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Quando padroneggiamo un linguaggio, sappiamo come impiegare le parole che lo costituiscono. Ogni parola, ogni segno, ha un uso, un uso corretto, sullo sfondo del quale si staglia la possibilità di commettere errori. Parlare un linguaggio è, insomma, saper usare correttamente le parole30, una trivialità che si manifesta quotidianamente nelle nostre vite, in maniera lampante quando, ad esempio, ci troviamo a correggere gli strafalcioni di qualche amico straniero intento ad imparare la nostra lingua. Sapere il significato di una parola è saperla usare nei contesti appropriati, come ha modo di notare Wittgenstein in uno dei più celebri passaggi delle Ricerche (PI §43)31.

Se questo è il fatto, i grattacapi iniziano a giungere se cerchiamo di darne un’interpretazione filosofica. A questo livello si inserisce la nozione di regola, perché, intuitivamente, se il significato è l’uso corretto dei termini, allora, vien da pensare, standard di correttezza non può che essere una norma di qualche tipo. Saul Kripke, come avremo modo di vedere più diffusamente nel prossimo capitolo, rende conto di

30 La correttezza di cui ci occuperemo, è bene notarlo, è una correttezza di carattere semantico, non, per così dire, fattuale, ossia, concernente la nozione di verità: l’esprimere, ad esempio, una credenza falsa è una questione distinta dall’appropriatezza delle parole che uso per esprimerla (C. McGinn 1984, p. 60).

31 L’uso di cui si parla, ovviamente, esclude l’ambito d’interesse della pragmatica, essendo di carattere squisitamente semantico. Con le parole si fanno certamente tante cose, ad esempio si allude, si minaccia, si fa ironia, e così via, come, ad esempio, ha brillantemente fatto emergere Paul Grice nel suo lavoro sulla logica della conversazione (Grice 1989), ma tali usi presuppongono il significato delle parole che utilizzano, per essere efficaci; e tale significato è appunto espresso dal loro uso corretto consolidato in una pratica. L’uso che ci interessa, insomma, è quello che costituisce il significato, non che lo presuppone.

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questo elemento fondamentale del nostro linguaggio affermando che il significato possiede una natura normativa: comprendere il significato di una parola significa sapere come dovremmo utilizzarla (Kripke 1982, p. 37).

Sulla scia dell’interpretazione di Kripke, Wittgenstein è tradizionalmente ritenuto un filosofo normativo. Un esempio piuttosto rilevante che attesta questa tendenza è Donald Davidson, che nella sua crociata contro la natura convenzionale del linguaggio annovera Wittgenstein tra i pensatori che sulla norma, e più nello specifico, sulla norma sociale, fondano ogni considerazione sulla natura del linguaggio (Davidson 2001). D’altro canto, se lasciamo da parte la storia degli effetti e ci rivolgiamo direttamente ai testi, notiamo che nelle Ricerche il termine normativo compare una sola volta, in PI §81, paragrafo che abbiamo già avuto modo di citare nel precedente capitolo. Qui Wittgenstein accenna ad una conversazione con Frank Ramsey, in cui il giovane filosofo britannico sosteneva, appunto, che la logica fosse una “scienza normativa”. Wittgenstein concorda, ma solo a patto di intendere tale locuzione come una massima metodologica, e non come una tesi sulla natura del linguaggio. Ciò che dobbiamo fare è semplicemente confrontare il linguaggio con sistemi di calcolo più esatti, condotti tramite regole fisse, stando attenti però a non sovrapporli, e insieme a non idealizzarne (noi diremo ora, sublimarne) la natura. Nelle Osservazioni Sopra i Fondamenti della Matematica, troviamo più di un’occorrenza del termine, in passaggi in cui si asserisce che la matematica è normativa, specificando, come in PI §81, che normativo non significa affatto ideale (RFM VII §61). Nel Big Typescript, poi, in una delle sezioni centrali dell’opera, troviamo un’analogia con il contratto sociale giusnaturalistico, il quale, pur essendo una mera finzione giuridica, è comunque utile ad illuminare alcuni meccanismi costitutivi del vivere comune (BT 45 §5)32, in maniera analoga al calcolo logico in relazione al linguaggio ordinario.

Pare evidente dunque che Wittgenstein, all’epoca delle Ricerche, abbia mutato atteggiamento nei confronti delle regole del linguaggio, che pur nelle diversità delle tesi sostenute, erano state la costante delle sue precedenti riflessioni, dal Tractatus alla cosiddetta fase intermedia (Marconi 1996, Baker Hacker 2006, Schroeder 2013).

32 Annotazione, questa, aggiunta sul retro di pagina del manoscritto, probabilmente in un secondo momento. Il Big Typescript, infatti, non rinuncia ancora del tutto all’immagine calcolistica del linguaggio che domina il pensiero di Wittgenstein ancora fino a metà degli anni ’30 (Schroeder 2013).

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Testimoni testuali di tale sottile ma capitale passaggio sono proprio le pagine del Big Typescript, ancora in parte dominato da ciò che chiameremo l’immagine calcolistica del linguaggio, in cui il significato è pensato come una funzione all’interno di un sistema di norme rigide ed esplicite. In questo testo, troviamo un’annotazione posteriore di Wittgenstein relativa al titolo del capitolo quarantacinque sopra citato, dove si sostiene che il linguaggio funziona solo in base alle regole a cui ci atteniamo nell’impiegarlo. Ciò non è esatto, scrive in nota il filosofo austriaco: non è necessario, infatti, che le regole vengano annotate, rese esplicite a condizione dell’uso (BT, p. 45). Sembra, quindi, che Wittgenstein abbia avuto dei ripensamenti, in particolare relativamente al ruolo che le regole assumono nei nostri giochi linguistici.

Ciò nonostante, la trattazione del tema della regola nelle Ricerche è piuttosto diffusa e capillare, come se ad esso Wittgenstein conferisse un ruolo centrale nella sua opera di decostruzione, e ha esercitato fin da subito, e non a torto, una certa attrazione tra gli interpreti. Non ci dobbiamo aspettare una trattazione sistematica del concetto naturalmente, a maggior ragione se pensiamo che nel Libro Marrone Wittgenstein ci dice che il concetto di regola si costituisce per somiglianze di famiglia, e per questo è ininfluente cercarne una definizione univoca (BB, p. 130). Come bussola per orientarci nella problematica, possiamo riportare l’ultimo capoverso di PI §81, sopra citato:

Ma tutto ciò ci può apparire nella sua giusta luce solo quando si sia raggiunta una maggiore chiarezza riguardo i concetti del comprendere, dell’intendere (meinen) e del pensare. Perché allora diventerà anche chiaro che cosa ci possa erroneamente indurre a pensare (come è successo a me) che chi pronuncia una proposizione e la intende, o la comprende, sta eseguendo un calcolo secondo regole ben definite.

(PI §81)

L’immagine calcolistica del linguaggio e del significato, quindi, è un errore, una distorsione prospettica. Essa è un prodotto dell’intersezione tra le grammatiche ancora troppo poco chiare del comprendere, dell’intendere e del pensare. Siamo attratti dall’idea che le regole delle proposizioni siano delle condizioni nascoste, “celate nel medium del comprendere”, dice Wittgenstein (PI §102), scorte tramite il segno con cui intendiamo sempre qualcosa, ma questo è precisamente l’ideale da noi descritto nella

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precedente sezione, del quale dobbiamo cercare di fare a meno. La nozione di regola è, insomma, la chiave di volta su cui si regge una determinata concezione del significato e della mente che il filosofo viennese si affanna a più riprese di decostruire, e non è affatto un caso che le analisi grammaticali coinvolgenti i termini in questione siano sempre intrecciate a quelle dedicate alla regola: le famigerate considerazioni sul seguire una regola (PI §§185-241) gemmano e muovono dalle sezioni immediatamente precedenti sul comprendere (PI §§138-184), mentre considerazioni chiave sui concetti di intendere e pensare vengono sviluppate insieme alla trattazione più esplicita del tema della regola (pur componendo dei nuclei tematici autonomi all’interno del testo, ad esempio PI §§ 666-693, come avremo modo di vedere). Possiamo già anticipare cosa fa problema nell’uso di questi concetti: il loro causare un curioso puzzle temporale, nel momento in cui sembrano descrivere contemporaneamente il presente di un atto mentale (quando ad esempio, comprendo ora il significato di un termine) e il futuro delle applicazioni successive (quando, compreso un termine, so quando è opportuno usarlo) (LFM, p. 28). Nel caso della regola, in modo analogo, ciò si manifesta nell’incapacità di tenere insieme la formulazione della regola con le sue future, e infinite, applicazioni. Esempio oramai canonico, e su cui ci dilungheremo non poco, è il rapporto tra l’ordine “aggiungi 2”, impartito ad uno scolaro, e la sequenza numerica in base due che da esso dovrebbe conseguire (PI §185).

In questo capitolo, cercheremo di fornire un affresco quanto più possibile esaustivo del tema della regola all’interno delle Ricerche Filosofiche. Non è nostra intenzione produrre un’analisi dettagliata di PI §§185-242, tradizionalmente riconosciuti come il luogo principale, all’interno del testo, in cui Wittgenstein elabora la propria posizione in merito al concetto di regola. Su di esse si sono prodotti fiumi di inchiostro, diversi manuali (Kenny 1973, Vogelin 1987, M. McGinn 1997, Voltolini 1997, Stern 2004, Schroeder 2006, per citarne alcuni), alcuni commentari davvero esaustivi (Baker Hacker 2009), nonché buona parte del dibattito a seguire della pubblicazione della controversa interpretazione di Saul Kripke, sopra appena accennata. Poco avremmo da aggiungere, dunque, al fine una delucidazione di queste sezioni. Al contrario, cercheremo di arrivare a queste sezioni, comunque fondamentali, dislocando un minimo la prospettiva, concentrandoci in prima battuta su altri passaggi, spesso sottovalutati, ma comunque rilevanti per fornire un’immagine quanto meno esauriente delle preoccupazioni

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wittgensteiniane nei confronti del tema della regola. Il nostro discorso ruoterà intorno a tre plessi argomentativi strettamente connessi: inizieremo interrogandoci sui ruoli che le regole possono avere in relazione alle nostre pratiche linguistiche, spendendo più di qualche parola sul concetto di somiglianza di famiglia; ci soffermeremo, poi, sulla relazione controversa tra esempio e definizione, e concluderemo infine spendendo qualche parola sul concetto di circostanza. E’ naturale che qualcosa rimanga fuori, ma contiamo di recuperarlo nei prossimi capitoli quando affronteremo le interpretazioni più rilevanti sul tema in esame.