La nozione di somiglianza di famiglia, o, per brevità, di concetto aperto (Voltolini 1998), gioca un ruolo di primo piano nelle Ricerche. Non è solo basilare per comprendere l’importante svolta relativa al tema delle regole nella seconda fase del pensiero del pensatore viennese, è una nozione attiva in molte analisi grammaticali condotte nel corso dell’opera. Un esempio importante sono i concetti di leggere e derivare (PI §164), nonché dell’essere guidati (PI §§172-177) e persino del comprendere (PI §§525, 531)45, tutte parole con un uso lungi dall’esser definito, o circoscrivibile in relazione a particolari processi mentali concomitanti.
Ciò nonostante, tale nozione ha lasciato adito ad alcuni fraintendimenti. Innanzitutto, non siamo di fronte ad una tesi sulla natura dei termini generali, come sostenuto a suo tempo da Ranford Bambrough. Secondo l’autore inglese, Wittgenstein formulerebbe una teoria che si pone a metà strada tra i realisti e i nominalisti riguardo la natura degli universali: come i secondi, sosterrebbe che i nomi non designano nulla di dato in comune a tutte le istanze di cui si predicano, mentre come i primi porrebbe comunque delle proprietà reali alla base della predicazione (Bambrough 1968). Nulla di tutto ciò
44 Le regole sono un prodotto consapevole dell’attività umana. L’idea che esse siano sconosciute ma comunque attive nell’orientare le pratiche linguistiche dell’uomo, convinzione solida ai tempi del
Tractatus (TLP 4.002) verrà ripudiata in un secondo momento come una diavoleria (“hellish idea”), come
il filosofo ebbe a dire in conversazione con Friedrich Waissmann (Glock 1996, Schroeder 2013).
45 Per quanto riguarda la comprensione, Wittgenstein individua almeno due accezioni differenti del significato della parola: da una parte, è individuabile una mera comprensione lessicale, di una frase senza contesto (criterio di comprensione, in questo caso è la sostituibilità con un’espressione sinonima); dall’altra, si può avere una comprensione legata specificamente al contesto di enunciazione, come nel caso di un’espressione poetica (in questo caso, la sostituzione non è affatto legittima). Hans Glock, proseguendo su questa linea, è arrivato a individuare almeno undici tipologie differenti di comprensione (Glock 2011).
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avviene nelle Ricerche. La disputa sugli universali è per Wittgenstein un chiaro esempio di un rompicapo filosofico sorto da una confusione grammaticale. Infatti, sia realismo sia nominalismo muovono dalla presupposizione che i predicati siano e si comportino come nomi, uno degli aspetti chiave dell’immagine agostiniana di cui Wittgenstein vorrebbe fare a meno. In PI §383, troviamo l’unica ricorrenza del termine nominalismo, che Wittgenstein prontamente rifiuta proprio a causa dell’ipoteca referenzialista che su di essa grava. Certo, a favore di Bambrough, va detto che il lessico usato dal filosofo austriaco nell’introdurre le somiglianze di famiglia spinge effettivamente a dare una lettura ontologica alla discussione sulla natura delle cose di cui i concetti aperti si predicano. In PI §65 infatti, Wittgenstein dice esplicitamente di contrapporre la somiglianza di famiglia all’immagine essenzialista che era sua principale preoccupazione ai tempi del Tractatus; in tal senso, la tentazione di pensare un Wittgenstein che contrappone alle rigidità del realismo una forma sofisticata di nominalismo può trovare conferma, quanto meno ad una prima lettura, nel testo stesso. Tuttavia, non dobbiamo cadere vittima del lessico infelice utilizzato da Wittgenstein in questa sezione, e notare che, introducendo le somiglianze di famiglia, il filosofo non vuole affermare una tesi particolare, ma ribaltare l’angolo prospettico da cui guardiamo ai problemi tradizionali, dislocando la prospettiva da un’immagine plasmata sul modello della nominazione (di cui realismo e nominalismo sono articolazioni antitetiche), ad una centrata sul significato come uso (Stern 2001, p. 114, Cavell 2000, p. 35). Se teniamo fermo questo punto, notiamo allora che l’intento di Wittgenstein non è affatto negare che esista qualcosa in comune tra le cose di cui predichiamo il medesimo termine, come fanno i nominalisti; per quel che sappiamo, tale essenza potrebbe anche esserci, nei termini, ad esempio, di una struttura fisica che non conosciamo ancora, e che scopriremo tra qualche anno. Al contrario, ciò che preme a Wittgenstein è affermare l’assoluta irrilevanza46 di una tale essenza nascosta per l’uso dei nostri termini.
46 Considerazioni di questa natura possono essere mobilitate in sede critica contro determinate versioni dell’esternalismo semantico riguardo ai generi naturali, portato in auge da Putnam e Kripke (Putnam 1978, Kripke 1980). Secondo Putnam, ad esempio, in seguito all’esperimento mentale della Terra Gemella e dell’acqua con proprietà chimiche differenti, è possibile giungere alla conclusione che due termini usati nei medesimi contesti e nello stesso modo abbiano in realtà significati differenti, perché denotanti strutture fisiche diverse. I significati non sono nella testa, ma nel mondo. Tanto sarebbe da dire sulla questione, ci limitiamo a qualche considerazione sparsa. Tale teoria, come ovvio, scinde completamente il significato delle parole dalla loro funzione nella nostra lingua. Conseguentemente, “acqua” tradurrebbe, ad esempio, il termine latino “aqua”, di cui è sinonimo, non perché possiede il medesimo areale d’uso, bensì perché denota la medesima sostanza, H2O. Dobbiamo concludere che i
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Chiamiamo “gioco” l’attività di un bimbo che lancia la palla da solo contro un muro, lo stesso capita con il gioco d’azzardo, e non è affatto necessario che nella spiegazione del significato del termine ricorra una definizione univoca valida per entrambe le occorrenze. Detta ancora e in altri termini, l’avere un’essenza comune, espressa da una definizione incontrovertibile, non funge da ragione dell’uso che facciamo di determinati concetti nella pratica quotidiana, non utilizziamo la parola perché ne conosciamo una definizione, almeno non necessariamente. Questo vale, tra l’altro, non solo per i concetti aperti, ma in generale: spesso usiamo le parole in maniera corretta senza essere in grado di fornire una definizione come loro ragione (PI §70, l’esempio che coinvolge la parola pianta). Possiamo delimitare il concetto in un secondo momento ovviamente, tracciare un confine dove non è tracciato (PI §69), e lo facciamo spesso per esigenze pratiche, quando abbiamo bisogno di esattezza relativamente ad uno scopo (si pensi agli sport, altro concetto aperto, accettati nelle competizioni olimpioniche, e si pensi alla perplessità che può sorgere se tra essi scorgiamo il curling, o il tiro a freccette); ma così facendo, introduciamo una nuova regola dove prima non c’era affatto, giocando così con la parola in questione un altro gioco, per quanto analogo e strettamente imparentato a quello precedente (PI §76)47.
Un altro aspetto che vale la pena chiarire è di che vaghezza stiamo parlando. Wittgenstein, infatti, è piuttosto ambiguo48, e nella discussione sull’indeterminatezza del significato confluiscono almeno due sensi differenti del termine. È indubbio il fatto che i concetti aperti siano concetti vaghi, come suggerisce l’analogia con la fotografia sfocata e la discussione sulla loro presunta inesattezza (PI §§69, 71, 89). lo sono, però, in misura diversa rispetto, ad esempio, i concetti di colore, che pure vengono discussi in
latini, ignoranti di chimica moderna, utilizzassero un termine significante senza conoscerne davvero il significato: sembra implicita, in questa conclusione, una certa confusione tra questioni semantiche e problemi epistemici. Inoltre, fa specie pensare il potere revisionista che tale teoria avrebbe sulla nostra lingua: se il significato è dato dalle identità di struttura, fisica e chimica assurgerebbero paradossalmente a censori delle proprietà semantiche delle nostre parole, noncuranti del fatto che gli usi sono svincolati dalle maglie delle nostre esigenze scientifiche. Infine, e soprattutto: quale struttura deve essere pensata come fondamentale? “Carbone” e “diamante” denotano due sostanze con la medesima composizione chimica; debbono considerarsi quindi sinonimi? L’acqua che beviamo ogni giorno non è composta (solo) da H2O: dobbiamo concludere che ciò che abbiamo sempre bevuto in realtà non è mai stata davvero acqua? Per un’esauriente review della questione, si veda Ben-Yami 2001.
47 In PI §3 già troviamo un’anticipazione di questo punto, relativa all’immagine agostiniana. Agostino è paragonabile a un tale che è pronto a definire il termine “gioco” descrivendo un gioco da tavolo: l’unico modo per rendere valida tale definizione è restringerla a un uso specifico. Lo stesso deve dirsi del termine
linguaggio, il più importante tra tutti i concetti aperti.
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relazione al rapporto tra esempio e definizione (PI §§72-74). L’uso della parola rosso lo impariamo, spesso, in riferimento ad un campione di colore che fissa lo standard di correttezza per ogni futura applicazione. In base ad esso, siamo in grado di distinguere il rosso dal blu, dal nero, dal verde, e così via. Siamo anche in grado, in circostanze normali, di distinguerlo dall’arancione e dal giallo, ma spesso può capitare di trovarci nell’imbarazzo, e sospendere il nostro gioco di attribuzione di colori, di fronte, ad esempio, ad una particolare sfumatura di colore che sta tra l’arancione e il rosso in modo ambiguo. La vaghezza, in questo senso, si manifesta in relazione ad un solo criterio, quello che stabilisce per noi il significato di rosso, in riferimento al quale si individua una zona grigia in cui l’attribuzione di un determinato colore al campione è di fatto indecidibile49. I concetti di colore sono quindi sì vaghi, ma non si può certo dire siano concetti di somiglianza di famiglia. Questi ultimi, infatti, in primo luogo possiedono una pluralità di criteri attivi nella determinazione dell’estensione del concetto, alcuni addirittura auto-escludentisi (come rivela l’analisi di vari candidati al ruolo di definizione della parola gioco in PI §66), e quindi, in secondo luogo, non muovono da un campione paradigmatico che ne garantisca l’utilizzo. Nel caso dei colori, posso sempre indicare un rosso particolarmente vivido per spiegarne il significato. Posso fare lo stesso con il concetto di gioco? Certo, magari indicando una partita di calcio a chi mi chiede conto del significato della parola gioco, fornendo, in altre parole, un esempio, ma quella stessa partita di calcio non sarà in nessun senso plausibile un modello di raffronto tramite cui giudicare gli altri giochi, né più né meno di ogni altro. Analogamente nel caso dei numeri50 (PI §67), l’introduzione dei numeri transfiniti o dei numeri immaginari non è certo avvenuta in base ai criteri che costituivano l’uso dei numeri razionali, i quali ovviamente non suggerivano nulla a riguardo: piuttosto, si è esteso il concetto di numero, includendo così i nuovi operatori.
49 Quine, ad esempio, parla del termine generale “montagna” come caso esemplare di inclusione ed esclusione di oggetti marginali dall’estensione di un termine: il criterio d’uso che regola il nostro concetto non ci dice dove finiscono le montagne e iniziano le colline, esattamente come non ci dice quando due picchi formano due montagne e non la stessa (Quine 1960, p. 158).
50 E’ importante notare i due esempi di concetto aperto che Wittgenstein porta in sede di discussione. I due concetti sono analoghi, ma ovviamente diversi sotto un importante aspetto: i numeri, in quanto concetti matematici, possono essere circoscritti da confini rigidi e quindi da criteri stabili, possibilità che invece i giochi non hanno (PI §68).
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Insomma, non esistono gerarchie tra i giochi, e men che meno tra i numeri: per le sfumature di colore, invece, in un certo senso, sì51.
I concetti aperti, quindi, a differenza dei concetti vaghi in senso generico, non possiedono uno standard di raffronto definito. Differenti regole governano il loro uso nei casi più disparati. A questo livello, nelle Ricerche la discussione si confonde e si mescola ad alcune considerazioni sullo statuto delle regole in relazione al problema della vaghezza, ma non solo; possiamo dire che alla vaghezza, Wittgenstein affianca una discussione a margine sulla completezza normativa, per così dire, dei nostri concetti (Schroeder 2013). Nell’ultimo capoverso di PI §68, l’interlocutore obbietta che il termine gioco, in questo modo, non possiede più un uso regolare, come non sarà regolare il gioco linguistico in cui tale termine ha un ruolo. La replica di Wittgenstein è immediata: le regole ci sono, ma non sono sufficienti a determinarne univocamente l’uso. Il caso è analogo al tennis, che non è delimitato ovunque da regole: non esiste, ad esempio, nessuna regola che determini quanto in alto si possa lanciare la palla. Si potrebbe introdurla ovviamente, ma in tal caso si giocherebbe una variante del tennis, se non proprio tutt’altro gioco52. I concetti aperti sono, dunque, un caso abbastanza chiaro di concetti incompleti. La discussione sull’incompletezza non si ferma però a questo punto, e arriva a coinvolgere termini che vaghi non lo sono proprio, in nessun senso. È il caso del termine sedia (PI §80), un termine abbastanza facilmente definibile, privo di campioni d’uso e senza una pluralità di criteri che ne determinano l’estensione. Si può pensare ad un caso, dice Wittgenstein, in cui una sedia continua a sparire e a riapparire di fronte ai nostri occhi, avendo appurato che non si tratti di una allucinazione:
Che cosa dovremmo dire, ora? Per casi del genere hai già pronte regole – che dicano se una cosa così si può ancora chiamare “sedia”? Ma queste regole ci vengono meno quando usiamo la parola “sedia”? E dobbiamo dire che a questa parola non colleghiamo, propriamente, nessun significato, poiché non siamo muniti di regole per tutte le sue possibili applicazioni?
51 Con questo non si vuole suggerire che nel caso del colore sia individuabile “un rosso in sé”, standard assoluto di correttezza nell’attribuzione del rosso: i campioni generali sono tali in relazione all’applicazione che se ne fa, non in virtù di una proprietà intrinseca degli stessi (PI §73). Si veda, a tal proposito, il paragrafo seguente.
52 È evidente, in questo caso, quanto sia sfumata la distinzione tra la variante di un gioco e un altro gioco: quante variazioni devono essere ammesse per essere legittimati a sostenere che abbiamo cambiato concetto, e non semplicemente implementato quello vecchio?
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(PI §80)
La strategia del filosofo è piuttosto chiara. Illustrando un contro-fattuale capace di rivelare la natura incompleta persino dei nostri concetti “chiusi”, Wittgenstein ci libera in un colpo solo della necessità di pensare al significato come ad un’articolazione onnicomprensiva di regole governanti l’uso, rendendo vacuo al tempo stesso il pregiudizio (tipicamente filosofico) contro la vaghezza e l’indeterminatezza del senso. Nel caso della sedia, l’incompletezza, che pure è logicamente rilevabile, anche se con un po’ di sforzo di immaginazione, non ci disturba. Il concetto ha un uso stabile e grossomodo definito, a causa anche di quell’invariabilità dei fatti generali della natura che spesso diamo per scontati nelle nostre considerazioni sul linguaggio (PI §§142, 415)53. In circostanze normali, procediamo spediti, senza sentirci necessitati a revisionare la logica delle nostre parole per tappare ogni buco lasciato scoperto dalle nostre regole. La revisione, che pure è possibile, avverrà solo quando e se necessario: il caso delle sedia fantasma ci lascerebbe interdetti solo fino a quando non decidessimo di introdurre una nuova regola che governi la circostanza in questione. Un processo di revisione simile accade effettivamente, nota Wittgenstein, se pensiamo all’oscillazione costante che subiscono i termini e le definizioni scientifiche, costantemente aggiornantisi per far fronte ad applicazioni nuove ed impreviste (PI §79).
Nel caso delle somiglianze di famiglia, l’incompletezza è analoga. Usiamo con molta naturalezza i concetti aperti senza avere il minimo dubbio su come utilizzarli, anche se siamo incapaci di fornirne una definizione. Possiamo non essere in grado di fornire una definizione della parola pianta, eppure comunque essere capaci di utilizzare in modo assolutamente perspicuo il termine quando, ad esempio, forniamo una descrizione di un paesaggio o di una situazione (PI §70)54. Se ci sarà occasione, introdurremo una nuova
53 Merita leggere PI §80 affiancandolo a PI §142. In quest’ultimo paragrafo, Wittgenstein si concentra sulla distinzione tra casi normali e anormali. I primi riguardano le circostanze in cui l’impiego delle parole è chiaro e nessun dubbio emerge riguardo al loro uso, a differenza dei secondi. È evidente che in PI §80 la sedia che sparisce è una circostanza anormale, concepibile solo se pensiamo la natura in termini molto differenti, ammettendo, ad esempio, la possibilità di oggetti spazio-temporalmente instabili. Tale caso anormale deve avere la natura dell’eccezione: se tutte le sedie si comportassero così, sarebbe infatti più corretto dire che il nostro concetto di sedia verrebbe svuotato completamente di senso, perché esso articola nel proprio uso un determinato rapporto tra eccezione e regolarità (si veda, a tal proposito, anche Z §351).
54 In Z §321, Wittgenstein nega di fatto la validità del principio di composizionalità, dicendo che se estendo il significato di una parola che compone un enunciato introducendo una nuova regola d’uso, il
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regola, un nuovo criterio, che andrà ulteriormente ad accrescere il nostro concetto in uso (criterio esplicito nel caso del numero, in quanto concetto matematico, implicito negli altri casi). La morale di questa discussione insomma, è chiara: anche i termini vaghi e indeterminati, che compongono pure una classe così ampia delle nostre attività linguistiche, sono a posto così come sono, e nessuna attività di revisione o regimentazione è richiesta per renderne legittimo l’uso, come abbiamo visto nel paragrafo precedente. Ciò che è fondamentale inoltre sottolineare, ai fini della nostra indagine, è l’effettiva disarticolazione del problema della regola in relazione al significato e alla comprensione: comprendere il significato non significa dominare un sistema chiuso e completo di regole che ci consenta di conoscerne ogni applicazione. Comprendere il significato, in altre parole, non è un sapere consapevole e istantaneo sull’uso futuro.