La questione animale nella letteratura
3.2 Età di ferro
Pubblicato nel 1990 e con il suo ineludibile riferimento macrocontenutistico al racconto lungo La morte di Ivan Il’ic,315 una delle
opere più celebrate di L. Tolstoj, Età di Ferro316 deve probabilmente il
313 L. Fiorella, Figure del male nella narrativa di J. M. Coetzee, Edizioni ETS,
Pisa 2006, p. 31.
314 «Quando il narratore apre la bottiglia, il genio esce nel mondo, e rimandarlo
dentro non è uno scherzo […]: tutto considerato meglio che il genio rimanga nella bottiglia. […] sarebbe meglio per il mondo se il genio rimanesse imprigionato». J. M. Coetzee, Il problema del male in Elisabeth Costello (2003), trad. it. (a cura di) M. Baiocchi, Einaudi, Torino 2005, p. 120. Se Fiorella individua nella narrativa di Coetzee quella che definisce una fenomenologia del male, non lo fa tanto per una crudeltà presente nei contenuti, quanto per quella presente in una tattica narrativa caratterizzata dalla «riduzione della parola a gesto», dall’«eliminazione del dettato» e dal «suggerimento di un voler dire che non viene mai detto». Cfr. L. Fiorella, Figure del male nella narrativa di J. M. Coetzee, op. cit., p. 22.
315 Pubblicato per la prima volta nel 1886 anche questo racconto di Tolstoj
ripercorre analogamente le tappe di una malattia allo stadio terminale all’insegna di quello che, esattamente come accade in Età di ferro, si potrebbe definire come un rapporto maestro-discepolo. Il’ic viene aiutato ad accettare la morte e addirittura a desiderarla come risposta risolutiva all’enigma della vita dall’unica persona che (come a suo tempo farà Vercueil) senza troppe parole né astrazioni sarà in grado di dargli conforto, il giovane servo Gerasim.
316J. M. Coetzee, Age of Iron (1990), trad. it. Età di ferro (a cura di) C. Concilio,
titolo al mito delle Cinque Età di Esiodo (Le opere e i giorni) che divide il tempo della storia umana in cinque fasi: l’infanzia dell’uomo detta età dell’oro, in cui non esistono malattie e sofferenze; poi, in successione, passando per l’età dell’argento, del bronzo e degli eroi si giunge all’ultima, l’età del ferro, una fase di particolare durezza per la storia umana, esacerbata dal dolore, dalla sofferenza e da un’estrema fatica di vivere.317
Età di ferro è un romanzo caratterizzato da una narrazione in prima persona che gli conferisce l’aspetto di un romanzo epistolare privo, però, della datazione precisa che denota il genere e che di solito è utilizzata per introdurre le diverse lettere. Il risultato è quello di una lunga lettera d’addio che quasi con intento testamentario un’anziana signora di Cape Town, Elisabeth Curren, a cui è stato diagnosticato un cancro alle ossa allo stadio terminale, lascia in eredità a sua figlia emigrata dieci anni prima in America per non dover assistere, impotente, agli orrori dell’apartheid. La lettera scritta in stile confessionale, come la stessa Elisabeth chiarisce nelle prime pagine, rappresenta insieme anche il tentativo di comprendere la propria vita318 e l’arrivo di una malattia percepita secondo uno stereotipo
che vede nel cancro, una delle più insidiose patologie della società industrializzata, una forma di autopunizione, nient’altro che una versione secolarizzata del castigo divino.319 La notizia della malattia viene percepita
dal principio come l’assurda e insensata sentenza di una morte già avvenuta che deve solo manifestarsi pienamente e che, proprio come un alto muro di cinta la lascia da sola separandola dal resto dei viventi,320
317 G. Huggan, Evolution and Entropy in J. M. Coetzee’s Age of Iron, in Critical
Perspectives on J. M. Coetzee, edited by G. Huggan & S. Watson, Macmillan,
London 1996, pp. 191-212.
318 «Ma a chi sto scrivendo allora? La risposta: a te. Eppure, a te no; a me; a te
che sei in me». J. M. Coetzee, Età di ferro, op. cit., p. 14
319Ho un cancro per tutta la vergogna che ho sopportato in vita mia. Ecco come si
prende il cancro: per l’odio contro se stessi il corpo s’incattivisce e comincia a rodersi». Ivi, p. 150
320«Una brutta notizia, ma era solo mia, per me, soltanto per me […]. – Grazie,
dottore – ho detto. –faremo tutto il possibile – ha risposto lui – affronteremo il problema insieme. – Eppure, dietro quella maschera cameratesca, io avevo già intravisto la ritirata. Sauve qui peu. Lui è un alleato dei vivi, non dei moribondi». Ivi, p. 12.
prigioniera di un corpo che si è trasformato in un nemico da sconfiggere, un aguzzino che risucchia goccia dopo goccia la sua linfa vitale.321
Nel corso della narrazione il calvario della malattia si interseca con i disordini, le sanguinose repressioni, le ingiustizie, gli odi e le violenze che ogni giorno in Sudafrica uccidono centinaia di ragazzi di colore, per restituire brillantemente lo stato di corruzione e decadimento dell’intero corpo sociale e politico. Direi proprio che il cancro che sta lentamente e inesorabilmente divorando il corpo dell’anziana donna divenga, pagina dopo pagina, metafora della violenza distruttiva322 che la “garbata”
presenza dei bianchi sul territorio insedia nel cuore del giovane tessuto sociale, e nello stesso tempo, metafora di una colpa da scontare.323
Sebbene questo romanzo di Coetzee, riflettendo sull’esito fallimentare di ogni tentativo di attribuire un qualsiasi senso all’esperienza del dolore nonché sull’irriducibilità della morte a pensiero intellegibile, mostri come la morte e la malattia resistano sia alla penetrazione intellettuale che alla sublimazione artistica, è estremamente interessante notare come esso si concentri ed esplori il nesso tra il dolore e la sofferenza di una donna sconvolta dall’annuncio della propria morte e il suo avvicinamento al patimento e alla sofferenza altrui. Per E. Curren, come vedremo meglio tra
321«Quando sono in questo stato, sarei capace di mettere la mano sul tagliere di
legno e di tranciarla via senza esitare. Che mi importa di questo corpo che mi ha tradito? Mi guardo le mani e vedo solo uno strumento […] con cui afferrare le cose. E queste gambe, questi goffi orribili fuscelli: perché devo portarmele dietro ovunque? Perché devo portarmele a letto, notte dopo notte, […] per giacere là insonne in quel cumulo di ossa? […] e il cuore che pulsa, che batte: perché? Cosa hanno a che fare con me? Ci ammaliamo prima di morire, così da rendere più facile la separazione dal corpo. […] Tuttavia, questa prima vita, questa vita sulla terra, […] ce ne potrà mai essere una più bella? Nonostante tutto il dolore e la disperazione e l’odio non ho ancora smesso di amarla». Ivi, pp. 20-21.
322Come il cancro che la divora così i New Africans del partito nazionalista sono
descritti con i toni apocalittici di una «piaga di nere locuste che infestano questa terra, che divorano tutto senza sosta; divoratori di vite» e come i potenti antidolorifici che E. è costretta ad assumere sono causa di un’effimera sensazione di torpore e stordimento, così gli slogans Afrikaner penetrano ossessivamente nelle case attraverso radio e televisioni per privare della capacità di provare emozioni e di pensare, per «stupire: annientare i sentimenti; inebetire, istupidire, sbalordire». Ivi, pp. 36-37.
323 «– Ho un cancro al cuore […] L’ho preso bevendo dalla coppa dell’amarezza
[…] Probabilmente lo prenderete anche voi un giorno. È difficile sfuggirgli». Ivi, p. 161.
poco, quest’incontro con l’alterità è duplice. Da una parte, infatti, troviamo Florence, la domestica di colore con il figlio Bechi, mentre dall’altra Vercueil, vagabondo senzatetto, scarto della società e non a caso personaggio animalizzato. Come si evince subito dai toni e dalle sfumature di questa duplice relazione l’intento perseguito da Coetzee, fin troppo spesso accusato dalla critica per aver tralasciato di prestare la dovuta attenzione ai disordini, ai maltrattamenti e alle repressioni sanguinose dell’apartheid, veicolandola forse più verso la questione del maltrattamento animale, sembrerebbe proprio quello di rappresentare e restituire ai lettori, non tanto e non solo la verità di quella che per lui è, per certi versi, una sempre plausibile inversione di tendenza dei tradizionali rapporti di potere bianchi-neri, intesa, dunque (qui come anche in altri suoi romanzi quali Vergogna o anche Nel cuore del Paese), nei termini di un sempre possibile mutuo rovesciamento dei panni dell’oppresso in quelli dell’oppressore, quanto piuttosto quella relativa ai tanti altri esseri viventi eternamente condannati dal sistema ad una sofferenza senza appello e senza alcuna possibilità di rivalsa: stiamo parlando della sofferenza animale.
Lo stesso giorno in cui ha ricevuto la comunicazione della diagnosi di tumore allo stadio terminale,324 E. Curren fa un incontro che si rivela fin
da subito molto significativo.325 Tra cartoni e bottiglie un barbone
sconosciuto che odora di urina e di liquore, un “derelitto umano” che comparso chissà da dove dice solo di chiamarsi Vercueil, si è letteralmente accampato insieme al suo fedele e inseparabile cucciolo di collie nel giardino di casa sua. Poche pagine più avanti veniamo messi al corrente del fatto che Elisabeth, ex professoressa di lettere classiche, sta leggendo un racconto di Tolstoj, «non la famosa storia sul cancro»326 che abbiamo
già citato e che E. dice di conoscere fin troppo bene, bensì quello intitolato
324 «Una creatura in visita che ha scelto tra tutti proprio questo giorno per
importunarmi». Ivi, pp. 11-12.
325«Era più che una coincidenza. Mi domandavo se […] non fosse, […] un angelo
venuto per mostrarmi la via. Ivi, p. 173.
Di che vivono gli uomini (1881), uno dei Racconti popolari dello scrittore russo. Nella storia un povero calzolaio soccorre per puro spirito caritatevole un giovane uomo, nudo e senza dimora, senza sapere che si tratta di un angelo caduto dal cielo che prima aveva il compito di traghettare le anime dalla vita alla morte. In diversi punti del romanzo, seppur passando da considerazioni idealizzate su Vercueil ad altre dalle note decisamente più ironiche, ciniche e disincantate327 con le quali
costruisce e decostruisce costantemente il mito dell’angelo messaggero, E. scorge da subito in quest’uomo sbucato fuori dal nulla l’essere incaricato di mostrarle la via, di svelarle il significato della sua vita. Come tutti i personaggi che nei romanzi di Coetzee hanno il compito di destabilizzare le grandi certezze della coscienza umana anche Vercueil non parla molto, non fa domande e non ha messaggi o soluzioni da proporre,328 ma è l’unico
che, con la sua forza e insieme la sua debolezza, schivo dei problemi come delle responsabilità, accetta di essere presente fino all’ultima pagina.
Accettando la presenza improvvisa di questo derelitto sconosciuto nella propria vita E. accetta di imparare a liberarsi delle prescrizioni morali329
proprie del gruppo sociale dominante a cui lei stessa appartiene e, in vista di questo nuovo sodalizio, di rielaborare i propri giudizi morali all’insegna di un nuovo equilibrio. Presenza sottile e ineffabile330 del tutto impossibile
da decifrare, ma di cui si fida e da cui, fin dal primo momento, trae
327 «Ma non l’ho scelto io. Lui ha scelto me. O forse ha semplicemente scelto
l’unica casa senza cane da guardia. Una casa di gatti». Ivi, pp. 19-20. Ancora: «Non un angelo, certo. Un insetto, piuttosto, che sbuca fuori dal battiscopa per rifornirsi di briciole quando la casa è sprofondata nel buio». Ivi, p. 21. «Quante possibilità ci sono che io passeggiando per Mill Street trovi il mio angelo da soccorrere e da portare a casa? Nessuna credo». Ivi, p. 22. E in ultimo: «Naturalmente […] non lo è, non può esserlo, lo so bene». Ivi, p. 173.
328«– beva un sorso – ha detto mentre stappava la bottiglia. […] È così, dunque,
ho pensato? Tutto qui? È così che Vercueil mi indica il cammino?». Ivi, p. 128.
329«Sin dal primo momento, quando l’ho trovato dietro al garage nel suo rifugio
di cartone, addormentato, in attesa, non ho capito niente. Seguo a tentoni la mia via lungo un passaggio che diventa sempre più buio». Ivi. p. 137.
330«E se non proferisce parola, è perché, mi dico, agli angeli non è dato parlare.
L’angelo cammina avanti, la donna segue. Lui ha gli occhi aperti, lui vede; lei ha gli occhi chiusi, è ancora rapita dal sonno che la lega al mondo. Ecco perché continuo a rivolgermi a lei per farmi guidare, per avere aiuto». Ivi, p. 173.
conforto,331 E. decide di affidare inspiegabilmente332 a Vercueil i pensieri
dei suoi ultimi giorni e, insieme, l’incarico di spedire le lettere333 che scrive
ogni giorno per sua figlia quando lei non sarà più in grado farlo. In questo senso, anche attraverso il filtro del personaggio del romanzo di Tolstoj, la figura di Vercueil si può leggere come quella dell’angelo-Caronte che traghetterà E. al di là delle acque334 assicurando, malgrado le sue vesti di
messaggero silenzioso, la sopravvivenza delle sue parole. Resistendo fino alla fine alla tentazione di ricevere consolazione dalla figlia per la sua morte imminente la lettera rappresenta, dunque, l’ultimo incerto tentativo di sopravviverle, di superare i limiti della mortalità.
Non potendo verificare personalmente che l’esito della spedizione vada a buon fine, E. è costretta a fare affidamento su un messaggero capace di garantire la consegna della missiva. Ma perché questa scelta di onorare di una fiducia che non merita colui che è solo un vagabondo, un alcolizzato e un barbone che rifugge programmaticamente ogni legame e ogni responsabilità? Perché in Vercueil, naufrago, outcast, derelitto umano privo di rapporti con il presente, Mrs Curren vede il riflesso di se stessa, del proprio stato di derelizione, di tossicodipendenza (non si dimentichi degli analgesici che lei assume per sopportare il dolore), di abbandono e di sofferenza. Da questo punto di vista affidare la consegna delle lettere alle mani di Vercueil significa consegnarle alla figlia con le sue stesse mani.335
331 «Guarda ma non giudica. C’è sempre un velo di torpore dovuto all’alcol
intorno a lui. L’alcol […] Ci aiuta a perdonare. Lui beve e diviene accondiscendente. Tutta la sua vita è uno scendere a patti». Ivi, p. 88.
332 «Affido la mia vita a Vercueil perché la faccia sopravvivere. Ho fiducia in
Vercueil perché non ho fiducia in lui. Lo amo perché non lo amo. Poiché lui è un debole fuscello io a lui chiedo sostegno». Ivi, p. 137.
333 «Questi sono scritti personali, lettere private. Sono l’eredità di mia figlia.
Tutto ciò che posso darle, […]. Non voglio che nessun altro le apra e le legga». Ivi, p. 39.
334 «Da quando ci siamo incontrati […] sono rimasta sulla sponda del fiume ad
aspettare il mio turno. Aspetto qualcuno che venga e mi conduca dall’altra parte. […] Lo vede anche lei? Non ha risposto». Ivi, pp. 182-183.
335L’identificazione è resa bene da questo passo: «Perché scrivo di lui? Perché lui
è e non è me. Perché nello sguardo che mi rivolge vedo me stessa in un modo che va raccontato. […] Quando scrivo di lui scrivo di me. Quando scrivo del suo cane scrivo di me; […]». Ivi, pp. 16-17.
Quando il romanzo porta la scena su Florence, la domestica di E. ritornata a lavoro dopo un periodo di vacanza, veniamo messi al corrente dei disordini che stanno accadendo a Guguletu; disordini di cui radio e televisione non dicono nulla,336 ma che ogni giorno mettono a rischio la
vita del figlio di Florence insieme a quella di tanti altri giovani ragazzi come lui. Un feed back, per nulla casuale, riporta la memoria di E. a un sabato di qualche anno prima quando aveva accompagnato Florence a Brackenfell. Qui, è già la seconda volta nel romanzo,337 Coetzee restituisce
l’immagine di E. rimasta profondamente impressionata dalla cruedeltà del lavoro svolto dal marito di Florence, dalla meccanicità con cui lui e i suoi colleghi procedevano alla macellazione dei polli:
«non riuscivo a dimenticare l’immagine del pollaio, dell’allevamento industriale, dell’impresa dove lavorava il marito della donna con cui vivevo fianco a fianco, del recinto dove giorno dopo giorno si aggirava su e giù […] respirando sangue e piume, in mezzo allo strepitio di atroci e rochi lamenti […]. Pensavo a tutti gli uomini sparsi nella vastità del Sudafrica che, mentre io sedevo a guardare fuori dalla finestra, stavano uccidendo polli».338
336 «Dei disordini nelle scuole la radio non dice niente, la televisione non dice
niente, i giornali non dicono niente. Nel mondo che ci prospettano, tutti i bambini del paese siedono felicemente tra i banchi e vengono istruiti […] Quello che so dei fatti di Guguletu dipende esclusivamente da quello che mi racconta Florence […] In questo paese il fuoco cova sotto la cenere; […] la mia attenzione è tutta rivolta verso l’interno, verso la cosa […] che si fa strada nel mio corpo. Un’occupazione vergognosa, e in tempi come questi persino ridicola […] Eppure non posso farci nulla. Guardami!, vorrei gridare a Florence. Anch’io sto bruciando!». Ivi, pp. 44-45.
337 La prima ci ha messo al corrente della morte estremamente dolorosa dei
conigli di Becki: «Sul fondo della gabbia c’era un’accozzaglia di ossa imbianchite, incluso lo scheletro intatto di un coniglio, con il collo inarcato all’indietro in un’ultima contorsione. – Conigli – ho spiegato. – Appartenevano al figlio della domestica. Gli ho permesso di tenere qui le bestiole. Po c’è stata una qualche sbandata nella sua vita. si è dimenticato di loro e sono morti di fame. Io ero in ospedale e non ne sapevo nulla. Quando sono tornata mi sono infuriata nello scoprire quale agonia si era protratta del tutto ignorata in quest’angolo di giardino. Creature che non possono parlare, che non possono neppure
ribellarsi». Ivi, p. 28. (Corsivo aggiunto).
338Ivi, p. 50. E ancora: «Un paese che rigurgita sangue. Il marito di Florence in
cerata gialla e stivali che sguazza nel sangue. Buoi che stramazzano, le gole squarciate da cui zampilla nell’aria un ultimo fiotto come spruzzi esalati dalle balene». Ivi, p. 69. «Così difficile, eppure così facile: uccidere, morire». Ivi, p. 48.
Se è vero quanto dichiarato da Horkheimer, e cioè che «l’insensibilità dell’uomo moderno di fronte alla natura è solo una variante dell’atteggiamento pragmatico caratteristico di tutta la civiltà occidentale»,339 allora, probabilmente, l’analogia con il meccanico e
insensibile maltrattamento degli animali viene utilizzata da Coetzee proprio con l’intento di invitare alla riflessione su quell’atteggiamento che nella nostra società sottende il fondamento più radicato – “l’ultima spiaggia” forse – della perversa e acefala indifferenza della coscienza umana che lì persevera ancora del tutto indisturbata.
A questo punto il racconto ritorna al tempo presente e nello specifico all’episodio di pestaggio di Vercueil ad opera di Bheki e John. Inizialmente E. è profondamente indignata dall’orgoglio e dall’indifferenza con cui genitori come Florence autorizzano impunemente nei figli tali atteggiamenti340 di prepotenza. Poi però, quando per una serie di
circostanze, quali l’incidente di John e la scomparsa di Bheki, si troverà nel bel mezzo di uno scenario di devastazione, l’esperienza sarà talmente sconvolgente e destabilizzante341 da costringerla ad una profonda
riconsiderazione del giudizio con cui aveva osato biasimare Florence.342 La
339M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale
(1947), op. cit., p. 93 in G. Ditadi, I filosofi e gli animali, op. cit., p. 257.
340«prendono a calci e pestano un uomo […] che è più vecchio di loro […] perché
beve […] danno fuoco alla gente e ridono mentre muore tra le fiamme». Ivi, p. 55.
341 «Gruppi di uomini si davano da fare per recuperare qualcosa dalle baracche
bruciate, […] si davano da fare per cercare di estinguere il fuoco; o almeno così avevo pensato, finché sbalordita ho capito che quelli non erano salvatori, ma incendiari […] Era da qui, dalla gente raccolta […] che proveniva il gemito. Gente a lutto, […] incuranti di proteggersi, a guardare la distruzione. […] Ma davvero tutto questo succede a me? Ho pensato. Che cosa ci faccio io qui? […] Non v’era cosa che desiderassi di più che salire in auto e chiudermi lo sportello alle spalle, per lasciare fuori tutto quel mondo minaccioso di odio e violenza». Ivi, pp. 100- 102.
342 «Florence è un giudice. Dietro gli occhiali i suoi occhi sono immobili,
misurano tutto. Un’immobilità che ha già stillato nelle figlie. La corte è il luogo deputato a Florence; sono io ad essere sotto processo». Ivi, p. 147. «A chi appartiene la voce della saggezza, signor Vercueil? A me, credo. Eppure, chi sono
io, per avere addirittura una voce? Come posso incitarli a voltare onorevolmente
le spalle a quel richiamo? Che cosa mi è dato fare se non sedere in un angolo con la bocca chiusa? Io non ho voce; l’ho perduta molto tempo fa; forse non ne ho mai avuta una. Non ho voce, ecco tutto. Il resto dovrebbe essere silenzio. […] Molto tempo fa è stato commesso un crimine. Quanto tempo fa? Non lo so. Ma