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Alla luce di quanto spiegato nel paragrafo precedente, ci pare che la posizione di Baker e Hacker colga genericamente nel segno125, nel momento in cui denuncia la sostanziale distanza tra i problemi in gioco nelle Ricerche e la dubbia validità del paradosso scettico di Kripkenstein. Tuttavia, è stata di recente prodotta una difesa vigorosa della prospettiva kripkiana ad opera di Martin Kusch, il quale ne sostiene sia la validità, sia soprattutto la compatibilità con il testo di Wittgenstein. Ora ci rivolgeremo a questa contro-replica, cogliendo l’occasione per approfondire un tema fino a ora rimasto ai margini, e che tornerà diffusamente nel terzo capitolo: il rapporto tra regola e comunità. In via preliminare, l’unico punto che Kusch si sente di concedere a Baker e Hacker, è che l’interpretazione “berkeleyana” di Wittgenstein e il suo essere filosofo del senso comune è inesatta (Kusch 2006, p. 239). Per il resto, le due posizioni non potrebbero essere più distanti. Secondo Kusch infatti, la sfida scettica va pensata e riarticolata all’interno della struttura dialogica degli argomenti wittgensteiniani. Il paradosso scettico prenderebbe di mira una certa concezione del significato, che Kusch chiama determinismo semantico126 (meaning determinism; Kusch 2006, p. 240), e che costituirebbe la tesi principale sostenuta dal paziente della terapia wittgensteiniana. Solo al determinista, che pensa il significato nei termini di un evento mentale passato in grado di determinare ogni risposta futura, il paradosso dà problemi, e solo ai suoi occhi il rapporto tra intenzioni passate e presenti è analogo a quello tra insegnante e allievo (Kusch 2006, p. 243). In secondo luogo, Kusch cerca di salvare la connotazione scettica dell’argomento wittgensteiniano, negata da Baker e Hacker sulla base della personale

125 Riteniamo di poter condividere con Baker e Hacker, quanto meno, gran parte delle critiche rivolte all’impostazione kripkiana, anche se non tutte, come vedremo. Sulle posizioni più controverse dei due autori, in particolare relativamente al problema della possibilità di un linguista solitario, torneremo nel prossimo capitolo.

126 Il termine è mutuato da David Bloor, che oppone al determinismo ciò che lui chiama finitismo semantico (Bloor 1997, p. 3).

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avversione di Wittgenstein alle forme tradizionali di scetticismo moderno, sostenendo che lo scetticismo non è affatto epistemologico, in quanto non coinvolgerebbe lo statuto del nostro sapere relativo al significato, ma è piuttosto ontologico, articolandosi in una tesi che nega l’esistenza di fatti semantici127, nello specifico di quei super-fatti che dovrebbero determinare ciò che intendiamo con le parole che usiamo, sulla base della sola evidenza che abbiamo, il nostro comportamento verbale (Kusch 2006, p. 245). Possiamo rendere più accattivante, con Kusch, la posizione di Kripke, e sostenere che il paradosso è quanto meno un passaggio fondamentale nella strategia terapeutica di Wittgenstein. Questo è indubbio, come abbiamo cercato di mostrare in precedenza. Ciò non toglie però che lo scetticismo delle intenzioni di Kripke non sia affatto il medesimo di PI §201, e che, in definitiva, siano le differenze tra i due più che le similarità ciò che conta maggiormente. Dubbio, ad esempio, è che esso abbia qualcosa a che vedere con il gioco linguistico dell’allievo recalcitrante, come Kusch sembra sostenere, persino nell’ottica di un cosiddetto “determinista semantico”. La domanda che l’interlocutore è spinto a porsi, di fronte al gioco linguistico del bambino recalcitrante, è come sia possibile che il bambino comprenda una regola, come faccia a sapere quale sia l’applicazione corretta ad ogni passo. Egli ricorrerà all’intenzione per rendere conto del fenomeno, venendo traviato dalla grammatica del concetto, che non descrive affatto un processo, bensì qualcosa di affine a un’abilità (PI §187). Tutt’altro paio di maniche è articolare fin dal principio un dubbio relativo al rapporto e al conflitto tra intenzioni passate e presenti e insieme ai fatti che dovremmo postulare per garantire l’invarianza del significato. Oltre ad essere tremendamente contro-intuitivo, e non coinvolgere direttamente la connessione tra regola e applicazione, questo dubbio esclude fin dal principio la possibilità di una sua “risoluzione” grammaticale nei termini di abilità128, astratto com’è dalla dialettica in cui dovrebbe essere collocato; inoltre, presupponendo implicitamente che comprendere effettivamente sia intendere, dà per acquisita un’identità concettuale che non ha appunto motivo di essere sostenuta. Insomma, il

127 Così anche Alex Byrne, che rimarca il medesimo punto. Lo scettico di Kripke professa uno scetticismo relativo ad alcuni fatti specifici, che ipotizziamo per spiegare il fenomeno del significato (Byrne 1996).

128 Colin McGinn è particolarmente incisivo su questo punto (C. McGinn 1984, p. 70). Kripke sembra sorprendentemente sottovalutare la connessione concettuale che Wittgenstein istituisce tra comprensione e abilità, o tecnica d’uso, della quale non si fa cenno alcuno nella tessitura dell’argomento scettico. Ennesima attestazione, questa, della poca carità della lettura kripkiana nei confronti del testo di Wittgenstein.

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paradosso scettico kripkeano, così come è formulato, blocca fin dal principio l’indagine grammaticale wittgensteiniana, trasfigurandola in una problematica tanto simile quanto fuorviante, ma che di certo non è un suo elemento costitutivo. Wittgenstein certo parla di regresso delle regole e di paradosso delle interpretazioni in relazione alle repliche del “paziente”, ma ciò non è affatto sufficiente per sostenere che il problema scettico sia conciliabile con l’andamento dialogico del testo wittgensteiniano.

Per quanto riguarda invece la differenza tra i due tipi di scetticismo, è indubbio che Baker e Hacker non colgano questa distinzione all’interno dell’interpretazione kripkiana. Non è molto chiaro, però, quanto questa precisazione cambi i termini della questione. Possiamo anche concedere che lo scetticismo in questione sia ontologico, ciò non toglie però che ciò che ci spinge a formularlo sia un dubbio relativo alla natura delle nostre intenzioni linguistiche passate, le quali sono pensate come capaci di garantire l’invarianza del significato (ciò che Kripke chiama la dimensione meta-linguistica) e insieme la giustificazione del nostro uso presente; abbiamo visto come non sia affatto necessario porre un simile dubbio, negando che le intenzioni passate abbiano qualche ruolo nella giustificazione delle applicazioni attuali delle regole. In secondo luogo, uno scetticismo di questo tipo assume esplicitamente un’idea di filosofia come sapere che tende a postulare o a negare cose nel mondo per rendere conto dell’evidenza che abbiamo, in maniera analoga al sapere scientifico: in questo caso, fatti del significato. Ma come già Baker e Hacker avevano espresso, qui non si tratta di decidere cosa esista e cosa no, si tratta semmai di ripudiare una concezione prettamente filosofica del significato e della comprensione, che ci costringa a pensare entrambi nei termini di cose nel mondo e di processi che le colgano. La distinzione è quella tra le esigenze poste da una spiegazione che si vuole esaustiva (Z §315) e la chiarificazione della grammatica dei nostri concetti, e non è affatto una distinzione da poco.

E’ vero che Kripke non vuole negare il fenomeno del significato tout court, ma solo dei “super fatti” posti a sua condizione da specifiche dottrine filosofiche (WRPL, p. 56). L’accusa di nichilismo semantico mossa da Baker e Hacker è quindi eccessiva e non coglie nel segno, questo va concesso. Ciò nonostante, non è chiaro quanto questa considerazione possa davvero affievolire la distinzione tra Wittgenstein e Kripkenstein.

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In primo luogo, PI §192, da cui l’espressione “super-fatto” è tratta129, si riferisce all’idea che si possa cogliere in un colpo solo il significato delle parole (PI §191); è questo il problema madre che Wittgenstein indaga a partire da PI §138. Quel che è certo è che non ci si riferisce a fatti di qualche tipo posti a ipotesi esplicativa dell’invarianza delle nostre intuizioni linguistiche, siano esse disposizioni o stati mentali. In secondo luogo, Wittgenstein non ci sta dicendo che pensare a un fatto di questo genere sia sbagliato, ma che sia completamente insensato: parlare di super-fatti non è un’ipotesi esplicativa inadeguata, ma il classico caso in cui il linguaggio gira a vuoto, in cui ci sembra di dire qualcosa, ma in realtà non stiamo dicendo nulla130. Insomma, nonostante la riabilitazione messa in campo da Kusch, continua a sfuggire il tipo di operazione che Wittgenstein tenta di articolare nelle Ricerche, completamente estranea al lessico dei fatti e delle giustificazioni teoriche rispetto a problemi genuini.

Con maggiore interesse ci rivolgiamo ora alla plausibilità della soluzione scettica, la cui discussione ci pone in grado di cogliere alcune coordinate concettuali che ritorneranno nel prossimo capitolo. Kripke sostiene che il seguire una regola e con essa il linguaggio siano un fenomeno essenzialmente sociale. Kusch, in prima battuta, cerca di difendere questa posizione tramite un’analisi lessicale di un passo presente in PI §199, dove Wittgenstein dice che “seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)”. I termini tedeschi dell’originale, vale a dire, rispettivamente, Gepflogenheiten, Gebraeuche e Institutionen, hanno una marcata accezione collettiva (Kusch 2006, p. 249)131, che spinge dunque a pensare a una posizione comunitarista. A questa considerazione, Baker e Hacker hanno replicato, dal canto loro, che non è affatto pacifico che questo genere di considerazioni lessicali spingano in questa direzione, citando altro materiale in cui Wittgenstein utilizza i medesimi termini riferendosi a casi singoli (Baker Hacker 2009, p. 143). A prescindere da ciò, comunque, possiamo ben concedere che nel passo sopra

129 I super-fatti sono un esempio di quei “superlativi filosofici” (PI §192) che Wittgenstein genericamente segnala come un sintomo di un qualche fraintendimento della grammatica del linguaggio. Altri superlativi rilevanti sono le super-espressioni (Ueber-Ausdruck; RFM I §24, PI §192), le connessioni ultra-rigide che connettono le intenzioni alle azioni (Ueber- starre Verbindung; RFM I §130, PI §197) e il super-ordine (Ueber-Ordnung) tra super-concetti (Ueber-Begriffen; PI §97).

130 Ciò è dovuto all’intersezione di immagini che s’incrociano (PI §191), idea sviluppata tramite l’analogia con la macchina e il proprio simbolo (PI §§193-195).

131 Tali considerazioni lessicali erano già state espresse da Eike Von Savigny qualche anno prima (Savigny 1991, pp. 80-81).

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riportato Wittgenstein parli di abitudini e usi collettivi: del resto, seguire segnali stradali e dare ordini sono pratiche collettive, esattamente come giocare a scacchi coinvolge una tradizione e un insieme di insegnamenti condivisi. Queste sono le nostre pratiche, e si dà il caso che esse siano collettive. Si deve però da ciò concludere che Wittgenstein ci stia dicendo che queste pratiche debbano necessariamente esserlo? Stando alla mera evidenza testuale, non è affatto chiaro. Ricordiamoci che l’indagine grammaticale wittgensteiniana in questo frangente si occupa di scovare le circostanze sulla base alle quali la connessione tra regola e sua applicazione viene costituita (PI §197), e queste circostanze nei casi specifici presi in considerazione coinvolgono addestramento pubblico e abitudine. È bene notare come la questione si ponga, comunque, in termini differenti rispetto alla soluzione kripkeana, la quale, ricordiamolo, sulla base delle condizioni di asseribilità arriva a porre il giudizio di attribuzione inter-soggettivo a garanzia logica del seguire una regola, e ciò a prescindere dal fatto che la regola sia un’istituzione fondata su un addestramento condiviso (mai condizione in atto, enunciabile nel gioco reciproco di attribuzione delle regole) o un’abitudine. Siamo, quindi, già oltre Kripke, e torneremo su questo genere di considerazioni nel prossimo capitolo.

Il comunitarismo di Kripke riposa non tanto su PI §199, quanto su PI §202, che vale la pena citare:

Per questo ”seguire la regola” è una prassi. E credere (glauben) di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola “privatim”: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola.

(PI §202)

Secondo Kripke, questo passaggio attesta la soluzione scettica nel momento in cui distingue concettualmente tra credere di seguire una regola e seguirla effettivamente. La prassi di cui si parla in esergo (virgolettata, allo stesso modo che nel paragrafo precedente) è così letta come pratica sociale: solo se la pratica in questione è sociale è possibile distinguere concettualmente tra credere e agire correttamente. Secondo la ricostruzione esegetica di Baker e Hacker però, questo passaggio semplicemente

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anticipa la conclusione dell’argomento contro il linguaggio privato, e certo non la pone a conclusione della dialettica sulle regole, come attesterebbe il ruolo che la sezione aveva nelle versioni precedenti delle Ricerche. Kusch, dal canto suo, per quanto non ne contesti l’esegesi, ritiene che i due autori difettino di carità interpretativa, nel momento in cui negano qualsiasi ragione evidente che possa giustificare la presenza di questo paragrafo in un punto così specifico del testo (Kusch 2006, p. 253). Questa considerazione, in effetti, centra il punto: stando a Baker e Hacker, non si riuscirebbe davvero a capire il motivo per cui Wittgenstein abbia spostato un paragrafo da una parte all’altra del testo, lasciandone il significato invariato, a maggior ragione se consideriamo la pignoleria architettonica di cui fece sfoggio il filosofo viennese per tutta la sua produzione132.

Credo sia possibile individuare una via sicura tra la Scilla del comunitarismo kripkiano e il Cariddi dell’arbitrarietà interpretativa di Baker e Hacker, ricordando che il testo delle Ricerche è soggetto alle medesime costrizioni semantiche che l’indagine grammaticale sul linguaggio rivela man mano. Si tratta, infatti, di comprendere un paragrafo specifico alla luce del contesto in cui è collocato, determinante nella comprensione di qualsiasi segno linguistico. Sia Kripke, sia Baker e Hacker, al contrario, partono dal presupposto che il significato del paragrafo rimanga invariato da una versione all’altra delle Ricerche, ma sarebbe ben poco wittgensteiniano pensare che il significato sia completamente indipendente dal proprio contesto di enunciazione, dove il contesto, in questo caso, è la tessitura logica della dialettica sul seguire una regola. Lo dimostra PI §525, in cui Wittgenstein ci fa notare che si può bene comprendere un enunciato, senza sapere “di che cosa tratti” separato dal contesto o dalla narrazione in cui è collocato, così come le battute di un’opera teatrale radicano ogni sfumatura di significato nella storia che già conosciamo quando assistiamo a essa (Z §176)133. Non

132 Nei diari di Wittgenstein troviamo un’osservazione, datata 6 Marzo 1937, molto esplicita a riguardo: “Spesso trascrivo osservazioni filosofiche che ho fatto in passato nel posto sbagliato: qui non fanno il

loro lavoro! Esse devono stare là dove fanno per intero il loro lavoro!” (D, p. 94). A prescindere dai

riferimenti testuali espliciti, è piuttosto risaputa la metodologia di composizione di Wittgenstein durante il suo secondo periodo: un instancabile lavoro di rimaneggiamento e riconfigurazione continua di osservazioni sparse, che spesso venivano tagliate e incollate da un quaderno di appunti all’altro (Monk 1991).

133 Questo giro di osservazioni viene sviluppato da David Stern per rendere conto del motto posto in esergo alle Ricerche, tratto da un’opera di Nestroy, drammaturgo austriaco del XIX secolo, un motto spesso trascurato, di cui non si riesce tuttora ad avere una comprensione esauriente (Stern 2004, p. 69). Anche in questo caso, un’espressione che nel contesto dell’opera e della sua storia assumeva un

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bisognerebbe quindi dare troppa importanza all’esegesi di PI §202, e cercare di rendere conto della sezione alla luce del contesto dialogico in cui è collocata nella versione finale del testo.

Stando a queste premesse, suona naturale leggere il paragrafo alla luce della sezione precedente, in cui, ricordiamolo, Wittgenstein afferma che c’è un modo di seguire una regola che non è un’interpretazione, ma che si manifesta in ciò che chiamiamo “seguire la regola”. Questo modo è specificato in PI §202: “Seguire una regola” è una prassi. La grammatica del concetto, il modo in cui il concetto funziona, connette la nozione di seguire una regola con quello di una pratica, di una forma di vita in cui è attestabile un’abitudine (PI §198) che fornisce le condizioni circostanziali per la sua applicazione. Ecco quindi, la precisazione sul credere di seguire una regola che tanto ci dava problema: seguire una regola non descrive affatto qualcosa che avviene nella mente di chi applica la regola. Possiamo essere intimamente convinti di seguire una regola (in maniera analoga: diciamo spesso “Adesso lo so fare!” quando pensiamo di aver compreso una regola, e spesso veniamo smentiti dalla nostra incapacità di utilizzarla; PI §151), ma tale sorta di accompagnamento psicologico, che spesso caratterizza le nostre pratiche, non è un criterio sufficiente per determinare se seguiamo la regola o no, così come non lo è fornire un’interpretazione o produrre qualsiasi atto che induca una scelta (M. McGinn 1997, p. 125; Minar 1994, p. 70). Stando a questa lettura, quindi, non c’è alcuna necessità di assumere l’intera comunità a garante del nostro seguire le regole o meno, come pretendono di fare Kripke e Kusch134, senza allo stesso tempo correre il rischio di lasciare nell’indeterminato il paragrafo, come si teme di fare appoggiandosi a Baker e Hacker.

Lasciando da parte la questione esegetica, riguardo a come e quanto Kripkenstein sia compatibile con Wittgenstein, dedichiamoci ora a un problema teorico ben preciso, che, come vedremo, ha dato numerosi grattacapi agli interpreti: è possibile che un Robinson

significato ben preciso (essa attesta di primo acchito una forma di pessimismo anti-progressista), viene sradicata e posta a monito ambiguo di un’opera apparentemente estranea a questa tematica.

134 Al di là delle questioni esegetiche, c’è anche un’altra considerazione da fare. È opportuno notare che il comunitarismo che pone a pietra angolare della propria tenuta PI §202, inserisca la comunità come unica possibile alternativa alla privatezza della regola. Quest’alternativa però è chiaramente posticcia: oltre al privato e al socialmente condiviso, c’è anche il pubblico, e pubblici sono tutti i comportamenti

individuali manifesti, come, appunto, il comportamento linguistico. Possiamo affermare quindi che

seguire una regola sia una pratica pubblica, riconoscibile esternamente da terzi, senza essere costretti a pensare che debba essere anche socialmente condivisa (C. McGinn 1984, p. 79).

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Crusoe dalla nascita, un individuo preso in isolamento135 dalla propria comunità possa seguire regole? Non è nostra intenzione rispondere a tale quesito, che ci accompagnerà nello svolgimento di tutto il prossimo capitolo. A questo punto della discussione, cercheremo soltanto di capire se la risposta di Kripke sia ancora plausibile, anche alla luce della riabilitazione di Kusch.

Come sappiamo, la risposta di Kripke è negativa: l’attribuzione reciproca è parte integrante del concetto di regola, e quindi senza una comunità di riferimento, un Crusoe dalla nascita non può seguire alcunché. Al massimo, possiamo estendere i nostri criteri all’individuo solitario, e in tal modo integrarlo nella nostra comunità (WRPL, p. 89). Si badi bene: in questa prospettiva, seguire una regola, possiede una natura relativizzata alle comunità di riferimento; ovvero, ciò che seguire una regola significa, varia a seconda delle comunità che prendiamo in considerazione. Questo sembra sostenere Kusch, quando enfatizza il ruolo delle diverse forme di vita nella determinazione dei criteri pubblici del seguire una regola: diverse forme di vita, diversi criteri, e quindi, senza accordo comunitario che garantisca un terreno di raffronto comune, criteri diversi per seguire una regola; criteri di cui il nostro Crusoe, senza comunità, dovrebbe essere completamente sprovvisto (Kusch 2006, pp. 189-190).Baker e Hacker, di contro, hanno una differente opinione in merito: l’indagine grammaticale wittgensteiniana mira a delineare le connotazioni concettuali costitutive (nel suo lessico, interne) del concetto di “seguire una regola”, la quale si configura come una prassi (PI §202) un’abitudine (PI §§198, 199), si costituisce insieme al concetto di regolarità (PI §208), di concordanza (PI §224), e così via. Non ci sono criteri altri rispetto a quelli che l’indagine grammaticale porta alla luce (BH, p. 40).

Questo è forse il punto più delicato e fecondo della dialettica tra le due posizioni in campo. Da una parte, il lessico delle condizioni di asseribilità ci conduce a sostenere

135 È bene precisare che l’isolamento in questione non è un isolamento meramente fisico: questo capita spesso nelle nostre vite, e non ci dà problemi nel momento in cui il rapporto con l’altro è presente con una certa frequenza nella quotidianità. In Kripke, si parla piuttosto di un individuo preso in isolamento dalla società (WRPL, p. 89), ossia, di un individuo considerato in astratto da ogni rapporto con altri. Il livello di isolamento contemplato da Kripke, quindi, rimane, per così dire, nel pensiero: riguarda le condizioni di

pensabilità di un individuo che segue una regola. Il nostro Crusoe, di conseguenza, entra in campo come caso tramite cui saggiare la conclusione kripkeana: l’isolamento, in quest’accezione, diventa isolamento sociale in atto (Kusch 2006, p. 188).

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una forte accezione pluralista delle forme di vita136, con dietro l’angolo il rischio conseguente di relativismo; dall’altra, invece, l’indagine grammaticale ci conduce sul terreno sicuro del riconoscimento di un’invarianza di fondo nel comportamento umano, in grado di garantire la trasparenza di una comunità rispetto a un’altra, un nocciolo duro