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Addomesticazione, selezione e demolizione dell’umano Se l’insieme delle concezioni negative attribuite agli animali è stato

1.2 “Saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines" “Si, ho paura di quelle mani Non

1.3 Addomesticazione, selezione e demolizione dell’umano Se l’insieme delle concezioni negative attribuite agli animali è stato

necessario alla loro separazione ontologica dagli uomini e alla loro nientificazione, l’assimilazione degli uomini ai membri del mondo animale, quindi ad esseri ontologicamente inferiori destinati da secoli al maltrattamento, allo sfruttamento e all’uccisione, ha costituito il fondamento indispensabile alla loro disumanizzazione. È chiaro che più infime e degradate sono le vittime più facile è incoraggiare e giustificare la loro umiliazione, il loro sfruttamento e la loro distruzione. Una storia ricca di episodi di denigrazione e assimilazione dei nemici alle bestie insegna che, per una civiltà basata sul maltrattamento, sfruttamento ed uccisione animale, nessuna opera di distruzione umana può prescindere da quest’identificazione della vittima con la bestia. Infatti, dal momento che per la maggior parte delle persone è più facile uccidere un animale piuttosto che un altro essere umano, rendere le vittime “meno umane”, oltre che contribuire ad aumentare il livello di ferocia e di violenza loro riservato, rappresenta un presupposto indispensabile a facilitarne l’eliminazione.

Nel Seicento e nel Settecento, per esempio, si dissertò molto sulla natura bruta e animale dei negri, sulla loro sessualità bestiale nonché su tutti quegli elementi che consentivano di collocarli molto in basso nella scala gerarchica, vicino agli animali. Diffamazioni analoghe subirono gli indiani d’America abitualmente definiti “bestie selvagge” con tutta la violenza repressa e pronta a scatenarsi che questo termine racchiude. Nel suo resoconto dei primi anni della conquista spagnola, non a caso, Las Casas descrive le atrocità commesse dagli spagnoli contro gli indiani paragonandole proprio a quelle che, in Europa, venivano generalmente riservate agli animali. Anche gli europei che colonizzarono il Nord America mantennero lo stesso atteggiamento di disprezzo verso gli indigeni e, almeno fino a quando la loro distruzione non fu completata, il concetto di “bestie selvagge”, brute, peccaminose e pericolose restò il medesimo.

Nel corso dell’Ottocento persino gli scienziati contribuirono ad avvalorare i pregiudizi dei bianchi elaborando diverse teorie sulla disuguaglianza umana che collocavano l’uomo bianco al di sopra di tutte le altre razze ritenute inferiori. Il pensiero scientifico, applicando la credenza diffusa e “confermata” dalle misurazioni del cranio umano condotte dal patologo e antropologo francese Paul Broca (1824-1880), secondo la quale l’intelligenza era direttamente proporzionale alla grandezza del cervello, elaborò una scala gerarchica delle razze e delle classi sociali che collocava al suo vertice l’uomo bianco, considerandolo superiore a tutte le altre razze ritenute inferiori (indiani, negri ed ebrei) e che, più in generale, collocava l’uomo al di sopra della donna, il ricco ed eminente al di sopra del povero e mediocre. Nella scala gerarchica delle razze i negri, per la forma del loro cranio e lo sviluppo del loro cervello più grande dietro che davanti, erano collocati al di sotto di tutti gli altri, accanto alle scimmie.

Indagando sull’uso del meccanismo ideologico della metafora animale nel linguaggio e nella prassi politica è necessario dedicare un’attenzione in più all’ideologia nazionalsocialista che di questo dispositivo teorico ha fatto un uso massiccio. È soprattutto a partire dalle testimonianze dei sopravvissuti, e alla ricorrenza delle immagini e similitudini animali con le quali questi ultimi sono soliti descrivere la loro condizione di prigionieri nei campi di concentramento, che si ottengono prove cogenti di una loro radicale esclusione dall’umano e di una loro assimilazione alla dimensione bestiale. Una testimonianza vivida e lacerante di questa regressione- demolizione umana la si ritrova in Se questo è un uomo di Primo Levi: «tutti accorriamo alla baracca, e ci mettiamo in fila con le gamelle tese, e tutti abbiamo una fretta animalesca di perfonderci i visceri con l’intruglio caldo […]. Gli abiti di tutti, madidi di fango e di neve, fumano densi alla vampa della stufa, con odore di canile e di gregge».93

93P. Levi, Se questo è un uomo (1947), Einaudi, Torino 1992, p. 62. La nutrizione

gravemente insufficiente era stato il primo e più elementare dispositivo utilizzato per risucchiare e annientare ogni residuo d’identità fisica e dignità psichica dei prigionieri che, a causa della fame, si trasformavano in bestie capaci anche di azzuffarsi per qualche briciola di cibo. Ma in generale ogni espediente utilizzato nei lager non aveva altro scopo se non quello di ricordare ai detenuti la propria condizione di non-uomini. Cfr. “Metafore animali dell’annientamento” in B.

Il desiderio di migliorare le caratteristiche della popolazione umana si manifesta per la prima volta intorno al 1860, quando Francis Galton, scienziato inglese cugino di Charles Darwin, concentra i suoi studi sull’ereditarietà. Sarà proprio lui nel 1881 a coniare il termine eugenetica. Alla fine dell’Ottocento le teorie genetiche che dominano il pensiero scientifico si basano sull’assunto che l’ereditarietà è determinata da rigidi modelli genetici, dunque, poco o per niente influenzata dall’ambiente sociale. Gli scienziati danno ormai per scontata l’idea della disuguaglianza genetica tra gli uomini e classificando i gruppi umani in base alla cultura d’appartenenza ne etichettano alcuni come “inferiori” o, meglio, irrecuperabili in una misura tale da costituire una minaccia per la società. In un articolo pubblicato nel 1906 sull’American Journal of Anatomy,94

Robert Bennett Bean, un medico della Virginia, affermava sulla base delle misurazioni del cervello degli americani bianchi e neri da lui eseguite, che i neri rappresentano una razza intermedia tra l’uomo e l’orango. Nel 1907, su un numero della rivista American Medicine, un editoriale elogiava il punto di vista di Bean, affermando che «aveva posto i fondamenti anatomici a spiegazione del completo fallimento del tentativo di impartire ai negri un’istruzione superiore – il loro cervello non può comprenderla, esattamente come un cavallo non comprende la tabellina del tre».95 Anche

Charles B. Davenport, appassionato ricercatore avicolo e autorevole biologo, nominato direttore dell’American Breeders’ Association (l’ABA, nata nel 1903 come prima organizzazione nazionale che promuoveva la ricerca sull’ereditarietà e la genetica umana negli Stati Uniti riuniva scienziati e allevatori di bestiame di ogni parte del Paese), convinto come gli altri eugenetisti che la devianza sociale fosse geneticamente determinata e che la criminalità fosse il frutto di geni difettosi, definiva Accarino (a cura di), Antropocentrismo e Post-umano. Una gerarchia in bilico, Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 118.

94Cfr. C. Patterson, Un’eterna Treblinka, il massacro degli animali e l’Olocausto,

op. cit., p. 33.

l’eugenetica «scienza del miglioramento della razza umana».96

Sottolineando l’importanza della storia genetica delle persone, Davenport sosteneva il progetto di esaminare la storia familiare di tutti i possibili immigrati, era favorevole alla sterilizzazione forzata per le persone geneticamente anormali e si augurava che un giorno nessuna donna avrebbe accettato un uomo «senza prima conoscerne la storia biogenealogica», esattamente come un buon allevatore di bestiame non avrebbe scelto «un genitore senza pedigree per i suoi puledri o i suoi vitelli»,97 e nel 1914, in occasione della prima “National Conference on

Race Betterment”, spronò gli americani a comprendere «l’importanza di sposarsi, di sposarsi bene, e di avere una prole sana, forte e numerosa».98

Gli studi sulle famiglie cacogeniche, cioè con geni difettosi, costituirono l’oggetto della ricerca eugenetica americana e crearono il mito dell’immondizia bianca cioè la convinzione che i problemi sociali avessero un’origine genetica. L’assunto implicito ed esplicito di queste ricerche, che non mancavano di descrivere quanto osservato con termini tipici del linguaggio veterinario ed entomologico (i soggetti si accoppiano, migrano, nidificano con la loro covata in letamai dove crescono larve umane), era che alla parte cacogenetica della popolazione si sarebbe dovuto vietare il diritto alla riproduzione.

La soluzione principale proposta dal movimento eugenetico per controllare la riproduzione di individui deviati rispetto alle norme sociali accettabili, considerati quindi di peso per la società e pericolosi per la civiltà, fu, ispirandosi proprio alle tecniche di allevamento degli animali da sempre improntate a far crescere e riprodurre solo gli individui migliori, quella della sterilizzazione forzata dei soggetti ritenuti manifestamente non idonei di propagare la loro discendenza. Davemport propose, inoltre, una politica dell’immigrazione che escludesse individui e famiglie con storie ereditarie carenti, in modo che persone «deboli di mente, dementi,

96 Ivi, p. 89. 97Cfr. ivi, p. 90. 98Ibidem.

epilettiche, criminali, alcoliste e sessualmente immorali»99 potessero

essere identificate e potesse essere impedito loro di entrare negli Stati Uniti. Era davvero intollerabile che la nazione fosse più selettiva riguardo al bestiame importato che agli immigrati che lasciava entrare e, dato che molti eugenetisti americani erano apertamente antisemiti, la soluzione da loro proposta per il “problema ebraico” si concretizzò presto con le leggi restrittive sull’immigrazione emanate negli anni Venti (limitando notevolmente l’immigrazione dall’Europa dell’est e del sud, tali leggi ebbero successivamente effetti disastrosi per i molti ebrei che, negli anni Trenta, presagendo l’Olocausto, cercarono di emigrare).

La sterilizzazione forzata praticata negli Stati Uniti, che negli anni Trenta contava tra i suoi più ferventi sostenitori rettori di università, prelati, specialisti nel campo della salute mentale e direttori scolastici, divenne presto un modello esemplare per tutte le altre nazioni che accoglievano con favore l’idea di sterilizzare “i loro soggetti inferiori”. Anche la Germania, nonostante la prima guerra mondiale avesse schierato tedeschi e americani su due fronti politicamente opposti, rimase talmente impressionata dai progressi compiuti dall’eugenetica americana, inclusa la sterilizzazione, la segregazione razziale e le restrizioni sull’immigrazione (nel 1912, di ritorno dal Primo congresso internazionale di eugenetica di Londra, A. Ploetz, fondatore dell’eugenetica tedesca, dichiarava ad uno dei principali quotidiani tedeschi che gli USA erano i leader mondiali nel campo dell’eugenetica), da approvare nel ’33 le leggi sulla sterilizzazione, subito dopo l’ascesa al potere dei nazisti. Sono sufficienti pochi anni perché il progetto eugenetico della Germania nazista superi rapidamente quello degli Stati Uniti. Tuttavia, è bene sottolineare che lo sviluppo di questo settore in Germania avvenne prima dell’ascesa al potere di Hitler, infatti, grazie al contributo di Davemport e al supporto finanziario alla ricerca eugenetica da parte delle fondazioni americane, negli anni successivi alla prima guerra mondiale gli eugenetisti tedeschi rientravano pienamente all’interno del movimento eugenenetico internazionale mentre

l’eugenetica era già radicata nei circoli medici e scientifici tedeschi con il nome di igiene razziale. Nel 1920, per esempio, due stimati professori universitari, K. Binding e A. Hoche, sostenevano che la legge tedesca avrebbe dovuto permettere l’eliminazione “pietosa” dei pazienti «non meritevoli di vita», di quei soggetti che soffrivano cioè di «demenza incurabile», la cui vita senza scopo costituiva solo un peso per i loro parenti e per la società.100 Quando i nazisti salirono al potere, dunque,

erano già stati fondati più di venti istituti di igiene razziale e la disciplina veniva insegnata nelle facoltà di medicina della maggior parte delle università oltre a costituire il campo di ricerca privilegiato dei più prestigiosi istituti di antropologia e genealogia di Berlino e di Monaco. Se lo scopo “umanitario” dell’igiene razziale era la prevenzione delle forme di vita inferiori attraverso «la selezione […] delle forme superiori e l’eliminazione dei segmenti indesiderabili della popolazione»,101 la legge

per la sterilizzazione, approvata nel ’33 per i pazienti con disturbi mentali e fisici ricoverati in ospedali e case di cura statali, rappresentava il primo passo concreto dell’eminente progetto di pulizia razziale del nuovo governo nazista. Inizialmente, la nuova legge coinvolge i malati affetti da deficienza mentale congenita, schizofrenia, sordità, epilessia ereditaria e gravi deformità fisiche ereditarie, ma nel ’35, G. Wagner, medico capo del Reich, si dichiara favorevole all’estenzione della sterilizzazione anche agli ebrei, proposta che presto si rivelerà superflua per via dell’adozione da parte dei nazisti della “soluzione radicale” al problema ebraico.

All’emanazione della legge sulla sterilizzazione seguì l’istituzione di ben 181 tribunali per la salute ereditaria in tutta la Germania e l’obbligo per i medici tedeschi, pena la sanzione, di registrare ogni caso di malattia genetica di cui fossero venuti a conoscenza, oltre a quello di seguire un tirocinio di patologia genetica presso un istituto razziale.

Gli eugenetisti americani furono tra i maggiori sostenitori stranieri delle politiche razziali naziste e considerarono la Germania come la nazione in

100Cfr. ivi, p. 96. 101Ivi, p. 98.

cui la scienza dell’eugenetica aveva conosciuto la sua migliore applicazione pratica. Per comprendere la portata raggiunta dal movimento “umanitario” eugenetico in Germania basta dire che persino i film parteciparono al programma pedagogico di diffusione del messaggio della politica razziale nazista. Nei film si sosteneva che gli ebrei erano particolarmente inclini al ritardo mentale e all’immoralità e che le persone fisicamente e mentalmente menomate potevano essere equiparate ad animali, o considerate addirittura al di sotto di questi specialmente se paragonate ai cani da caccia e ai cavalli da corsa di razza pura, spesso esibiti a riprova del merito dell’allevamento selettivo.

Al pari di Davenport, e di altre eminenti figure del terzo Reich, anche H. Himmler, capo delle SS e principale organizzatore dell’Olocausto, si avvicinò all’eugenetica a partire dall’allevamento del bestiame. La sua esperienza nell’allevamento dei polli e i suoi studi in agraria lo convinsero del fatto che tutte le caratteristiche comportamentali sono ereditarie e che il modo migliore per plasmare il futuro di una razza, sia essa umana o animale, fosse quello di elaborare dei progetti di selezione atti a favorire gli elementi desiderabili a discapito degli indesiderabili. Anche R. W. Darré, uno dei principali ideologi del partito nazista, aveva studiato agraria e conosceva l’allevamento del bestiame e R. Hoss, un altro strenuo sostenitore dell’eugenetica e comandante di Auschwitz, possedeva una formazione agraria ed era un fanatico dell’agricoltura.

Il fatto che la loro passione per l’allevamento, la selezione e quindi l’uccisione del bestiame, oltre ad alimentare la loro ossessione per il miglioramento della razza e per l’eugenetica, si sia poi di fatto trasferita agli esseri umani, aprendo la strada al genocidio, è una conferma che la crudeltà storicamente perpetrata dall’uomo nei confronti degli animali prepari la strada ad ogni passo analogamente intrapreso poi sugli stessi esseri umani.

Agli inizi degli anni Quaranta, proprio quando si stava cercando una risoluzione definitiva al problema dei Mischlinge (cittadini tedeschi in parte ebrei), uno dei più importanti esponenti della gerarchia nazista, capo della cancelleria e segretario personale di Adolf Hitler, Martin Bormann,

scrisse «dobbiamo procedere lungo linee analoghe a quelle seguite per la riproduzione di piante e animali».102

Così nell’estate del 1942 Auschwitz, nato come piccolo campo di lavoro che Hoss e Himmler progettavano di trasformare, attraverso una rete di campi satelliti, nel più grande centro di ricerca agraria per i territori orientali, iniziò a pieno titolo la sua attività di centro eugenetico per il miglioramento della popolazione umana e animale della Germania, dotato sia di impianti per l’allevamento di bestiame che di un’area adibita allo sterminio di ebrei, zingari e altri subumani: il campo di Birkenau.

Il primo capitolo del genocidio nazista ebbe inizio prima dello sterminio di ebrei e zingari, precisamente quando nell’ottobre del ’39 Hitler dispose l’omicidio di massa dei disabili, procedendo al suo piano di liberazione della nazione dal “fardello” dei soggetti menomati che costituivano un motivo di disagio per il mito della supremazia ariana, attraverso un programma di eutanasia successivamente definito dall’atto d’accusa del Tribunale medico al processo di Norimberga come «l’eliminazione segreta e sistematica di anziani, malati di mente, malati incurabili, bambini deformi e altre persone, per mezzo di gas, iniezioni letali e diversi altri strumenti all’interno di case di cura, ospedali e manicomi».103

L’operazione T4, come venne definita dal Reich, ebbe inizio con i bambini e proseguì con gli adulti. Per i nazisti si trattava semplicemente di una transizione logica, dunque di un completamento del programma di limitazione delle nascite dei bambini non adatti già iniziato con la sterilizzazione. Un comitato di medici esperti appositamente arruolati aveva il compito di selezionare i pazienti. I bambini, una volta identificati e ricoverati, venivano uccisi nei modi più svariati all’interno dei reparti dagli stessi medici e infermieri. Gli adulti, invece, dovevano essere trasferiti in luoghi appositamente adibiti dove l’uccisione per mezzo di monossido di carbonio era affidata a dei “tecnici” specialisti, gli stessi che in seguito, insieme a gran parte dell’attrezzatura utilizzata, verranno trasferiti in

102Ivi, p. 110. 103Ivi, p. 112.

Polonia per allestire i campi di sterminio, metterli in funzione ed addestrarne il personale. È stato stimato che con l’operazione T4, dal ’39 fino a ben oltre il ’41, furono eliminati complessivamente tra i centoquaranta e i centottantamila pazienti.104

La culla del “pensiero tecnico” degli addetti ai programmi di eliminazione, prima dell’operazione T4, poi dei campi di sterminio, fu ancora una volta o la passione per gli studi in agraria o l’esperienza nell’allevamento del bestiame. Se, come vuole l’assunto, la persecuzione e l’uccisione degli animali avrebbero fornito il presupposto per la persecuzione e l’uccisione umana, il fatto che alcuni di loro avessero anche un trascorso da macellaio, come alcuni fuochisti e come K. Franz, ultimo comandante di Treblinka, confermerebbe che per molti boia nazisti la passione e l’esperienza dello sfruttamento e della macellazione degli animali si era rivelata, oltre che un modello, un eccellente tirocinio.

Lo storico dell’Olocausto Raul Hilberg scrive che gli organizzatori del genocidio si dedicarono assiduamente alla ricerca di metodi e meccanismi – questo rappresenta senz’altro l’aspetto più amaro e ironico dell’Olocausto – più umanitari che «impedissero l’emergere di comportamenti incontrollati e al tempo stesso alleggerissero l’enorme impatto psicologico che gravava sugli uccisori».105 Anche Hitler, quando

nel ’39 discusse con K. Brandt, capo del programma T4, chiese espressamente quale fosse il modo più umanitario per eliminare i malati mentali tedeschi. La risposta fu che tra tutti il modo migliore consisteva sicuramente nell’uso del monossido di carbonio e solo allora Hitler concesse la propria autorizzazione al suo utilizzo. Hilberg ci tiene a sottolineare che questi metodi “umanitari” sviluppati «non per il bene delle vittime, ma per quello dei carnefici»,106 costituivano un fattore

fondamentale per il successo delle operazioni di sterminio di massa poiché garantivano agli esecutori di svolgerle senza esitazione. A proposito di

104I. Kershaw, Hitler: 1936-45 Nemesis, Norton, New York 2000, trad. it. Hitler:

1936-1945, Bompiani, Milano 2001, pp. 261, 430. Cfr. ivi, p. 114.

105Ivi, p. 130. 106Ivi, p. 148.

questi meccanismi non è certamente un caso che gli ebrei venissero fatti spogliare nudi e raggruppati insieme come una mandria di mucche o di pecore prima di essere sterminati. La nudità e il raggruppamento, comportamenti per nulla consueti della specie umana, alludono proprio a una pre-disumanizzazione della vittima, alla necessità di renderla meno umana per renderne poi più facile l’uccisione.

Malgrado le due operazioni di sterminio (animale o umano) differiscano, e per l’identità delle vittime e per lo scopo delle uccisioni, non poche sono le caratteristiche comuni. Esattamente come accade nei mattatoi, in cui ogni operazione di uccisione di animali “adulti” e “bambini” è gestita dal ritmo di una catena di montaggio che riduce l’azione del boia a quella di un semplice complice di un infinito e inarrestabile processo di produzione, anche nei centri di uccisione rapidità ed efficienza vennero considerati indispensabili per il buon esito delle operazioni. Rendere le procedure dello sterminio di massa rapide, meccaniche, routinarie, ripetitive e programmate minimizzava il rischio di manifestazioni di panico e resistenza che avrebbero potuto interromperne la fluidità e quindi l’efficienza, ma soprattutto contribuiva a soffocare l’insorgenza di scrupoli morali negli esecutori delle uccisioni.

Secondo le testimonianze, le fucilazioni erano eseguite con una tale fretta che molte delle vittime cadevano o venivano gettate nelle fosse ancora vive mentre al loro interno un groviglio contorto di corpi straziati «continuava a muoversi, sollevandosi e abbassandosi».107 I bambini venivano strappati

dalle braccia delle madri che supplicavano pietà e freddati con un colpo alla nuca, sempre che il tedesco di turno non decidesse di farli a pezzi sotto ai loro stessi occhi.

La stessa meccanica indifferenza veniva mostrata anche durante l’iter seguito nelle uccisioni con il monossido di carbonio. Nell’attesa di finire anche loro nelle camere a gas, quindi che fossero ultimate le lunghe operazioni di smaltimento del “gruppo” precedente per consentire l’ingresso al “gruppo” successivo, anche i bambini piccoli venivano lasciati