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4. Dare un esempio, fornire una definizione

4.1 Quali Esempi?

A questo punto, però, sembra che sia rilevabile una certa tensione nel discorso di Wittgenstein. Dare un esempio, infatti, è un tipo piuttosto ovvio di definizione ostensiva, di spiegazione che indica una regola: come è possibile contrapporlo alla definizione verbale, quindi, se entrambe sono espressioni di una regola? Si può cercare di dirimere la questione tenendo in conto che ci sono tanti modi di dare esempi59. Un caso abbastanza ovvio è quello del fornire una spiegazione introducendo un campione, ad esempio di una unità di misura, come il metro (PI §50). Esso fungerà da standard di rappresentazione e governerà il gioco particolare di prendere le misure con il metro. Tale campione sarà introdotto nel momento dell’addestramento, oppure rimarrà visibile per tutta la durata del gioco, facendone parte attiva. Il fatto che una spiegazione di questo tipo sia efficace, è perché tante cose del linguaggio sono già al loro posto, ad esempio, già si presuppone la padronanza di alcuni concetti e facoltà da parte del discente, come l’avere familiarità con gli elementi più basilari dell’aritmetica nel caso

58 Il termine tedesco che il filosofo usa viene applicato, nell’uso comune, agli addestramenti forzati degli animali (BB, p. 104). L’Abrichtung, verrebbe da dire, è quella tipologia di pratica che non deve coinvolgere alcuna attività cosciente di interpretazione da parte del soggetto ammaestrato. Tra tutti i lavori che si sono dilungati su questo concetto, segnaliamo Fogelin 2002 e Huemer 2006.

59 Severin Schroeder, nel tentativo di dirimere la questione, sconfessa il lessico utilizzato da Wittgenstein e cerca di distinguere tra una definizione ostensiva propriamente detta, esaurita nell’indicare un campione, e una spiegazione tramite esempi: mentre nel primo caso il campione non fa parte del gioco, nel secondo fornire un esempio costituisce il gioco stesso. Se, ad esempio, devo insegnare il valzer, posso mostrare i passi compiendoli io stesso, oppure dare una definizione ostensiva fornendo un diagramma dei passi corretti, non dando, in questo caso, un esempio (Schroeder 2001). A nostro parere, questa è una distinzione importante, in quanto sottolinea, nel caso della spiegazione tramite esempi, un caso in cui la regola è esibita, più che additata e quindi presupposta come già attiva. Di contro, la distinzione sembra molto meno netta di quanto appaia: non si capisce in che senso, infatti, mostrare un passo di danza sia lo stesso che danzare: i due giochi sono ovviamente analoghi, ma si giocano in circostanze differenti (il palco non è una sala da prova, e nessuno cerca di apprendere alcunché guardando Bolle danzare). Che differenza ci sarebbe, poi, tra una tabella estremamente dettagliata dei passi da compiere, e un videoclip del passo stesso, entrambi pronti alla consultazione quando necessario? La distinzione, insomma, sembra essere più terminologica che sostanziale, in quanto i due termini in gioco sfumano l’uno nell’altro.

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della misurazione. Tali presupposti giocano come standard di rappresentazione delle nostre pratiche, stanno alla loro base come precondizione implicita.

Ma che dire della costituzione e del riconoscimento degli standard di rappresentazione in quanto tali? Essi vengono forniti, e non certo riconosciuti come tali in virtù di qualche oscura caratteristica innata. In questo caso, non si tratta di padroneggiare in modo imperfetto la tecnica dei colori e non sapere, ad esempio, cosa sia l’indaco: la mia ignoranza, in tale circostanza, è facilmente colmabile tramite l’ostensione di un campione del colore in questione, e null’altro mi è richiesto affinché la spiegazione vada a segno. La spiegazione è efficace sullo sfondo di una capacità acquisita60. Ma quando questa ancora manca, sono concetti come uguale, diverso, analogo, simile, corretto, tutti quegli operatori logici che costituiscono la nostra attività quotidiana dell’operare con segni, insomma, che sono messi in discussione, e di cui si deve padroneggiare l’uso. Ovviamente, ciò non significa affatto che essi siano una sorta di super-concetti (PI §97), condizione liminare universale per ogni gioco possibile, in quanto tali inspiegabili61: anche essi possono essere ben spiegati, ma nell’unico modo possibile ad essi appropriato, tramite l’ostensione ripetuta di esempi incarnanti la regola che vogliamo esprimere. In questo senso, crediamo, va letta la distinzione tra definizione ostensiva, come tale articolazione ulteriore delle nostre operazione con segni, e insegnamento ostensivo tramite addestramento, che Wittgenstein formula senza dilungarsi troppo in PI §§5-6.

Un esempio per sostanziare questo giro di pensieri, lo troviamo nelle Lezioni sui Fondamenti della Matematica (LFM, pp. 62-63). Qui Wittgenstein ci pone di fronte due usi differenti della parola analogo. Posso descrivere un disegno su una carta da parati,

60 Nelle Ricerche, ciò è risultato teorico già acquisito della discussione sulla definizione ostensiva, cardine fondamentale intorno a cui ruota l’immagine agostiniana del linguaggio (PI §§26-38, con un’importantissima anticipazione in PI §6). La definizione ostensiva non è affatto la porta di accesso diretto e immacolato al mondo tramite il linguaggio, così come era descritta nelle Confessioni: infatti, essa è sempre fraintendibile come ogni altra definizione (PI §28), la sua efficacia dipende sempre dalle

circostanze e dalla persona a cui la do (PI §§29, 31) e presuppone già la capacità di saperci fare qualcosa,

di renderla attiva in una pratica (PI §30). Insomma, la definizione ostensiva è insieme efficace e formulabile solo se si presuppone già in atto un orizzonte di senso acquisito da parte e del parlante e del discente. Tale orizzonte di senso si costituisce prima di ogni attività ulteriore, grazie all’addestramento.

61 Nota è l’ostilità di Wittgenstein nei confronti dell’indefinibilità, altro cardine concettuale del Tractatus nella veste degli oggetti semplici. “Indefinibile” è una parola fuorviante, scrive nel Big Typescript: non si capisce che genere di impossibilità essa voglia esprimere. Se si tratta di un’impossibilità fisica, come nel caso in cui volessimo sollevare un peso troppo grande, perché ci dovrebbe essere precluso pure il

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dicendo “questo disegno è analogo ad un altro sotto questi rispetti”. In tal caso, sto indicando un solo disegno, parlando di un altro non presente di cui sto, di conseguenza, fornendo una descrizione indiretta. Di contro, posso dire “Questo è un caso analogo, non quello”. Rispetto al primo uso, qui le cose di fronte a noi sono due, non una. La differenza tra i due casi qual è? Nel primo, stiamo dando un’informazione, nel secondo, stiamo istruendo l’ipotetico interlocutore all’uso della parola analogo; nel primo, stiamo giocando un gioco che coinvolge la parola analogo, nel secondo stiamo introducendo la parola, spiegandola tramite esempi, a condizione di un gioco specifico.

Per sviluppare ulteriormente questo punto, Wittgenstein sposta l’attenzione sul caso dello sviluppo di una sequenza numerica, descritta, tra l’altro, in modo analogo al gioco linguistico dell’allievo recalcitrante in PI §185. Ogni sequenza numerica coinvolge uno schema di sviluppo. Nel caso in esame, “aggiungi due”. A schema acquisito, all’ordine “Continua allo stesso modo” si deve rispondere in modo determinato, tanto che l’ordine può essere pensato come equivalente a “Scrivi n” (dove n va inteso come il numero successivo nella sequenza). Il fatto, comunque, che scrivere 104 e non 106, affianco a 102, sia l’applicazione corretta dello schema, non è certo dovuto alla natura particolare del numero. Non c’è alcuna ragione a priori che ci renda in grado di discernere ciò che è corretto da ciò che non lo è, in quanto le stesse ragioni apriori si costituiscono e si consolidano sul terreno pregresso stabilito da ciò che intendiamo per stesso e identico. Se non conosciamo le condizioni del gioco, chiedere cosa l’analogo sia, o cosa significhi procedere secondo lo schema, può avere una sola risposta, secondo Wittgenstein: dipende. Analogamente, anche nel caso, riportato nelle Ricerche, di chi, ogni giorno, mi dicesse “Domani verrò a trovarti” e ci chiedessimo se il tale in questo modo facesse sempre la stessa cosa o qualcosa di diverso (PI §226), si dovrebbe dare la medesima risposta: dipende, da cosa è davvero importante per noi nel contesto specifico del sorgere della domanda62, e non da criteri assoluti di uguaglianza e differenza;

62 In Zettel, troviamo un chiaro passaggio sulla natura antropica, per così dire, dei nostri criteri di uguaglianza e differenza. Possiamo pensare a una tribù che utilizza ben due termini distinti per parlare del dolore, uno applicato alle lesioni fisiche visibili, l’altro ai dolori interni, come un mal di stomaco. Nel primo caso, gli indigeni si assistono l’un l’altro, nel secondo manifestare tali dolori è un motivo di derisione collettiva. Il loro concetto di dolore interseca il nostro, ma diverge allo stesso modo in modo bizzarro e a noi incomprensibile. Infatti, ci pare ci sia una comunanza oggettiva tra i due fenomeni trattati così diversamente. Wittgenstein, come al solito, ci chiede di ribaltare la prospettiva da cui guardiamo la questione, chiedendoci: è importante, per loro, questa somiglianza? (Z §380). Al di là del contesto di vita

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ancora, se sostenessimo che fare ogni giorno qualcosa di diverso è un criterio valido per sostenere che qualcuno non sta seguendo una regola, diremmo qualcosa di insensato, dice Wittgenstein (PI §227): diverso, certo, ma rispetto a cosa? Se non sono in grado di specificarlo, non sto dicendo nulla.

In maniera più evidente che nel caso della carta da parati, l’esempio matematico della sequenza numerica connette la discussione dei concetti di analogo, identico, differente, e così via, al concetto di regola. Nessuna gerarchia logica è ammissibile tra le parti: essi vanno imparati insieme, sono logicamente relati in modo tale che non ha alcun senso parlare di una regola conosciuta indipendentemente dall’idea di uguaglianza, che essa mobilita nel proprio impiego (PI § 225). Se mi si ordina di fare la stessa cosa, come nel caso di continuare autonomamente la serie numerica, devo già sapere cosa vuol dire applicare la regola in questione (Z §305). Allo stesso modo, conoscere una regola significa sapere cosa concordi con essa nell’applicazione, e cosa no; in altre parole, non si può pensare che il significato della parola regola sia scindibile da quello di concordanza63 (PI §224). Il tipo di connessione tra questi concetti è ciò che Wittgenstein chiamava relazione interna, una connessione concettuale diretta tra concetti64, analoga a quella costituitasi tra il concetto di proposizione e di verità65 (PI §225).

in cui questi concetti sono applicati e in cui ricevono il loro significato, non c’è nulla di sostanziale a cui appellarsi come standard di identità neutrale.

63 Nelle Osservazioni Sopra i Fondamenti della Matematica, in maniera analoga Wittgenstein stabilisce la connessione tra regola e impiego delle parole corretto e scorretto (RFM VII §39).

64 Nelle Lezioni, troviamo una definizione esplicita di un tale concetto: “La relazione interna è

nell’essenza delle cose; essa non è mai una relazione tra due oggetti, bensì la si potrebbe chiamare una relazione tra concetti” (LFM, p. 77). Nelle Osservazioni, si parla delle proprietà interne come

indipendenti da tutti gli accadimenti esterni (RFM I §102), anche se la descrizione più appropriata la troviamo in un passaggio dedicato alle connessioni grammaticali (RFM I §128). Nelle Ricerche, il termine non compare mai esplicitamente, seppure attivamente presente in molteplici discussioni, dalla natura del desiderio, del comando e della volizione, a quella sulla verità. Tra tutti, i testi che si concentrano di più su questa nozione sono Baker Hacker 1984, 2009.

65 Il riferimento alla verità in PI §225 ci riporta a PI §136, in cui, discutendo sulla natura della proposizione, Wittgenstein afferma che la verità non conviene (fit) alla proposizione, ma piuttosto ne fa

parte (belong). Tale distinzione rispecchia in modo palese la distinzione tra relazione interna ed esterna:

la verità fa parte della proposizione perché ne costituisce il significato (chiamiamo “proposizione” tutto ciò che è possibile utilizzare in un calcolo vero-funzionale), non le conviene in quanto non possediamo alcuna nozione di verità rispetto a essa indipendente, come nel caso della relazione tra le cause e i loro effetti. Inoltre, riportare l’auto-identità a un caso specifico di relazione esterna di convenienza, analogamente a una macchia rispetto al suo contorno, o allo spazio che occupa, è strategia usata da Wittgenstein per denunciare la vacuità sostanziale della stessa come paradigma assoluto di uguaglianza (PI §§215-216).

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Tali relazioni interne si costituiranno, nella maggior parte dei casi, in sede di insegnamento ostensivo e di esempi. Ciò che significhiamo con “prosecuzione corretta”, nel caso della sequenza, non si può illustrare che tramite esempi (Z §300), non ci sono altre vie. A conclusione di questo giro di pensieri, citiamo un passo centrale delle Ricerche, che riassume in modo incisivo quanto detto. Dopo aver paragonato il seguire una regola al comando (PI §206) e ad aver fatto emergere la regolarità del comportamento umano come relato interno delle norme (PI §207), Wittgenstein si chiede se abbiamo già ora sufficienti dati per riuscire a definire il concetto di regola, magari, appunto, mediante il concetto di regolarità:

Come faccio a spiegare a qualcuno il significato di “regolare”, “omogeneo”, “eguale”? – A uno che parli, poniamo, soltanto il francese spiegherò queste parole mediante le corrispondenti parole francesi. Se però costui non possiede ancora questi concetti, gli insegnerò ad usare le parole mediante esempi e con l’esercizio. […]

Gli faccio vedere come si fa, e lui fa come faccio io; e influisco su di lui con espressioni di consenso, di rifiuto, di aspettazione, di incoraggiamento. Lo lascio fare, oppure lo trattengo; e così via.

Immagina di essere testimone di un addestramento del genere. Nessuna parola sarebbe definita mediante se stessa, non si cadrebbe in nessun circolo logico.

(PI §208)

Due sono i casi isolati da Wittgenstein. Da una parte, nel caso del francese, si può fornire una spiegazione che non ricorra ad esempi. Siamo di fronte, infatti, ad un individuo in pieno possesso delle sue facoltà linguistiche, e come tale, basterà fornirgli una definizione esplicita, che connetta le parole in questione con il loro corrispettivo francese (gli forniremo, in altre parole, una traduzione). Dall’altra, abbiamo a che fare con un caso in cui il nostro interlocutore è sprovvisto dei concetti in questione, come il bimbo che cerca di imparare la sequenza numerica dell’esempio esposto sopra. Nel primo caso, siamo di fronte ad un esempio di esplicitazione di una nozione già posseduta, nell’altro ad uno di costituzione di concetti non ancora padroneggiati. Nel secondo capoverso riportato, Wittgenstein ci illustra come tale addestramento possa prende forma: facciamo vedere come si fa, illustrando al discente una pratica di operare

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con i segni che articola nella propria esecuzione l’acquisizione implicita delle nozioni in questione. Nessun termine sarà definito in funzione di un altro, nessuna petizione di principio ne conseguirà66.

Una chiosa, infine, sul ruolo dell’esempio matematico nelle discussioni wittgensteiniane. Il caso della sequenza numerica espone in maniera piuttosto evidente le relazioni concettuali che si volevano chiarificare. Essa funge da modello, tramite il quale gettare luce sui rapporti tra determinati concetti, avendo esso il merito di non farci indulgere in questioni estrinseche, quali la vaghezza o l’ambiguità (Minar 1991, p. 203). Possiamo spiegare, quindi, l‘interesse che Wittgenstein sviluppa per la matematica nel corso degli anni ’30 e l’importanza degli esempi matematici nella tessitura argomentativa delle Ricerche, non solo in base al fatto che da sempre tale disciplina è stata roccaforte e fonte di un numero impressionante di confusioni filosofiche, legate alla natura del segno matematico e del ruolo del calcolo nella nostra vita (Baker Hacker 2009, Cap. VII), come tale bisognosa di un’opera fine di chiarificazione terapeutica67. Per Wittgenstein, la centralità degli esempi matematici possiede anche e soprattutto una ragione metodologica, perché essa, al pari della logica, rappresenta esattamente un tipo

66 In modo alquanto sorprendente, questa modalità di argomentazione, contrassegnata dal voler contrapporre l’esempio alla definizione come modalità legittima di spiegazione del significato, viene mobilitata in tutt’altro contesto, nella risposta di Grice e Strawson all’argomento quineano contro l’analiticità (Grice Strawson 1956). Quine, in questo caso, gioca la parte del filosofo “platonico”, in cerca di una definizione coerente dell’analiticità, una definizione che il filosofo non riesce a trovare in quanto connessa in modo circolare ad altre nozioni, tra cui impossibilità logica, sinonimia e necessità. Appurato ciò, non rimane che rinunciare a tutte queste nozioni, dichiarandoci liberi dal primo dogma dell’empirismo (Quine 1953). Alla base di questa mossa eliminativista, è presente però un presupposto tutt’altro che discusso, ossia il fatto che non si dia modalità di chiarificazione altra rispetto alla definizione verbale; ed è precisamente questo presupposto, tra gli altri, che è denunciato in tutta la sua vacuità dai due autori britannici nella loro replica. La nozione di verità analitica, vera in virtù del solo significato, o di impossibilità logica, falsa in virtù del solo significato dei termini coinvolti, è una nozione chiarificabile tramite la mera enunciazione di esempi, come nel caso di chi si ostinasse a dire che suo figlio di tre anni è un adulto, appurato che non stiamo parlando di un freak e non viviamo in una comunità con una soglia di accesso alla maggiore età molto bassa. Se il solo esempio non bastasse a chiarire la questione, potrei formularne altri, parlando di mio fratello scapolo ma sposato, o di un triangolo con quattro angoli: ciò che è logicamente impossibile, lo mostro tramite una serie di esempi, esattamente come Wittgenstein propone di fare, con la nozione di regola.

67 In conclusione alle Ricerche, Wittgenstein paragona la psicologia alla matematica in quanto discipline concettualmente confuse; dove in psicologia la confusione si mescola ai metodi sperimentali, in matematica la confusione è dovuta ad una errata concezione dei metodi di prova, intesi in modo analogo alla scoperta fisica (PI, p. 270). L’analogia strutturale tra psicologia e matematica è bene indagata in Baker Hacker 2009, Cap. I.

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di sistema di calcolo rigido tramite cui raffrontare il linguaggio ordinario, coerentemente con quanto sostenuto in PI §8168.