, è abbastanza evidente che gli esempi di circostanze citate da Wittgenstein, ad esempio, in maniera palese, nel caso degli scimpanzé (RFM VI §42), coinvolgano un’interazione in atto, non solo potenziale, tra gli individui coinvolti, mentre l’esempio del cavernicolo (RFM VI §41) è più diretto a sconnettere la necessità di avere un’espressione esplicita della regola a condizione dei nostri giochi linguistici (e su ciò ci siamo dilungati diffusamente nel primo capitolo di questo lavoro), più che a legittimare casi di linguisti solitari.
In terzo luogo, ha ragione Malcolm nel sottolineare che il mero appello alla regolarità non sia sufficiente per determinare i criteri adeguati del seguire una regola: il riconoscimento dell’uniformità, di cui parlano Baker e Hacker come suo criterio ulteriore, infatti, tende pericolosamente verso una chiave di lettura mentalista (è forse il riconoscimento quel qualcosa di mentale che accompagna l’uso dei termini?), scongiurabile solo se lo si declina nei termini della complessità della regolarità attestabile, qualsiasi cosa ciò significhi. Di contro, i casi immaginari di PI §200, o di RFM VI §34, tendono a rivelare quanto sia insufficiente porre la questione in questi termini: gli inglesi momentanei che vivono solamente due minuti, impegnati in alcune pratiche identiche alle nostre, ma di cui è sempre immaginabile una storia differente, o i
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due falsi giocatori che esibiscono tutta la sofisticazione propria di chi padroneggia il gioco degli scacchi, in un contesto in cui i giochi non esistono, stanno lì a suggerirci che porre il problema del significato nei termini astratti della complessità e della regolarità attestate nella pratica, semplicemente, non basta. Se gli argomenti di Baker e Hacker risultano, quindi, blindati contro un certo utilizzo dell’accordo in funzione comunitarista, allo stesso tempo risultano parziali e insufficienti per rendere conto del problema delle circostanze, così come è formulato nelle Ricerche.
In generale, ciò che lascia perplessi dell’impostazione di Baker e Hacker è la natura astratta del loro discorso.183 L’operazione wittgensteiniana, in questa prospettiva, viene ridotta a un’attività di individuazione di alcune algide coordinate concettuali, che una volta descritte ci permetterebbero di decidere cosa è possibile e cosa non lo è nel contesto del fenomeno del linguaggio. Come nel caso di Malcolm, dobbiamo chiederci se non sia sospetto, in relazione alla specifica opzione meta-filosofica in campo nell’opera di Wittgenstein, ridurre il discorso nei termini di una ricerca modale sul possibile e sul necessario in merito al linguaggio. In questa prospettiva, ciò che rimane davvero indiscusso, infatti, sono proprio le nozioni di possibile e necessario, relativamente alla natura del significato. Dobbiamo chiederci, di conseguenza: cosa significa, concretamente, che un linguista solitario è logicamente possibile? Non è affatto chiaro cosa debba intendersi con una domanda simile. C’è un senso per il quale si può dire che è possibile che i topi di Cenerentola parlino e cantino (Diamond 1989, p. 20): ebbene, cosa dovremmo concludere da una constatazione di questo genere, relativamente alla natura del linguaggio? Inoltre, nelle Ricerche, la questione del linguista solitario appare esclusivamente in PI §243, e lì possiede uno scopo ben specifico: introdurre la discussione sul linguaggio privato delle sensazioni. Di quest’ultimo, a differenza del caso dei linguisti solitari, non ci si può fare un’immagine, perché di fatto non si sta dicendo nulla di sensato. Lo scopo del paragrafo, allora, evidentemente è squisitamente euristico184: l’immaginabilità185 dei linguisti solitari è un
183 Riprendiamo, quindi, quanto già era emerso nel secondo capitolo, affrontando, la contro-replica di Kusch alle critiche di Baker e Hacker, rivolte alla posizione di Kripke.
184 Tra gli interpreti che attestano questa considerazione, citiamo Diamond 1989, Fogelin 2002, Canfield 1996.
185 La domanda retorica che chiude PI §243 ci chiede se un linguaggio essenzialmente privato sia immaginabile (nel tedesco, Sich Denken): non si parla propriamente, quindi, di possibilità, né tantomeno di una vaga pensabilità, come troviamo nella traduzione italiana.
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mezzo per introdurre per contrasto l’inimmaginabilità di un linguaggio essenzialmente privato. Passare dall’immaginabile al logicamente possibile non è affatto scontato, soprattutto in un contesto in cui Wittgenstein non sta affatto cercando di svelarci cosa sia possibile e cosa non lo sia. A maggior ragione, se pensiamo che, secondo Wittgenstein, il concetto di possibilità logica è foriero di molteplici confusioni, nel momento in cui non possediamo una rappresentazione perspicua del suo uso variegato (RFM IV §6).
La torsione modale che Baker e Hacker, e con loro McGinn, danno al discorso wittgensteiniano, allora, sembra forzare la lettera del testo, e in generale sottovalutare una aspetto importante della metodologia wittgensteiniana: la funzione strategica dell’immaginazione, i cui rapporti con la possibilità logica sono lungi dall’essere immediati, e forieri di molteplici confusioni. Ma che ruolo possiede l’immaginabile nel contesto della filosofia wittgensteiniana? Occorre una digressione sul tema, prima di lasciarci il dibattito alle spalle.
4. 3 Immaginare
Abbiamo visto come la domanda retorica che apre la discussione sul linguaggio privato in PI §243 sia una domanda sull’immaginabilità di un linguaggio essenzialmente privato, comprensibile solo a chi lo formula. Trattando del tema delle circostanze, ancora prima, abbiamo descritto una serie di casi immaginari, quali la società senza giochi, gli inglesi istantanei, le società prive di accordo, e così via, tramite cui Wittgenstein cerca di gettare luce sulle condizioni grammaticali delle nostre parole. Potremmo, in realtà, continuare nel nostro elenco, citando il caso della tribù con due differenti concetti di dolore (Z §380), il caso dei venditori di legna anomali (RFM I §143-153), il traffico stradale in cui chiunque dubita della segnaletica (UW, p. 11), o la situazione in cui gli ordini non vengono mai ubbiditi (PI §345), e così via, ma non sarebbe comunque sufficiente a rendere l’idea di quanto questo concetto giochi una parte cruciale nelle strategie terapeutiche wittgensteiniane (Tripodi 2013, p. 57). Non bisogna dimenticare, però, che l’immaginazione, prima di essere un potente strumento meta-filosofico, è anche e soprattutto una parola, che, come tale, è sottoposta da Wittgenstein a un’indagine grammaticale piuttosto dettagliata, capace di mettere in luce
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i legami che essa istituisce con altre nozioni di una certa importanza, come la possibilità logica e il senso delle proposizioni.
Che l’immaginabile possegga un legame con il senso, è fuor di dubbio. Nelle Ricerche, ad esempio, Wittgenstein denuncia la sostanziale mancanza di senso del parlare di super-fatti per i quali non abbiamo alcuna immagine o modello che ne fissi il significato, nel momento in cui ci meravigliamo di come sia possibile la comprensione in un solo istante (PI §191). In Zettel, l’opera in cui il tema è trattato più diffusamente, Wittgenstein ci dice che l’inimmaginabilità è criterio dell’insensatezza (Z §263). Ciò si adatta bene ai casi tradizionali di impossibilità logica, come ad esempio il cerchio quadrato: non riusciamo a farci un’immagine di una cosa inconsistente, e parlarne, in qualche senso intuitivo, è puro flatus vocis, parole a cui non associamo niente. Un caso analogo, anche se non coinvolge direttamente gli oggetti contraddittori, è affrontato da Wittgenstein in Z §249, dove è descritto il caso in cui si chiede che venga rappresentato su carta un cubo quadridimensionale, non in prospettiva: in questo caso, l’unica immagine che abbiamo sono le nostre parole, accompagnate dal rifiuto generale di ogni soluzione che ci possa venire offerta. Si badi che Wittgenstein parla di criterio, e non di sinonimia tra insensatezza e inimmaginabilità: questo significa che i due termini non sono coestensivi, e quindi, per converso, che la capacità di produrre un’immagine, in alcuni casi, non sia sufficiente a rendere significanti le nostre parole. Del resto, non potrebbe essere altrimenti nella prospettiva del significato-uso, in cui il senso è dato dall’applicazione dei segni e dal ruolo che posseggono nella nostra vita: la dialettica che coinvolge l’immagine-cubo, nelle Ricerche, giunge proprio a questa conclusione (PI §§138-143), mentre in Zettel186 si afferma esplicitamente che “che uno possa pensare qualcosa (come che allo scuro le rose sono rosse), non significa che abbia senso il dirla” (Z §250). Il farsi un’immagine, nel pensiero o graficamente, ci appare di una certa
186 È interessante notare come le riflessioni sulla capacità di produrre immagini, in Zettel, siano immediatamente successive a quelle sull’interpretazione, e la negazione che sia l’interpretazione il veicolo ultimo del senso (Z §§229-238): siamo, dunque, ancora all’interno di quella dialettica che contrappone l’immediatezza della vita, in cui le immagini e i segni hanno un ruolo, alla mediazione dell’interpretazione, che presuppone che gli atti intenzionali abbiano in se stessi senso (Z §230).
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importanza, solo nel momento in cui essa non ha proprio alcuna funzione a cui appellarci (Z §251)187.
L’essere immaginabile, poi, è associato alla possibilità di fornire una descrizione di ciò che è immaginato (Z §252). Questo, in ultima analisi, è ciò che Wittgenstein fa, quando ci chiede di immaginare società diverse, sotto qualche rispetto, dalle nostre: esse vengono descritte, e oggetto della descrizione saranno il plesso di attività e di connessioni che accompagnano l’uso dei concetti in esame, che si vogliono lontani e distinti dai nostri. Emblema di questa tipologia di descrizione è Z §380, in cui si ritrae, appunto, una tribù in cui le persone si comportano differentemente da noi, relativamente al riconoscimento di ciò che noi chiamiamo dolore, e quindi, ciò che stiamo descrivendo, in ultima analisi, sono circostanze di vita in cui la tribù anomala reagisce diversamente da noi. A questo punto, viene da chiedersi: ciò che è immaginabile, e di cui possiamo produrre una descrizione, definisce ciò che tradizionalmente associamo alla nozione di possibilità logica? Sembrerebbe di sì. Testimone è un passo piuttosto chiaro delle Lezioni Sui Fondamenti della Matematica, in cui si dice che l’immaginabile, epurato dalla sua connotazione psicologica, ha “qualcosa a che fare con la possibilità logica” (LFM, p. 153), a sua volta criterio di sensatezza. Per chiarire quest’ultima, Wittgenstein rincorre a un’analogia con ciò che chiama la “possibilità chimica” inerente alla formula H2O4, un composto che non si dà in natura per un limite interno ai legami di covalenza. Verrebbe da dire che tale composto è possibile, nella misura in cui possiamo porci il problema se esista o meno, problema legittimato dal nostro sistema di notazione (ossia, in questo caso, la tabella di Mendeleev). Qui la risposta di Wittgenstein:
Quando diciamo che l’H2O4 è possibile, intendiamo semplicemente alludere a un certo segno nel nostro sistema. Il sistema delle valenze non è stato scelto a caso, ma perché si adattava bene ai fatti. Ma una volta adottato quel sistema, ciò che è possibile coincide con ciò di cui ci si può fare un’immagine nel linguaggio delle valenze. Abbiamo adottato un linguaggio nel quale ha senso dire “H2O4…” Non è vero, ma ha senso.
187 In termini analoghi Wittgenstein affronta il problema dell’infinito attuale, pochi paragrafi successivi: ”per ora questa espressione si limita a costruire un’immagine (attestata dal fatto, ad esempio, che è perfettamente possibile immaginare una fila infinita di alberi; Z §272), che è ancora sospesa nell’aria; della cui applicazione ci sei ancora debitore” (Z §274).
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Lo stesso vale per la nozione di possibilità geometrica. Dire che si può tracciare una retta vuol dire che ha senso parlare del fatto che venga tracciata una retta.
(LFM, pp. 153-154)
Se è possibile, possiamo farcene un’immagine linguistica, espressa dalla formula chimica, è immaginabile; se è immaginabile, ha senso (almeno in questo caso), e quindi è lecito chiedersi se sia vero o falso. Possibilità, sensatezza e immaginabilità sono, dunque, concetti strettamente imparentati, e si configurano sempre sullo sfondo di un sistema di notazione acquisito che fissa i nostri parametri di rappresentazione188. Lo stesso vale per la possibilità geometrica, dice Wittgenstein, e per estensione, diremmo noi, per quella logica: la possibilità di pensare qualcosa va a braccetto, in questi casi, con la sensatezza di poter parlarne, e di produrre una descrizione (connessa al concetto di immagine) se richiesto189.
A questo punto, cerchiamo di tirare le fila di questa discussione. Tali considerazioni grammaticali sui concetti di immaginabile e inimmaginabile assumono una funzione fondamentale nella prassi metodologica imbastita da Wittgenstein nella sua strategia di decostruzione dei problemi filosofici. Alla luce della correlazione tra non senso e inimmaginabilità, possiamo riformulare uno degli slogan caratteristici della filosofia di Wittgenstein, quello che caratterizza il metodo filosofico come il passare da un non senso occulto a un non senso palese (PI §464): in termini analoghi, si può dire che spesso ciò che Wittgenstein cerca di fare è svelare l’inimmaginabilità di una situazione a cui invece ci sembra plausibile associare una qualche immagine. Sono casi, questi, analoghi al caso del cubo quadridimensionale, per il quale abbiamo, in definitiva,
188 In quest’ottica va letta, crediamo, la criptica annotazione sul concetto di “trascendere ogni esperienza”, denunciata come insignificante anche se costruita in analogia con espressioni significanti (Z §260). Il