2. Regole e ruoli nei giochi linguistici
2.2 Senza regole
La tripartizione che abbiamo appena illustrato ritorna, in modo pressoché inalterato, in PI §82. Tale sezione segue immediatamente quella citata all’inizio della nostra discussione, in cui Wittgenstein si interroga sulla natura normativa della logica, ed è dunque significativo che il recupero della discussione sui ruoli delle regole nei nostri giochi si riproponga a questo livello, per fare chiarezza sullo statuto dell’immagine calcolistica in relazione agli usi del nostro linguaggio.
Wittgenstein si chiede, a questo punto, che cosa si debba intendere con la formula “la regola in base alla quale (qualcuno) procede”. Come prevedibile, si possono intendere diverse cose. In determinate circostanze, la regola assume la forma esplicita di un’ipotesi, formulata per rendere conto del comportamento osservato. Qui Wittgenstein parla esplicitamente di ipotesi, ed è evidente l’analogia con il terzo tipo di ruolo individuato nella disamina precedente. Di fronte alla costatazione che l’alfiere muove sempre in diagonale in ogni occasione, ricordiamolo, posso legittimamente ipotizzare che il giocatore segua una regola che governi i movimenti di quella pedina specifica, e così via. In secondo luogo, la regola secondo cui il nostro soggetto procede potrebbe essere la regola che “tiene presente” nel procedere del gioco, come nel caso della tabella di associazione, che è consultata pedissequamente ad ogni mossa. Analogamente al caso delle ipotesi, in questa circostanza la regola è ricavabile dall’osservazione della prassi del nostro soggetto, a differenza invece del terzo caso in cui la regola è enunciata dal soggetto stesso una volta interrogato. Questo caso comprenderà ogni tipo di spiegazione dell’uso dei segni, dalla definizione ostensiva a quella verbale, all’ostensione di modelli campione, e così via.
A questo punto, Wittgenstein introduce una quarta classe di casi, distinta da tutti gli altri:
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Ma, e se l’osservazione non ci permettesse di riconoscere chiaramente alcuna regola, e la nostra domanda non ne mettesse in luce nessuna? – Infatti alla mia domanda: che cosa intendesse per “N”, mi ha bensì dato una definizione; ma era pronto a ritirarla e a modificarla. – Dunque, come devo determinare la regola secondo cui gioca? Non lo sa neppure lui. – O, più correttamente: Che cosa vuol ancor dire, qui, “la regola secondo cui procede”?
(PI §82)
È possibile rilevare dei casi, secondo Wittgenstein, in cui patterns generali di esecuzione, esprimibili tramite regole generali, possono anche non venire riportati. L’esempio che il filosofo cita è quello dei nomi propri, sviluppato qualche pagina prima in PI §79. I nomi propri si usano senza un significato fisso, dice Wittgenstein: ad essi siamo disposti ad associare una stringa di descrizioni definite38, nel momento in cui ci troviamo costretti a spiegare di chi intendiamo parlare, usando quel nome. Con Goedel, ad esempio, si intende di solito il logico matematico boemo che scoprì il teorema di incompletezza, e siamo pronti a spiegarci così se necessario. Di queste descrizioni che associamo al nome, però, alcune potrebbero rivelarsi false, altre irrilevanti al fine del successo della comunicazione. Goedel potrebbe rivelarsi un impostore, e aver plagiato da qualcun altro il teorema: se così fosse, sarei costretto a riformulare la stringa di descrizioni che esprimo nel spiegarne il significato, eliminando quelle false, che è un altro modo per dire che ne fornisco una definizione differente. Il significato dei nomi propri è fluido, in tal senso vago, e i loro uso si articola ruotando intorno diversi puntelli, potremmo dire, diversi criteri, alcuni più rilevanti di altri, nessuno capace di determinarne univocamente l’impiego del termine in tutti i casi possibili. Ciò che è fondamentale tenere a mente relativamente ai nomi propri, è il fatto che nessuna
38 PI §79 è stato spesso letto come un abbozzo di teoria descrittivista dell’agglomerato, secondo cui il significato dei nomi è esaurito da una congiunzione di descrizioni vaghe nel numero, e di cui il nome sarebbe semplice marker riassuntivo (Lycan 2013). Non credo ci siano gli estremi per attribuire a Wittgenstein una teoria simile. Come Baker e Hacker hanno fatto notare, una teoria di tal genere non tiene conto che il significato è sempre grammaticalmente connesso alla comprensione linguistica (Baker Hacker 2005, vol.1, p. 254). È legittimo, infatti, sostenere che il nome “Dante Alighieri” veicoli una
comprensione condivisa della persona a cui il nome si riferisce; chiunque abbia studiato un po’ di
letteratura italiana si riferirà alla stessa persona usando quel nome. Tuttavia, tale trivialità rischia di venire smentita se l’atto della comprensione è esauribile nel fornire una stringa di descrizioni sinonime, che possono variare a seconda delle informazioni che differenti interlocutori possiedono riguardo il poeta. Questo perché fornire una descrizione articolata di un individuo è un’attività che coinvolge lo stato delle nostre credenze relative a quella persona: sono esse a cambiare di persona in persona (alcune possono anche essere false per quel che ne sappiamo), non certo il significato.
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definizione, che pure siamo disposti a formulare per spiegarne il significato, ci da la garanzia effettiva di esaurirne completamente l’uso; le definizioni possono venir riformulate, ritirate e corrette alla luce di nuove informazioni, senza che ciò influisca negativamente sul commercio che sviluppiamo con questa categoria di segni. L’uso procede spedito, senza bisogno di alcuna definizione esplicita esaustiva tenuta a mente e formulabile in ogni occasione.
Un caso analogo e forse più intuitivo è quello che coinvolge la nozione di somiglianza di famiglia, nozione di capitale importanza39, sviluppata a partire da PI §65 delle Ricerche, utilizzata da Wittgenstein per disarticolare il dogma della determinatezza del senso posto a cardine del Tractatus.40 Esempio arcinoto di tale categoria di termini è la parola “gioco”, di cui è impossibile fornire una definizione che governi l’uso del termine in ogni possibile circostanza. Come e in maniera più evidente che nel caso dei nomi41, con la parola “gioco” abbiamo un uso governato da una molteplicità di criteri non riconducibili ad un’unità pregressa che ne governi rigidamente l’impiego. Posso insegnare ad un bambino a giocare a poker se mi viene richiesto genericamente di insegnargli un gioco (PI, p. 42); il fatto che in circostanze normali non lo faccia non dipende dal significato del termine “gioco”, il quale è impiegato in tanti modi diversi e tutti legittimi, ma da considerazioni contestuali di altro genere.
39 Già nel Big Typescript Wittgenstein inizia a interessarsi del problema della vaghezza, quando asserisce che le proposizioni e i linguaggi sono concetti sfumati (BT 15), dedica un paio di paragrafi al paradosso del Sorite (BT 34 §§7-8) e alcune considerazioni illuminanti che anticipano in blocco la discussione sui nomi propri e l’uso non normato dei termini (BT 58). Nel Libro Blu, il termine è attestato chiaramente, quando Wittgenstein tratta il problema dell’origine dell’attitudine metafisica. (BB, p. 27). Prima attestazione del tema si trova nella Philosophische Grammatik (Kenny 1973, p. 179).
40 Nel capolavoro della giovinezza, infatti, tale dogma era perseguito come naturale conseguenza di quel mito dell’analisi completa di ogni espressione segnica, che doveva condurre qualsiasi proposizione complessa a una definitiva scomposizione in elementi assolutamente semplici. Ogni fenomeno di vaghezza e indeterminatezza attestabile nella lingua naturale doveva essere bollato come semplice distorsione del linguaggio ordinario e ricondotto tramite analisi a un sistema fondamentale di primitivi linguistici e regole sintattiche. Dopo la svolta degli anni ’30, Wittgenstein recupera i fenomeni dell’indeterminatezza, che, sotto la nuova prospettiva del significato-uso, diventano il cavallo di Troia tramite il quale far crollare definitivamente l’intero edificio logico del Tractatus, svincolando una volta per tutte il significato dalla nozione artificiale delle regole misteriose, nascoste sotto il nostro uso. Per una trattazione esaustiva della questione, si veda Hacker 1986.
41 Ovviamente c’è una fondamentale differenza tra i nomi propri e i termini di somiglianza di famiglia, banale quanto importante: i nomi non sono termini generali. L’analogia tra i due tipi di segni si costituisce, dunque, non tanto rispetto alle cose a cui si attribuiscono, ma al fatto, sopra marcato, che in entrambi i casi, le definizioni sono ininfluenti ai fini del loro uso.
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Dobbiamo concludere che nei casi delle somiglianze di famiglia e dei nomi propri non esistano norme attive che governino l’uso dei termini in questione? In un certo senso sì, in un altro, no. Ciò che Wittgenstein sta negando, in questi casi, non è certo l’uso conforme a regole di determinate parole. Infatti, avere una pluralità di criteri a garanzia dell’uso non significa affatto non averne nessuno. Se la regola è sempre espressa da una spiegazione, illustrare una partita di scacchi a chi mi chiede conto del significato che attribuisco alla parola gioco, o fornire una stringa di descrizioni di chi intenda usando la parola Goedel, può il più delle volte esprimere la regola attiva in quella specifica circostanza; nulla di più, nulla di meno. Piuttosto, è una particolare tipologia di regola che Wittgenstein sta negando, quel tipo di regola esplicita che pretende di avere una validità generale in tutti gli impieghi possibili. Nei casi di somiglianza di famiglia, ciò che viene meno è, insomma, la possibilità di fornire una definizione valida per ogni singolo elemento dell’estensione dei termini in questione. Le regole si determinano e si articolano in base agli usi nel nostro operare coi segni, e spesso tali norme sono più simili a puntelli temporanei che a istruzioni universali, valide sempre e comunque, capaci di delimitare un’area chiusa rispetto alla quale ogni eccedenza è da bollare come errore di impiego. L’indeterminatezza del senso, in quanto tale, ammette delle zone d’ombra in cui più criteri interagiscono senza intralciarsi, in cui un uso confluisce nell’altro quasi senza distinzione.
In soccorso a tale concezione, Wittgenstein formula un’analogia con il gioco (PI §83). Si può benissimo immaginare un’attività con la palla in cui le regole vengano cambiate in corsa, senza soluzione di continuità. Un filosofo dogmatico può anche obiettare che tale attività sia circoscrivibile ed adattabile ad un sistema ipotetico ed esplicito di regole, come farebbe l’osservatore della partita a scacchi nel primo caso di PI §8242, ma tale sistema, ammesso che abbia qualche utilità descrittiva, non rende effettivamente conto di ciò che in realtà sta succedendo, ossia, il fatto che in questo caso specifico le regole vengono introdotte e subito revocate, avvallate e contraddette, e che ciò non ha alcuna ripercussione sull’andamento generale della nostra attività. Fuor di metafora, l’esempio
42 Nel commentario di Baker e Hacker, leggiamo che con l’analogia del gioco Wittgenstein vorrebbe denunciare le pretese, incarnate dal filosofo dogmatico, di pensare a ogni attività come necessariamente governata da regole che si danno anche inconsapevolmente da chi le segua (Baker Hacker 2005, Vol. 2, p. 184). Quest’osservazione è preziosa e incontestabilmente vera. Dubitiamo, però, che questo fosse il fine esplicito di Wittgenstein nel paragrafo in questione, volto a una mera chiarificazione di quanto asserito nella sezione precedente sui casi di uso non normato delle somiglianze di famiglia.
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illustra che le parole e i segni linguistici mutano significato in base a differenti contesti d’uso, libere da qualsivoglia costrizione date da regole formulate, nella maggior parte dei casi, sempre e solo ex post. Insomma, la normatività non è qualcosa di dato in modo esplicito, a cui noi ci atteniamo rigidamente, almeno non in tutti i casi: molto spesso con essa interagiamo, andando ad ampliare e a costituire il significato dei termini in funzione delle nostre esigenze. Si può dire, in altre parole ancora, che con i medesimi segni giochiamo giochi differenti, con regole differenti, a seconda dei contesti che li rendono significanti (BB, p. 40)43.
Proviamo a ricapitolare i risultati di tale discussione. Le attività umane si articolano e interagiscono con le regole, questo è fuor di dubbio: è il dato linguistico da cui è necessario partire. In alcuni casi, esse stanno alla base dell’apprendimento dei giochi, in altri sono parti esse stesse del gioco, in altri ancora sono rilevabili per ipotesi e congetture da una prospettiva terza. In tutti questi casi, le regole possiedono una formulazione esplicita, di cui paradigma sono le tabelle, i campioni, e le definizioni verbali. Oltre a ciò, Wittgenstein contempla una quarta classe di casi dai contorni indefiniti, coinvolgenti casi come i nomi propri e i termini di somiglianza di famiglia, il cui uso si articola indipendentemente da qualsivoglia formulazione esplicita di regole generali, sotto forma di definizioni. Nel caso dei nomi, le definizioni variano a seconda dei contesti e delle informazioni che abbiamo, senza con ciò che il loro uso sia in alcun modo pregiudicato; nel caso delle somiglianze di famiglia, le definizioni non sono nemmeno formulabili. Insomma, è contemplata la possibilità, da parte di Wittgenstein, di un uso non esplicitamente normativizzato, quindi non sottoposto a regole valide sempre e in ogni occasione, in merito a specifici giochi linguistici. Ciò si inquadra nel tentativo generale di passare ad una descrizione del linguaggio come una struttura astratta, collocato in un non-luogo e fuori dal tempo, capace di agire misteriosamente su
43 Tale giro di pensieri, ricostruito mettendo insieme diversi paragrafi a volte distanti tra loro nella tessitura logica delle Ricerche, trova ulteriore conferma testuale nel Big Typescript (BT 58 §§12-15). Con sorprendente lucidità (che forse un po’ si perde nell’opera maggiore), Wittgenstein riporta la discussione sui nomi propri, aggiungendo che nel loro utilizzo “siamo disposti a cambiare le regole del gioco secondo le necessità”; compara i nomi propri ai casi analoghi dei nomi comuni “foglia” e “pianta” (presenti a loro volta in PI §§70,73) e a essi associa l’osservazione metodologica sulla normatività come termine di paragone non ideale (espressa in PI §81). All’obiezione riguardo al fatto che chiunque usi i nomi propri con cognizione di causa fornirà una risposta regolare e non a casaccio, qualora dovesse fornire una spiegazione, Wittgenstein risponde che, per quanto ciò sia indubbiamente vero, ciò rivela comunque che mai si procede secondo un piano prestabilito presente consapevolmente nella nostra mente e che governa l’uso dei nomi in ogni circostanza (BT 58 §14).
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di noi, ad un’immagine che ne esalti il carattere strumentale e artefattuale (PI §108), dove, se regole ci sono a governare le nostre pratiche, debbono essere da noi consapevolmente indicabili, e comunque sempre revocabili a seconda dei contesti e delle circostanze44. L’ostilità di Wittgenstein per le definizioni lascia spazio, per contrasto, ad una considerazione del ruolo dell’esempio nella gestione delle nostre pratiche linguistiche. Ma prima di continuare su questa linea, prendiamoci del tempo per sviluppare meglio il concetto di somiglianza di famiglia.