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Riflessioni sull'alterità animale: un percorso tra letteratura e filosofia.

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“Orietur in tenebris lux tua, et caligo tua erit sicut meridies”.

Isaia, 58, 10.

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“Il tagliaerba s’era spento, in ginocchio ho scoperto Un riccio incastrato alle lame, Ucciso. Si trovava nell’erba alta. Lo avevo già visto, e anche nutrito, una volta. Ora avevo dilaniato il suo mondo discreto Senza rimedio. Seppellirlo non serviva: Il mattino dopo mi sono alzato e il riccio no. Il primo giorno dopo una morte, la nuova assenza È sempre lo stesso; dovremmo essere attenti Uno dell’altro, dovremmo essere gentili Mentre ancora siamo in tempo”.

Philip Arthur Larkin (Il tagliaerba, 12 luglio 1979).

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Introduzione

L’atteggiamento verso il mondo degli animali nella cultura occidentale è sempre stato ispirato a sentimenti d’indifferenza, sfruttamento e crudeltà tali che l’uomo ha potuto abusare di questi esseri più deboli e indifesi senza porsi mai alcun limite, interagendo con loro quasi fossero “cose” prive di consapevolezza, sensazioni e sentimenti.

È a partire da una realtà esperienziale ricca di incontri-scontri con animali viventi che prende corpo questa mia riflessione sugli animali: una realtà che quasi come un corto circuito o come un antidoto all’antropocentrismo lascia sullo sfondo quella più comune in cui gli animali, intesi per lo più come corpi immobili o come oggetti dimenticati, si accalcano numerosi a popolare lo sterminato ed indiscusso sistema umano. Quale posto occupano la sofferenza e il dolore di questi “altri” esseri viventi, a noi così tanto simili, all’interno del sistema sociale? Cosa ha contribuito alla secolare costituzione istituzionalizzata di un certo tipo di rapporto uomo-animale, un rapporto univoco di forza e potere, per cui è reale, oltre che possibile, questo nostro poter restare del tutto indifferenti davanti all’agonia dell’alterità animale? E ancora, non è forse possibile individuare un’analogia tra questo acefalo sentimento di indifferenza manifestato nei confronti del dolore e della sofferenza animale e quello manifestato nei confronti del dolore e della sofferenza umana? Sebbene, in un tempo come il nostro, caratterizzato da un crescente bisogno di rafforzare i diritti degli uomini a partire dalla costatazione di quella che è una loro lenta, ma inesorabile, erosione, possa apparire “frivolo” occuparsi di un tema come quello della sofferenza animale, obiettivo di questo lavoro sarà proprio quello di tentare di riuscire ad aggirare l’elusività comunemente adottata per giustificare il maltrattamento animale mostrando come, in realtà, queste due forme di maltrattamento, umano ed animale, siano intimamente connesse. Ritengo, infatti, che solo a partire da una seria

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riconsiderazione della questione e del benessere animale, quindi del rispetto per la vita in genere, sia veramente possibile rifondare e rafforzare anche le basi per il rispetto e il benessere di quella umana.

Se, nel corso dello sviluppo storico e delle culture che ne derivano, la riduzione dell’animale a bestia e la sua reificazione a mero oggetto-strumento sottolinea la stretta analogia tra le modalità caratteristiche dei rapporti uomini-animali e quelle tra uomini e altri uomini, allora anche questa riflessione tenderà a dimostrare, già a partire dall’analisi di alcuni atteggiamenti tradizionalmente radicati e fin troppo scontati nella nostra società, come ogni crimine, ogni ingiustizia, violenza o indifferenza comunemente manifestata al cospetto dell’animalità morente, costituisca, almeno potenzialmente, il preludio di un orrore istituzionalizzato anche nei confronti degli esseri umani. Secondo questa linea di pensiero, dunque, non esiste alcuna differenza tra le sofferenze inferte, nel corso della nostra storia, dall’uomo agli animali e quelle inferte dall’uomo ad altri uomini e, contrariamente da quanto forse ci si potesse immaginare, entrambi questi mali trovano la loro radice comune proprio nella legge umana, la legge della Ragione. Vagliando la possibilità di superare l’impostazione tradizionale della nostra cultura, inclusa l’arroganza che pone l’uomo al centro di un sistema concettuale che lo ha ontologicamente e radicalmente separato dagli animali, vorrei piuttosto provare a ritrovare la via dell’umanità, o meglio, di quel sentimento che ad essa dovrebbe essere maggiormente connaturato, quello dell’empatia, il solo effettivamente in grado di favorire la scoperta di un’unità del mondo e, di conseguenza, capace di rendere possibile la comunicazione simpatetica tra tutte le creature, anche tra quelle biologicamente più diverse.

Questa riflessione sull’alterità animale e sul rapporto con essa non potrà fare a meno di parlare anche di uomini, cosa che avverrà in una duplice direzione. In prima battuta, e in accordo con l’itinerario della tradizione filosofica occidentale prevalente (Aristotele, Agostino, Tommaso d’Aquino, Descartes) che si rifiuta categoricamente di accettare ogni somiglianza ontologica tra uomini e animali, parlare di animali e di alterità animale, intesa in genere come presenza “altra” dell’animale rispetto a noi, significa

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anche tenere presente l’idea secondo la quale il concetto di animale e più in generale la distinzione concettuale di cosa è umano e di cosa non lo è, oltre ad essere il frutto della creazione di confini arbitrari, dunque di una mentalità antropica che avrebbe costruito il concetto di “bestia”, di animale come altro da sé, per andare incontro a una necessità intellettiva utile a fondare concettualmente il proprio status di creatura suprema nella natura, costituisce il punto di partenza necessario a tutti quei processi di antropogènesi tesi alla fabbricazione culturale dell’umano, indispensabili, dunque, alla costituzione della Civiltà. In seconda battuta, sulla scia delle argomentazioni di quei pensatori quali, ad esempio, Lucrezio, Plutarco, Montaigne, Rousseau, Darwin e altri, parlare di animali significa anche investigare su un campo, a mio avviso molto più proficuo dato l’obiettivo preposto allo svolgimento di questa tesi, che cerca, invece, di porre l’accento sulla relatività del confine ontologico tra l’uomo e l’animale. Tuttavia, sebbene questa riflessione nasca, come abbiamo detto, dall’esigenza di vagliare la possibilità di decostruire i nostri pregiudizi mettendo in discussione il modo comune di pensare all’animale, dunque, dalla possibilità di ripensarlo piuttosto come soggetto di una vita consapevole trascendendo quel retaggio del pensiero occidentale che lo ha invece ridotto a mero oggetto di sfruttamento, si precisa fin da subito la difficoltà insita in ogni tentativo di annullare quel dualismo che potrà essere sempre soltanto sfumato, ma, purtroppo, mai veramente cancellato anche tenuto conto del fatto che ciò che sappiamo degli animali è necessariamente e inevitabilmente frutto dell’antropomorfismo e delle nostre strutture di significato.

Prendendo in considerazione la proficua rappresentazione che dell’animale è stata data in letteratura, l’indagine si muoverà all’interno di un vasto panorama che ingloba anche l’analisi di alcuni romanzi di John Maxwell Coetzee (1940), scrittore sudafricano, premio Nobel nel 2003. Collaborando pienamente a portare a conclusione l’obiettivo preposto alla mia riflessione sul maltrattamento animale, infatti, nei suoi racconti Coetzee ha molto insistito sulla somiglianza uomo-animale e lo ha fatto soprattutto all’insegna del ruolo antitetico, rispetto alla categoria Uomo, di

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tutte quelle categorie di esseri viventi, umane o animali, che collocate – non certo a caso – animalescamente ai margini della società, rappresentano per l’Uomo antropocentrico semplicemente l’ennesima occasione di mostrare la propria prepotente superiorità e la propria volontà di dominio. L’ostinato mutismo riscontrato negli sfuggenti e silenziosi protagonisti animaleschi coetziani è rappresentativo non solo del desideroso tentativo dell’autore di svelare le aporie di una tale presunzione, ma soprattutto di quello di provare a restituire al regno della natura la possibilità di essere e di “esprimersi” aggirando la costruzione e interpretazione che di esso, da sempre declassato a mero oggetto servile, è stata data dalla tradizione occidentale. È per questo motivo che nei racconti di Coetzee gli animali e persino gli uomini-animali, rinunciando alla pretesa di rivendicare attivamente i propri diritti o le ingiustizie subite valicando quel confine del dualismo oltre il quale sono stati relegati, si “impongono” all’essere Uomo semplicemente per quello che sono; solo restando se stessi prospetteranno il nostro effettivo bisogno di riconsiderare la possibilità di una relazione costruita non tanto sul valore delle somiglianze quanto su quello delle irriducibili differenze. L’incontro con l’animalità inscenato da Coetzee, dunque, esplorando il valore di ogni diversità, incluso quello del rispetto inalienabile per essa, invita alla rinuncia di ogni velleitario atto di creazione e trasformazione arbitraria della realtà creaturale che ci circonda e, rappresentando la seppur vana possibilità di destarci dal torpore acefalo del sistema, esalta insieme quella di provare finalmente a dare o ad ascoltare la vera voce dell’altro, di ciascun altro. Allora, se nei racconti di Coetzee l’Alterità animale resta una presenza costantemente e ostinatamente inafferrabile per il protagonista è proprio perché solo attraverso questa inafferrabilità si realizza la piena intensione dell’autore di esplorare, sì, la dimensione del diverso, ma sempre e solo all’insegna del valore e del rispetto verso quanto è ritenuto tale. Inoltre, sempre per lo stesso motivo, tutti i protagonisti dei racconti coetziani manifestano un atteggiamento comune nella loro relazione con l’alterità, un atteggiamento caratterizzato da un profondo senso di responsabilità che, connesso inevitabilmente alla necessità del prendersi

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cura, del custodire, proteggere e preservare l’irriducibilmente Altro da sé, sarà rappresentativo, oltre che di una loro rinuncia alla posizione-impostazione antropocentrica che la società ha creduto di insinuare in loro, anche di una riconsiderazione di quel confine fra essere umano e essere non umano, confine che, ricordiamolo, non si dissolve mai del tutto, ma solo si sfuma.

Proprio a testimonianza dell’audace e speranzosa auspicabilità di un incontro che, a dispetto di ogni limite-confine linguistico, egoistico e narcisistico (fin troppo consueti nella nostra visuale antropica), potrebbe divenire qualcosa di più di un incontro meramente e distrattamente fisico, tutti i protagonisti dei romanzi analizzati mostrano unitamente al bisogno di sentire nel dolore della creatura fortuitamente incontrata, animale o animalesca essa sia, il loro dolore e quello di ciascuna altra creatura vivente, anche e soprattutto quello di comunicare l’acquisizione, per certi versi mai definitiva, di una nuova consapevolezza nata proprio sullo sfondo dell’esperienza di un destino di dolore condiviso che accomuna, dunque, tutti gli esseri del creato.

Considerare la sofferenza del mondo animale come irrilevante, soprattutto in considerazione del fatto che nella maggior parte dei casi è l’uomo a procurarla, significa rinunciare alla possibilità di arginare il fenomeno della sofferenza in genere. Se il confine, più volte lo abbiamo ribadito, è inevitabilmente presente e ineliminabile, esso è sempre relativo. Ciò significa che al di là di ogni differenza e anzi sottolineando il valore di questa differenza, il dolore è semplicemente dolore. Il dolore è dolore per tutti. È alla luce di questa affermazione che la mia riflessione, partita dalla copiosa moltitudine dei tanti incontri-scontri che hanno insediato nella mia vita e nella mia coscienza la consapevolezza delle aporie proprie di un’umana visione del mondo secondo la quale alcune vite sarebbero più importanti di altre, oltre a ridimensionare la mia immagine di uomo e a riconsiderare quella del suo status in relazione all’universo dei viventi, si propone soprattutto di provare a dare corpo alla necessità di un sentire condiviso dal quale gli animali non possono più essere esclusi.

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Abbiamo bisogno di una visione del mondo capace di arginare energicamente le ingiustizie, le violenze e le sofferenze di tutti, uomini e animali. Di una visione più umana che aperta alla totalità della vita sia finalmente in grado di restituire agli occhi dell’altro, di ciascun altro, la nostra stessa capacità di guardare al mondo. Ma questa sarà accessibile solo quando l’uomo, rifondati i valori della civiltà, sostituito il dominio con la responsabilità e restituita “grandezza” alla Ragione, riprenderà il proprio posto nel mondo.

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Dall’animale all’uomo, dall’uomo all’animale

1.1 Nascita del concetto di animalità

Alcuni scienziati individuano nella nascita dell’Homo sapiens sapiens, avvenuta circa quarantamila anni fa, e nell’incredibile progresso tecnologico a questa correlato, il momento propizio per il passaggio dallo stadio animale allo stadio umano. Oltre che dallo sviluppo di utensili, di strumenti musicali, di doti artistiche (si pensi ad esempio alle pitture rupestri), di basi per il commercio e per la cultura, questo passaggio è stato caratterizzato anche dallo sviluppo di un’altra eccellente abilità cognitiva consideratane il fattore chiave: quella del linguaggio verbale.

Altri scienziati sostengono invece che il momento di tale passaggio risalga a più di due milioni di anni fa, quando gli ominidi, nostri antenati, che fino ad allora avevano vissuto di ciò che trovavano, piante e prede uccise da altri animali, diventano cacciatori e raccoglitori. L’etnologo A.W. Johnson e l’antropologo T. Earle sostengono che «la lunghissima crescita e dispersione dell’uomo cacciatore e raccoglitore fornì il contesto per la nostra evoluzione biologica e le basi di tutti gli sviluppi culturali successivi».1 Sarebbe stato, dunque, questo lungo periodo durato più di

due milioni di anni a plasmare la natura umana come una natura violenta e bellicosa, necessaria forse a cancellare la memoria traumatica di un passato fatto non di cacciatori, ma di esseri cacciati e divorati da altri animali. La studiosa Barbara Ehrenreich, infatti, sostiene che la nostra propensione alla guerra e alla violenza celebri e riattualizzi proprio questa «transizione umana da preda a predatore»2.

1 Allen W. Johnson, Timothy Earle in C. Patterson, Un’eterna Treblinka. Il

massacro degli animali e l’Olocausto, Editori Riuniti Int Srls, Roma 2015, p. 5.

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Lo sfruttamento degli animali, prima solo stanati ed uccisi, inizia circa undicimila anni fa, nell’antico Vicino Oriente, quando alcune comunità di uomini passarono gradualmente da uno stile di vita nomade, caratterizzato da un’alimentazione basata prevalentemente sulla caccia e raccolta, ad uno pressoché stanziale, basato sulla coltivazione delle piante e sull’allevamento-domesticazione degli animali. La domesticazione, che porta con sé l’elaborazione di un distacco emotivo e concettuale dal mondo animale nonché la costruzione di una visione gerarchica del vivente, segna un momento decisivo nella trasformazione del rapporto uomo-animale. Gli animali che avevano sempre vissuto in libertà vengono adesso catturati e riuniti in greggi; questo, oltre a facilitarne lo sfruttamento utile a ricavarne latte, carne, pellame o lavoro, ne favorisce la gestione e il controllo. Insieme alla domesticazione-sfruttamento, i pastori cominciano tutta una serie di pratiche utili (ancora oggi lo sono) a soddisfare i loro capricci di allevatori, ma soprattutto ad aumentare la resa produttiva dei loro animali. Ad esempio, per produrre animali più confacenti alle loro necessità, ma anche per renderli più mansueti, i pastori castrano o uccidono la maggior parte dei maschi, assicurandosi così animali selezionati per la riproduzione e la fecondazione delle femmine. A proposito delle modalità di come veniva, ma viene ancora oggi praticata, la castrazione e, insieme ad essa, la marchiatura, la mozzatura delle orecchie, la legatura delle zampe, l’allontanamento dei cuccioli dalle madri e naturalmente l’uccisione degli animali per scopi (non solo) alimentari, si preferisce – non è certamente questa la sede per scendere nei particolari – soprassedere e, usando il medesimo riguardo annunciato dalla protagonista di uno dei romanzi più celebri di Jones Maxwell Coetzee, Elisabeth Costello, aggirare «il lungo elenco di orrori che ne punteggia la vita e la morte»,3 concludendo questo

breve retaggio evolutivo dell’uomo con l’immediata presa di coscienza della profonda crudeltà comunemente associata alla pratica della domesticazione degli animali, nonostante questa (insieme a quella della

3 J. M. Coetzee, The Lives of Animals (1999), trad. it. La vita degli animali, (a

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domesticazione-coltivazione delle piante) venga storicamente considerata come uno dei fattori più determinanti per lo sviluppo della nostra civiltà. Con la domesticazione cambia il modo con cui gli esseri umani si relazionano con gli animali e vengono introdotte tutta una serie di forme di separazione, negazione e razionalizzazione necessarie a distanziarsi emotivamente dalle vittime e a cancellare i sensi di colpa. Tra le forme di separazione adottate, prima tra tutte, è proprio la coniazione del concetto secondo cui l’uomo è un essere superiore rispetto all’animale. Nella Dialettica dell’illuminismo, ad esempio, M. Horkheimer e T. W. Adorno sostengono che «l’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità […] che appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale».4

La maggior parte degli studi storici ed antropologici, dunque, concordano sul fatto che proprio questo tipo di rapporto instaurato con l’animalità abbia gettato le fondamenta per lo sviluppo di una cultura in cui crudeltà,

4 T. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo. Frammenti

filosofici (1947), trad. it. (a cura di) L. Vinci, Einaudi, Torino 1966, p. 262. Inoltre

si veda la critica al maltrattamento animale in M. Horkheimer, Crepuscolo.

Appunti presi in Germania (1926-1931), trad. it. (a cura di) G. Backhaus,

Einaudi, Torino 1977. Qui si utilizza la metafora del grattacielo, i cui piani simboleggiano i vari strati della società contemporanea, per descrivere la struttura del mondo capitalistico. Gli animali si trovano al piano più basso: “Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile, sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. […] Una volta che uno ha «visto» l’«essenza» del grattacielo, nei cui ultimi piani i nostri filosofi sono autorizzati a filosofare, non si meraviglia più che essi sappiano tanto poco di questa loro altezza reale e parlino sempre soltanto di un’altezza immaginaria; egli sa, ed essi stessi forse intuiscono che altrimenti verrebbe loro il capogiro. Non si meraviglia più che […] preferiscano parlare «dell’uomo in generale» invece che degli uomini in particolare […]; altrimenti per punizione potrebbero essere costretti a trasferirsi a un piano sottostante. Egli non si meraviglia più se essi discorrono dell’«eterno», giacché le loro chiacchiere, in quanto componente del suo cemento, tengono insieme quest’edificio dell’umanità attuale. Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato”. Ivi, pp. 68-70. Devo entrambe queste citazioni a G. Ditadi, I

filosofi e gli animali. L’animale buono da pensare, Agire Ora Edizioni, Torino

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violenza e brutalità sono divenuti atteggiamenti socialmente accettati. Durante un’intervista anche Lévi-Strauss ha dichiarato che «arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità l’occidente ha aperto un ciclo maledetto e la medesima frontiera […] servirà a dividere gli uomini dagli altri uomini e a rivendicare, a profitto di minoranze sempre più ristrette, il privilegio di un umanesimo corrotto».5 Infatti, quando

oppressione, schiavitù e sfruttamento animale sono stati istituzionalizzati, entrati quindi a far parte dell’ordine naturale delle cose, sono poi serviti da modello e da terreno di addestramento per tutte le altre forme di oppressione, aprendo la strada, dunque, ad un trattamento analogo anche per tutti quegli esseri umani la cui condizione era assimilata alla condizione animale. Il fatto che nelle società schiaviste l’utilizzo di collari, catene, marchiatura a fuoco, lavori forzati, mutilazioni punitive e castrazione fossero modi comuni di trattare gli esseri umani considerati alla stregua di animali è certamente una conferma che la schiavitù non è stata altro che il prodotto di un’estensione della domesticazione animale agli esseri umani. Questa sembra essere ancora una volta la posizione di M. Horkheimer quando scrive: «La storia dello sforzo dell’uomo per soggiogare la natura è anche la storia del soggiogamento dell’uomo da parte dell’uomo: nell’evoluzione del concetto dell’io si riflette questa duplice storia».6

La visione autoreferenziale, intenda a concepire l’uomo come unico e assoluto padrone del mondo e ad innalzare un muro artefatto e insensato di separazione tra lui e gli animali (insieme alla pratica dei maltrattamenti che da essa ha avuto origine), è talmente radicata al processo di umanizzazione-civilizzazione che anche la nascita della tradizione ebraico-cristiana non può che legittimare il principio secondo il quale il mondo e tutte le creature viventi sono state create per il bene di una specie suprema, quella umana, idealmente posta al vertice della catena

5C. Lévi-Strauss, ivi, p. 246.

6M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale (1947),

trad. it. (a cura di) E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1969, p. 94 in G. Ditadi, I

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dell’essere. Sebbene non si disponga di alcuna prova scientifica che gli animali siano stati creati per noi e, per di più, non si conoscano le origini teologiche dell’Antico Testamento, le fatali parole del testo della Genesi, secondo le quali Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza autorizzandolo a dominare su tutte le creature della terra, sono sempre state ritenute indiscutibilmente valide e per tanto applicate con assoluta certezza. Come sostiene anche M. Kundera (1929) «la Genesi è stata redatta da un uomo, non da un cavallo. Non esiste alcuna certezza che Dio abbia affidato davvero all’uomo il dominio sulle altre creature», perciò si potrebbe pensare che l’uomo l’abbia scritta in modo da «santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca o sul cavallo».7 Tuttavia,

chiunque leggesse la Genesi dopo avere abbassato le pretese di un’interpretazione autoreferenziale, potrebbe essere in grado di percepire, seppur confusamente, la verità appena rivelata di una primitiva solidarietà tra tutte le forme di vita. Lévi-Strauss, per esempio, sottolinea le tracce di un’unità anteriore alla caduta originaria quando scrive che «nel giardino dell’Eden, Adamo ed Eva si nutrivano di tutti i semi (Genesi, 1, 29); [e che] soltanto a partire da Noè l’uomo divenne carnivoro (9, 3)», ma soprattutto rileva quanto sia «significativo che tale rottura tra il genere umano e gli animali preceda immediatamente la storia della torre di Babele, cioè la separazione degli uomini gli uni dagli altri, come se questa fosse la conseguenza o un caso particolare di quella».8

Secoli di ingiustizie, crudeltà e sofferenze si celano dietro la fitta – e più che mai fittizia – cortina di ferro costruita da un pensiero che, alimentando la sua sete di potere, concepisce l’uomo come unico e assoluto padrone del mondo. Mentre il nostro mondo brulica di sofferenza e il dolore si moltiplica in modo esponenziale sotto i colpi dell’impressionante crescita di una ragione insensibile e distruttiva che valicando ogni limite si abbatte indiscriminatamente sugli uomini, sugli animali e su tutta la terra, sono

7 M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano 1988 in M.

Lessona Fasano, Le orme dell’amore. Il rispetto degli animali nei grandi

pensatori, Rubettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2007, p. 163.

8 Cfr. C. Lévi-Strauss, Politeia (24 novembre 1996) in G. Ditadi, I filosofi e gli

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ancora una volta le parole di Lévi-Strauss a suggerirci la via da percorrere quale nostra unica possibilità di salvezza: «Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprendere, sono un’efflorescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso, se non quello di permettere all’umanità di sostenervi il suo ruolo. […] quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso. […] Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo – questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; […] questo bene che tutte le società agognano […] consiste […] durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta d’interrompere il suo lavoro d’alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e continua ad essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto».9

Una via d’uscita da questo mondo imperniato dalla violenza potrebbe allora essere agevolata da un’analisi complessiva del pensiero che nei secoli accompagna la relazione uomo-animale – si, perché la lunga storia delle relazioni uomo-animale, come testimoniato già dalle rappresentazioni rupestri risalenti al Paleolitico, non è solo una storia fatta da rapporti materiali improntati alla lotta, alla caccia, alla strumentalizzazione, allo sfruttamento e all’uccisione dell’animale, ma è anche, parallelamente, una storia di animali pensati, animali concettualizzati – tenendo ben ferma la convinzione che, oltre a contribuire allo smantellamento della visione strettamente

9 C. Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955), Il Saggiatore, Milano 1978, pp. 402-404.

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antropocentrica, essa potrebbe soprattutto favorire l’ormai necessario superamento di quell’approccio aprioristicamente riduzionista della vita che ha depennato gli animali dalla categoria degli esseri sensibili per inserirli nella categoria degli oggetti inanimati.

Già a partire dall’antichità sono numerosi i segni di un’impostazione che esclude gli animali dalla condizione di coloro i quali meritano rispetto e amore. Quando parliamo del mondo antico, parliamo d’altronde di un’epoca ancora caratterizzata da una morale particolaristica e non universalistica (che include soltanto i membri della propria famiglia, della propria comunità, mai però le altre genti e le popolazioni nemiche) in cui non sono soltanto gli esseri animali in genere a non essere considerati meritevoli di rispetto, ma anche molti altri esseri e questa volta umani (basta pensare all’istituzione della schiavitù). Se con il passare del tempo il cerchio si allarga fino ad includere tutto il genere umano, non lo fa abbastanza da includere i membri del mondo animale e così, con il trascorrere dei secoli e fino ai nostri giorni, il violento e meccanico dominio dell’uomo sulla natura si estenderà dallo sfruttamento a fini alimentari, dove gli animali sono trasformati in cibo, a molti altri settori quali quello dell’abbigliamento che trasforma gli animali in pellicce, quello dello spettacolo che si serve degli animali per il divertimento degli umani (zoo, circhi, rodei, caccia, corrida, corse di cavalli, di cani, etc.) e quello della sperimentazione che adotta gli animali per test scientifici e prove di tossicità.

Fin dall’antichità sono numerosi i testi che hanno contribuito alla costituzione della barriera di separazione netta e radicale tra uomo e animale. Il più noto tra questi – che abbiamo in qualche modo già richiamato – è costituito dalla Genesi e precisamente da quei versetti del primo capitolo che ascrivono all’uomo una posizione di unicità fra le creature e, in ragione del fatto che è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, il dominio su tutto il creato:

«Dio disse: – Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra –.

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E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò.

Dio li benedisse e Dio disse loro: – siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra –.

Dio disse: – Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e

ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde –. E così avvenne».

(Genesi 1, 26 – 1, 30).

Stessa cosa in un altro passo della Genesi:

«Poi Noè eresse un altare al Signore, prese di ogni specie di animali puri e di ogni specie di uccelli puri e li offrì in olocausto sull’altare. E il Signore odorò quella soave fragranza e disse in cuor suo: – Io non maledirò più la terra a causa

dell’uomo, poiché i pensieri del cuore umano sono malvagi fin dalla fanciullezza;

non colpirò più ogni cosa vivente come ho fatto. Finché la terra durerà, semina e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte mai più cesseranno – . Dio benedì Noè e suoi figli e disse loro: – siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra e incutete paura e terrore a tutti gli animali della terra e a tutti gli uccelli del cielo. Essi sono dati in vostro potere con tutto ciò che striscia sulla terra e con tutti i pesci del mare. Tutto ciò che si muove e ha vita vi sarà di cibo. Io vi do tutto questo come vi detti l’erba verde; solo non mangiate carne che abbia ancora la vita sua, cioè il suo sangue –». (Genesi, 8, ….)

In un altro passaggio meno noto contenuto nei Salmi leggiamo ancora a proposito della preminenza assegnata da Dio agli uomini:

«[…] che cosa è mai l’uomo, perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, […]». (Salmi, 8, 5-9).

Questi passi sono solo alcuni dei molti che hanno contribuito alla costituzione di una scala gerarchica ordinata delle creature al cui apice sarebbe stato posto l’uomo. Dio, oltre a fare dell’uomo il signore di tutto il creato, esige da lui sacrifici di sangue e infatti, ancora prima dei passi della Genesi in cui si parla del favore mostrato nei confronti dei molti sacrifici di Noè, già Caino ha offeso Dio con i suoi sacrifici vegetali e poi ancora

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nell’Esodo Dio da esatte indicazioni a Mosè sulle modalità con cui sacrificare tori, agnelli, arieti, etc.10

Anche nel mondo greco si sviluppano presto concezioni analoghe che pongono l’uomo, creatura prediletta dagli dei, all’apice del creato. Le testimonianze di tali concezioni risalgono già al IV secolo a.C. e in particolare le ritroviamo nei Memorabili di Senofonte (430-355 a.C.) dove si sostiene che «rispetto agli altri animali, gli uomini vivono come dèi, disposti da natura a dominare con il corpo e l’anima» mentre gli altri animali «esistono e crescono per l’uomo».11 Queste considerazioni sugli

animali trovano una collocazione più estesa nell’opera aristotelica, opera che costituirà la base della lettura dei viventi per gli Stoici, per i Padri della Chiesa nonché per alcuni dei suoi massimi rappresentanti, quali sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino.

Nonostante nei suoi scritti biologici Aristotele (384/383 – 322 a.C.) accosti uomini ed animali delineandone le affinità,12 attribuisca loro

un’anima sensitiva13 e, riconoscendoli capaci di capire e di soffrire, li

contraddistingua dalle piante, ad ogni modo, per via di una sua concezione della realtà rigidamente e gerarchicamente ordinata, la sua visione dell’animale resta una visione strettamente antropocentrica che nega loro (così come ad alcune categorie umane quali le donne, gli schiavi e i barbari) qualsiasi rilevanza morale. Nella Politica, infatti, leggiamo:

10Per un quadro completo dei sacrifici cfr. G. Ditadi, I filosofi e gli animali, op.

cit., pp. 60-61.

11 Senofonte, Memorabili, 1, 4, 14; 4, 3, 10, trad. it. in G. Giannantoni, Socrate.

Tutte le testimonianze, Laterza, Bari 1971, pp. 96 e 166. Devo questa citazione

come le successive (ad eccezione di quando diversamente precisato) a F. Allegri,

Gli animali e l’etica, Mimesis, Milano-Udine 2015, cap. 1.

12 «Soltanto l’uomo, tra gli animali, ha la capacità di deliberare. Molti animali

partecipano della memoria e della capacità di apprendere […]. Aristotele,

Ricerche sugli animali, I, 1, 488b, trad. it. in Id., Opere biologiche, Utet, Torino

1971. E ancora: «È presente anche nella maggior parte degli altri animali una traccia di quelle modalità psichiche che nell’uomo sono più manifestatamente differenziate. In effetti mansuetudine e selvatichezza, mitezza e aggressività, […] e una certa capacità di comprensione intellettuale, presentano in molti animali delle similarità con l’uomo […]». Ivi, VIII, 1, 588a.

13Cfr. Aristotele, L’anima, trad. it. (a cura di ) Loffredo, Napoli 1979, p. 140 e pp.

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«[…] le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti almeno la maggior parte, perché se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga vesti e altri arnesi. Se dunque la natura niente fa né imperfetto né invano, di necessità è per l’uomo che la natura li ha fatti, tutti quanti».14

La prospettiva qui delineata, che troverà successivamente la sua massima espressione nello Stoicismo e nel Cristianesimo, disponendo gli enti su una scala gerarchicamente ordinata (i cui gradini corrispondono a un dato livello dell’essere) in cui ogni livello trova la sua finalità fuori di sé e precisamente nel gradino superiore per il quale è stato preordinato, pone l’essere umano nel gradino più elevato della scala, al suo apice. Questa visione gerarchica, propria di ogni livello dell’essere è applicabile anche all’interno del mondo umano, per cui lo schiavo sarà «subordinato all’uomo libero e [così] la femmina al maschio».15 Leggiamo infatti:

«[…] nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata – ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio in questo modo. Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia, […] costoro sono per natura schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa forma di autorità […]. In effetti è schiavo per natura chi può appartenere ad un altro (per cui è di un altro) e chi in tanto partecipa di ragione in quanto può apprenderla, ma non averla: gli altri animali non sono soggetti alla ragione, ma alle impressioni. Quanto all’utilità, la differenza è minima: entrambi prestano aiuto con le forze fisiche per le necessità della vita, sia gli schiavi, sia gli animali domestici».16

Così come la pone tra gli uomini liberi da un lato e le donne, gli schiavi e i non greci dall’altro, Aristotele pone, dunque, una barriera anche tra gli uomini e gli animali, sostenendo, nell’Etica Nicomachea, che gli animali come gli schiavi sono solo strumenti necessari e funzionali alla polis:

«Dove non vi è nulla di comune tra il comandante e il comandato non v’è amicizia, non essendovi neppure giustizia; bensì vi sono rapporti quali quelli dell’artista verso il suo strumento, quello dell’anima verso il corpo, quello del padrone verso lo schiavo: infatti tutte queste cose ricevono pure una certa cura da parte di chi le usa, però non v’è amicizia né giustizia verso ciò che è inanimato e

14Aristotele, Politica, I, 8, 1256b, 17-23, trad. it. in Id., Opere, Laterza, Roma-Bari

1986, 11 voll., vol. 9, p. 17.

15Cfr. F. Allegri, Gli animali e l’etica, op. cit., p. 23. 16Aristotele, Politica, I, 5, 1254b, 14-25, trad. it. cit., p. 11.

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neppure ve n’è verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo. Nulla vi è infatti di comune tra il padrone e lo schiavo: infatti il servo è uno strumento dotato di anima, e lo strumento è uno schiavo inanimato».17

Nell’opera aristotelica leggiamo, inoltre, e per la prima volta, una descrizione della messa a morte dell’animale non per scopi sacrificali o alimentari, ma per scopi scientifici e di ricerca,18 imputabile di quello che

sarà l’inizio della storia della dissezione e poi della vivisezione animale. La concezione finalistica e antropocentrica di Aristotele che nega ogni status morale agli animali viene sviluppata fino a raggiungere il suo apice con lo Stoicismo (IV-III sec. a.C.), divenendo la concezione pressoché dominante anche nel mondo romano.19 L’interpretazione della teoria

antropocentrica (l’uomo è l’unico essere che dotato di intelligenza e ragione è degno di essere proclamato signore della natura) da parte degli stoici fu talmente spietata da poter essere a buon diritto considerata come il punto di partenza di quell’orientamento di pensiero responsabile della frattura netta e radicale tra l’uomo e l’animale. Dopo aver argomentato sull’irragionevolezza degli animali, infatti, gli stoici conclusero che nessun riguardo è loro dovuto; inoltre, per rendere più efficace il loro punto di vista, ed evitare eventuali accuse sollevate nei confronti della loro incuranza verso la sofferenza animale, formularono un’altra teoria secondo la quale gli animali non sentono veramente emozioni e sensazioni e, semmai danno l’impressione di avvertirle, nella realtà non provano niente.

17 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 11, 1161b, trad. it. in Id., Opere, La terza,

Roma-Bari 1990, 11 voll., vol. 7, p. 212.

18 Cfr. Aristotele, Ricerche sugli animali, III, 2, 511b, trad. it. cit., p. 207; inoltre,

ivi, III, 3, 513a, p. 211.

19 Sebbene nella legislazione latina fosse presente una certa preoccupazione tesa

ad evitare i maltrattamenti degli animali questa era unicamente motivata dal principio secondo il quale le sevizie inflitte agli animali costituivano un esercizio di crudeltà verso gli uomini. Nonostante l’assenza di un’ostilità preconcetta, comunque, gli animali di per se stessi non godevano di eccessiva considerazione e, infatti, come del resto gli schiavi, i prigionieri e i nemici, venivano occasionalmente immolati nei combattimenti-spettacolo. Si racconta, a proposito, che durante i festeggiamenti per l’inaugurazione del Colosseo, siamo nell’80 d.C., migliaia di animali vennero massacrati per l’occasione.

(20)

Pur non possedendo testi scritti direttamente dagli stoici a proposito dei rapporti uomini-animali, testimonianze molto significative al riguardo provengono oltre che da Diogene, Sesto Empirico e Cicerone anche da Plutarco e Porfirio, le nostre due fonti principali. Plutarco e Porfirio richiamandosi entrambi al pensiero di Esiodo, scrivono che fra gli stoici era assai diffusa una concezione “contrattualista” della giustizia, ovvero una concezione secondo la quale la giustizia sarebbe applicabile soltanto alle relazioni umane dal momento che non è possibile agire ingiustamente verso creature a cui non è dato di agire ingiustamente verso di noi:

«secondo Esiodo, Zeus, […] diede “ai pesci, alle bestie, agli uccelli alati di divorarsi l’un l’altro, perché tra essi non c’è giustizia, ma agli uomini diede la giustizia” fra loro. E nei confronti di coloro ai quali non è possibile praticare la giustizia nei nostri riguardi neppure a noi capita di essere ingiusti».20

Sempre Porfirio, contribuendo così a delineare un quadro puntuale sulle considerazioni non-morali degli stoici verso gli animali, scrive di Crisippo di Soli (281-204 a.C. circa), pensatore stoico che, riprendendo l’impostazione teleologica e antropocentrica di Aristotele, risulta essere forse il più avverso degli stoici nell’attribuire loro considerazioni di ordine morale:

20 Porfirio, De abstinentia, 1, 5.3; 1, 6.1, trad. it. Astinenza dagli animali,

Bompiani, Milano 2005, p. 59. Questo brano di Esiodo insieme al successivo passo sulla concezione contrattualista è citato anche da Plutarco. Cfr. Plutarco,

De sollertia animalium, trad. it. L’intelligenza degli animali di terra e di mare,

in Id., Del mangiar carne. Trattati sugli animali, Adelphi, Milano 2001, p. 122. Anche Platone partecipa al chiarimento della concezione di una giustizia di tipo contrattualista: «Per sua natura – si dice – il fare ingiustizia è un bene; il male starebbe invece nel subirla. Inoltre, il subire ingiustizia sarebbe, nel male, assai più di quanto non sia, nel bene, il farla; e poiché chi fa ingiustizia deve poi a sua volta patirla, talché ognuno è costretto a provare sia l’una cosa che l’altra, non potendo gli uomini scegliere l’una e schivare quell’altra, ritengono più vantaggioso trovare fra loro una soluzione di compromesso: e cioè non causare né patire ingiustizia. Da qui, originariamente, venne l’usanza di porre leggi e convenzioni fra le persone, e quanto la legge imponeva prese il nome di giustizia e legalità. E dunque questa fu l’origine e l’essenza della giustizia; un compromesso fra ciò che è la soluzione ottimale – ovvero il commettere ingiustizia senza pagarne il fio – e quella che è la soluzione peggiore, ossia il patire ingiustizia senza potersi vendicare». Platone, Repubblica, libro II, 358-359, trad. it. Bompiani, Milano 2009, p. 249.

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«gli dei hanno creato noi perché servissimo ai loro scopi e a quelli dei nostri simili e d’altra parte gli animali perché servissero ai nostri, i cavalli per accompagnarci nella guerra, i cani nella caccia, i leopardi gli orsi e i leoni come una scuola per esercitare il nostro coraggio. La scrofa poi […] non è nata per altra ragione che per essere sacrificata e Dio ha impregnato la sua carne con la vita quasi fosse con il sale, escogitando con ciò per noi un’abbondante provvista di carne. Perché noi avessimo abbastanza di brodi e contorni ci ha foggiato ostriche di vario genere e conchiglie di porpora e vari generi alati».21

A parte alcune accorate eccezioni22 rappresentate dal pensiero del

naturalista latino Plinio il Vecchio (23/24-79 d.C.), che con la sua opera esaltava l’intelligenza e le qualità morali di molti animali (cavalli ed elefanti in particolare), nonché da quello dell’imperatore romano filosofo Marco Aurelio (121-180 d.C), in generale, anche per la legge romana gli animali sono considerati una proprietà, di conseguenza, non avendo diritti intrinseci, è pieno diritto degli uomini disporre della loro vita e della loro libertà. Cicerone (106-43 a.C.), per esempio, parlando di Crisippo e approvandone (a differenza di Plutarco e Porfirio) il pensiero, ritiene che l’esistenza degli animali sia stata finalizzata alla soddisfazione dei bisogni materiali dell’uomo. Nel De finibus bonorum et malorum scrive che «[…] l’uomo non ha nessun diritto in comune con le bestie. Ottima l’asserzione di Crisippo: tutto il resto è nato per gli uomini e per gli dei, […] cosicché gli uomini possono sfruttare le bestie per la loro utilità senza commettere ingiustizia»23 e analogamente nel De natura deorum:

«tutto ciò che si trova in questo mondo e di cui gli uomini si servono è stato creato e apprestato per gli uomini […] il mondo stesso è stato creato per gli dei e per gli uomini, e tutto ciò che in esso si trova è stato procurato e reperito per il vantaggio dell’uomo. Il mondo è infatti, per così dire, la dimora comune degli dei e degli uomini e la città di entrambi, perché essi sono i soli ad avere l’uso della ragione e a vivere secondo il diritto e la legge».24

21Porfirio, De abstinentia, 3, 20.1, trad. it. cit., pp. 261-263.

22 Cfr. M. Lessona Fasano, Le orme dell’amore. Il rispetto degli animali nei

grandi pensatori, op. cit., p. 30.

23 Cicerone, De finibus honorum et malorum, 19, 63, trad. it. I termini estremi

del bene e del male, in Id., Opere filosofiche e politiche, Utet, Torino 1976, p. 283.

24Cicerone, De natura deorum, 2, 154, trad. it. La natura divina, Rizzoli, Milano

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Analogamente, nella sua opera Vite dei filosofi, Diogene Laerzio dice che «essi [gli stoici] ritengono che non esista una giustizia nei confronti degli animali per la nostra dissomiglianza da essi, come dice Crisippo nel primo libro del Della giustizia».25 Ma traiamo direttamente le nostre conclusioni

relativamente al trattamento riservato dagli stoici agli animali quando leggiamo un’ulteriore precisazione di Diogene sul trattamento da loro riservato ai morti: «[Il saggio], a seconda delle circostanze, si ciberà di carne umana. […]. Nel terzo libro del trattato Della giustizia, per ben mille righe [Crisippo] invita a mangiare i morti».26

In Sesto Empirico, ancora, leggiamo che «erravano affermando così Pitagora e i suoi. Non è detto che se vi è un soffio vitale (pneuma) che percorre allo stesso modo noi e loro ci sia anche immediatamente una giustizia comune per noi e per gli animali irragionevoli. Ecco allora che allo stesso modo si potrebbe dire che uno stesso soffio vitale pervade noi, le pietre e le piante, sì che c’è una unità tra noi e quelle, ma certo non abbiamo nessun forma di giustizia che riguardi le piante e le pietre, e se tagliamo e seghiamo i loro corpi non commettiamo nulla di riprovevole. E come mai gli stoici dicono che c’è un vincolo di giustizia fra noi reciprocamente e fra noi e gli dèi? Non in virtù del soffio vitale che tutto pervade, perché in questo caso dovremmo anche ammettere una giustizia comune tra noi e gli animali irragionevoli, ma solo in virtù della ragione che si estende a noi tutti nei nostri rapporti reciproci e alla divinità; proprio perché gli animali non partecipano di questa non possono avere nessun rapporto giuridico con noi»,27 quindi, godere di alcun diritto nei

nostri confronti.

25 Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi più celebri, VII, 129, trad. it.

Bompiani, Milano 2005, p. 847.

26 Ivi, VII, 121; 188. A proposito si legga inoltre: «Nel libro Della giustizia

Crisippo afferma questo: “Qualora una parte delle membra venga amputata e sia buona da mangiare, non va seppellita e neppure gettata via, ma la si mangi, affinché possa generarsi un’altra delle nostre parti”». Sesto Empirico, Contro i

matematici, XI, 192 in G. Ditadi, I filosofi e gli animali, op. cit., p. 93.

27 Sesto Empirico, Contro i fisici, I, 130 = Contro i matematici, IX, 130. Ivi, pp.

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La concezione contrattualistica della giustizia viene ripresa dalla scuola epicurea che, pur ammettendo che gli animali sono collegati all’uomo da un ordine di tipo organico-strutturale (tutti gli esseri naturali sono infatti il risultato dell’aggregazione atomica) e non gerarchico, non riconosce loro nessun obbligo di giustizia e piuttosto li esclude dalla comunità morale. Scrive Epicuro:

«Per tutti quegli animali che non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non esiste né il giusto né l’ingiusto, altrettanto per tutti i popoli che non vollero o non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno».28

Ancora Porfirio, nel De abstinentia, scrive che nonostante gli epicurei perseguano una dieta vegetariana accontentandosi «di una focaccia e di qualche noce»,29 in verità il rifiuto di mangiare carne insieme a quello di

uccidere gli animali sembrerebbe per lo più correlato ad una loro esigenza utilitaria, piuttosto, dunque, ad una forma di dominio di sé che non a un segno di effettiva attenzione e rispetto per la vita e la sorte degli animali: «Se dunque fosse stato possibile concludere come con gli uomini così anche con il resto degli animali un patto che questi non ci uccidessero e non fossero a loro volta indiscriminatamente uccisi da noi, allora sarebbe corretto estendere il diritto fino a questo punto: ché esso tenderebbe alla nostra sicurezza. Ma come era impossibile che partecipassero alla legge gli esseri sforniti di ragione, […] soltanto dal fatto di possedere la facoltà che ora abbiamo di ucciderli è lecito ottenere la nostra sicurezza».30

Ma lasciamo che sia lo stesso Epicuro a spiegarlo:

«trabocca il mio corpo di dolcezza vivendo a pane e acqua, e sputo sui piaceri del lusso […]. L’avvezzarsi ad un vitto semplice e frugale mentre da un lato dà salute, dall’altro rende l’uomo sollecito verso i bisogni della vita».31

La concezione antropocentrica interna all’impostazione stoico-aristotelica presente nel pensiero greco-romano trova la sua massima espressione

28 Epicuro, Ratae Sententiae, trad. it. Massime capitali in Id., Opere, Einaudi,

Torino 1973, p. 132.

29Porfirio, De abstinentia, 1, 48.3, trad. it. cit., pp. 120-121. 30Ivi, 1, 12.5-6, p. 71.

31 Epicuro, Lettera a Meneceo, in Id., Opere (a cura di) G. Arrighetti, Einaudi,

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nella tradizione giudaico-cristiana. La sacra Bibbia, infatti, scritta in diversi periodi della storia ebraica e perciostesso ricca di punti di vista contraddittori a proposito della relazione uomo-animale, è fuor di dubbio responsabile di aver supportato un atteggiamento meno rispettoso di quello ad esempio proposto sia nella cultura egiziana che in quella della Grecia antica, nelle altre civiltà pagane, nonché dalle religioni asiatiche quali il Buddismo e l’Induismo. In particolare, mentre nel Vecchio Testamento emergono ancora parecchi indizi contrastanti verso gli animali, nel Nuovo Testamento, invece, come dimostra il fatto che i passi favorevoli agli animali (frequenti comunque nei Vangeli apocrifi) sono per lo più assenti, sembra prendere il sopravvento il pensiero degli stoici. Più in generale, fatta eccezione per le poche e rarissime voci che all’interno del lungo periodo della cristianità hanno dato luogo ad una contrastante corrente di pensiero a favore degli animali, possiamo dire che la Chiesa ha sempre tradizionalmente supportato la separazione tra l’uomo e l’animale. Accanito sostenitore della separazione, san Paolo di Tarso (5-67 d.C.), immagina una società gerarchicamente ordinata dove gli animali non hanno diritti così come pochissimi ne hanno gli schiavi e le donne. Che vi fossero ancora persone disposte a una maggiore benevolenza verso gli animali (probabilmente era ancora assai diffusa la trattatistica filosofica – VI sec. a.C./III sec. d.C. – a favore degli animali) e probabilmente contrarie a cibarsi delle loro carni è dimostrato dalla fermezza con cui, nella Prima Lettera ai Corinti, Paolo cerca di contrastare questa disposizione incoraggiando i cristiani a cibarsi di animali e giudicando quasi un peccato di fede l’astensione dalla carne. Negando agli animali ogni status morale Paolo invita i fedeli a una lettura metaforica del Vecchio Testamento. Quelle parti in cui Dio sembra avere attenzioni verso gli esseri senzienti non umani vanno interpretate con riferimento all’uomo perché Dio non ha considerazione alcuna per gli animali.32 Inoltre, sempre nello

stesso passo, Paolo si esprime a proposito dell’alimentazione carnea

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invitando a mangiare tutto ciò che ci viene presentato «senza indagare per motivi di coscienza».33

Stesso atteggiamento è riscontrabile nella maggior parte di coloro che furono tra i massimi esponenti del pensiero teologico-filosofico patristico, alto medievale e scolastico. Per esempio, Agostino, vescovo d’Ippona (354-430 d.C.), si oppone34 ad un’estensione del comandamento “non uccidere”,

per lui limitato agli esseri umani, anche agli animali, ribadendo che il prerequisito essenziale per entrare a fare parte della comunità morale è quello della ragione.35 A partire dal IV secolo d.C., si assiste non solo alla

separazione ontologica netta e definitiva tra gli uomini e gli animali, ma nientedimeno che all’intimidazione e alla persecuzione delle eventuali opinioni che sollevate in loro favore rischiavano addirittura la stessa accusa di empietà, stregoneria e satanismo che veniva associata agli animali. Con il Concilio di Braga del 567, per esempio, l’autorità ecclesiastica condanna severamente quanti si rifiutano di mangiare la carne che «Dio ha donato all’uomo per nutrirsi» e, più in generale, gli animali, malvisti, disprezzati, vilipesi, accusati di colpe che non hanno commesso, giudicati immondi e caricati a vario titolo di ogni connotazione

33Ivi, 10, 25-27.

34«C’è chi si sforza di estendere tale comandamento ai vari animali, concludendo

che essi non debbono essere uccisi. Perché allora non estenderlo anche al mondo vegetale, […]? Anche questo mondo, sebbene privo di sensibilità, si dice che vive; […]. Dinanzi al divieto di uccidere, riterremo allora un delitto sradicare un virgulto? Dobbiamo proprio rassegnarci a questo folle errore dei manichei? Lasciamo perdere tali sciocchezze, e non pensiamo che il divieto di uccidere riguardi i frutteti, che non hanno sensibilità, o gli esseri animati, come uccelli, pesci, quadrupedi, rettili, che non hanno in comune con noi l’uso della ragione; giustissima è quindi la disposizione del Creatore, per cui la loro vita e la loro morte sono al nostro servizio. Non rimane che intendere come rivolto all’uomo questo precetto; non uccidere, dunque, né altri né te stesso». Agostino, De

civitate Dei, I, 20, trad. it. La città di Dio, Bompiani, Milano 2001, pp. 110-111.

35 «non abbiamo nessun vincolo giuridico con gli animali e con gli alberi […]

sentiamo dai loro gridi che anche gli animali muoiono con dolore, cosa di cui in verità l’uomo non tiene conto nella bestia con la quale, appunto perché priva di anima razionale, non è legato da nessuna relazione sociale». Agostino, De

moribus Ecclesiae Catholicae et de moribus Manichaeorum, II, 17, 54, trad. it. I costumi della Chiesa cattolica e i costumi dei manichei, Città Nuova Editrice,

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negativa in quanto considerati simbolo del demonio, vengono fin troppo frequentemente processati, giudicati, torturati e uccisi.36

Per quello che è possibile costatare questa netta barriera di separazione ontologica coincide prevalentemente con quello che può essere definito come un vero e proprio distacco dall’osservazione diretta della natura e dei viventi che la abitano. Lasciata da parte l’osservazione concreta, la manipolazione aprioristica della relazione cognitiva con l’animale inizia a muoversi esclusivamente sul piano logico-linguistico e simbolico per dare vita ad un universo fatto di analisi concettuali i cui oggetti non sono più gli animali veri in carne e ossa, piuttosto le rappresentazioni di essi. A partire dai primi secoli della cristianità, infatti, a quelle che erano le conoscenze naturalistico-epistemologiche proprie delle descrizioni tassonomiche rintracciabili nelle opere antiche e tardo antiche, prima tra tutte per importanza quella costituita dal corpus zoologico di Aristotele, si aggiungono e talvolta si intrecciano, ad opera della filosofia patristica, anche fantasiose interpretazioni allegorico-spirituali sugli animali di cui sono esempio sia la “zoologia sacra” (il Fisiologo, testo capostipite di questa tendenza interpretativa, è stato presumibilmente composto nella seconda metà del II secolo d. C. ad Alessandria d’Egitto da un anonimo autore cristiano), che a partire da una serie di opere ad essa improntate darà poi origine, dal XII secolo in poi, alla tradizione medievale dei bestiari moralizzati, sia la copiosa letteratura della tradizione esamerale cristiana (cioè di commento ai sei giorni della creazione) prodotta (il testo più rappresentativo della vocazione all’interpretazione allegorica, Omelie sulla Genesi, scritto da Origene a metà del III sec d.C trova il suo modello in Filone di Alessandria, filosofo greco vissuto tra il 30 a.C e il 40 d.C.) da un’esegesi biblica votata a trovare ed amplificare quei profondi, quanto ipotetici, significati spirituali nascosti nel dettato biblico. In questa prospettiva gli animali vengono nettamente spogliati della loro carica

36 Cfr. M. Lessona Fasano, Le orme dell’amore. Il rispetto degli animali nei

grandi pensatori, op. cit., pp. 42-43. Per un quadro più ampia vedi E. P. Evans, Animali al rogo. Storie di processi e condanne contro gli animali dal Medioevo all’Ottocento, Editori Riuniti, Roma 1989.

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naturale per essere trasfigurati in chiave simbolica e spirituale, almeno fino a quando, tra il XII e il XIII secolo, la latinizzazione dell’intero corpo delle opere aristoteliche (avvenuta non per opera di un progetto organico di inculturazione, quanto più ad una serie di molteplici e parallele ricerche personali), quindi dei suoi trattati zoologici, nonché delle principali opere di commento prodotte dal peripatetismo arabo, non modificherà profondamente, soprattutto attraverso la loro diffusione all’interno dei canali universitari nascenti, molti aspetti della cultura occidentale. Nel medioevo la riscoperta dei trattati zoologici di Aristotele rappresenta certamente un modello di sapere de animalibus radicalmente alternativo, ma mai del tutto indipendente rispetto a gran parte dei saperi sugli animali sviluppati fino a quel momento dalla cultura filosofico-teologica la cui tendenza dominante era stata quella dell’interpretazione allegorica dell’animale utile poi ai fini della sua decodificazione morale o spirituale. Ora, se non c’è dubbio che i libri sugli animali di Aristotele iniziarono ad essere citati all’interno di opere mediche destinate, per esempio, alle facoltà di medicina, non vi è tuttavia nessuna testimonianza (a parte l’eccezione rappresentata dal commento di Pietro Ispano, docente di medicina all’Università di Siena) che essi siano stati oggetto di parafrasi o di commenti diretti, quanto, piuttosto, che siano invece stati utilizzati semplicemente come fonte di informazione scientifica e disseminati, dunque, sotto forma di citazioni, anche all’interno di opere di altro genere rispetto a quello medico, quali compendi, enciclopedie e opere teologiche. Se, di fatto, in simili opere si realizza l’incontro tra sapere cristiano e testi aristotelici, ciò significa che la zoologia aristotelica si ritrova in buona sostanza a dover cercare un accordo con gli animali esamerali del sapere cristiano e, spesso, ad essere utilizzata semplicemente come sostegno alle preesistenti interpretazioni allegoriche dell’animale proprie dell’esegesi biblica. Un chiaro esempio dell’utilizzo della nuova zoologia aristotelica nell’esegesi biblica e, dunque, di un vero e proprio arricchimento “realistico” di quella che era la consueta lettura allegorica, è dato dalle opere di Tommaso d’Aquino (1221-1274). Accostandosi agli stoici Tommaso ripropone la contrapposizione

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uomo-animale/ragione-irrazionalità, mentre, alla luce delle raccomandazioni di san Paolo, si dedica alla reinterpretazione dei passi del Vecchio Testamento ove Dio, vietando determinati comportamenti improntati alla crudeltà verso gli animali, pare mostrare nei loro confronti una qualche attenzione. Se per la maggior parte di questi (si pensi a quelli che si riferiscono a divieti alimentari) propone una rilettura che associa i comportamenti vietati a «determinati peccati che ne giustificano la proibizione»,37 per la restante

parte la rilettura dei divieti nei confronti degli animali è tesa, piuttosto, sia a rimuovere dall’animo umano l’abitudine all’esercizio della crudeltà per il fatto che questa potrebbe facilmente passare dagli animali agli uomini, sia ad evitare un danno materiale (nella misura in cui l’animale rappresenta un oggetto di proprietà) verso gli uomini. Inoltre, riprendendo la concezione finalistica di Aristotele, per poi inserirla all’interno di un più ampio contesto teologico, Tommaso subordina agli esseri dotati di ragione tutto il resto del creato e afferma che gli animali sono stati ordinati e destinati all’uomo, unica creatura razionale dell’universo.38 Gli animali,

infatti, non sono padroni dei propri atti, ma sono strumenti creati e curati dalla divina provvidenza esclusivamente per il vantaggio degli esseri razionali:

«La condizione stessa delle nature intellettive di essere padrone dei propri atti, richiede di essere curate per se stesse da parte della divina provvidenza: mentre la condizione degli altri esseri che non hanno il dominio dei loro atti indica che ad essi la cura è rivolta non per loro, ma perché ordinati ad altri esseri. L’essere infatti che è posto in azione da altri ha la funzione di strumento: invece ciò che si pone in opera da sé ha la funzione di agente principale. Ora lo strumento è voluto non per se stesso, ma per l’uso che ne fa l’agente principale».39

Questo, di conseguenza, costituisce la premessa del ragionamento che libera i fedeli dal peccato per la loro uccisione, ma anche da ogni senso di

37Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, Quest. 102, art. 6, trad. it. La

somma teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996, 6 voll., vol. 2, p.

839.

38 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, Quest. 64, art. 1, trad. it.

cit., vol. 3, pp. 504-505.

39 Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, libro III, cap. CXII, trad. it.

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colpa, legittimando in questo modo la possibilità di servirsene a piacimento.40 Inoltre, la concezione meramente strumentale degli animali

gli è utile soprattutto ad escludere la possibilità che questi ultimi possano risorgere con gli uomini dopo il giudizio universale, infatti, una volta raggiunto quello «stato di ultima perfezione… verrà tolta dall’uomo ogni infermità» ed egli finalmente basterà a se stesso non avendo più alcun bisogno di servirsene.41 Ed infine, entrando sempre più nel merito della

nostra riflessione, nell’articolo 3 della quest. 25 della Summa Theologiae, frequentemente richiamato come prova del suo antianimalismo, Tommaso dice anche che non si possono amare con amore di carità le creature irragionevoli poiché: «l’amor di carità abbraccia Dio e il prossimo soltanto. […] le creature irragionevoli non possono essere comprese nella voce prossimo: poiché non hanno in comune con l’uomo la vita razionale. Quindi la carità non si estende alle creature irragionevoli […]. Tuttavia possiamo amare queste creature come beni da volere ad altri».42 Anche J.

M. Coetzee, come vedremo meglio più avanti, fa riferimento a questo passo della Summa Theologiae nel corso del suo romanzo La vita degli animali e precisamente quando, ad un certo punto della sua conferenza sui diritti degli animali, la protagonista Elisabeth Costello viene interrotta dall’affermazione di uno degli astanti – un immaginario professore di filosofia – che citando Tommaso dichiara apertamente che «l’amicizia tra esseri umani e animali e impossibile, […] per la semplice ragione che

40 «Viene così escluso l’errore di chi ritiene sia peccato per l’uomo uccidere gli

animali. Questi infatti dalla divina provvidenza sono ordinati secondo l’ordine naturale all’uso dell’uomo. Perciò l’uomo se ne serve senza colpa, sia uccidendoli, sia utilizzandoli in altro modo». Ivi, p. 842. Analogamente si legga: «è lecito sopprimere le piante a uso degli animali, e gli animali a uso dell’uomo in forza dell’ordine stesso stabilito da Dio». Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, Quest. 64, art. 1, trad. it. cit., vol. 3, p. 505.

41 Cfr. Tommaso d’Aquino, Compendium Theologiae, 1, 170, 334, trad. it.

Compendio di Teologia, Utet, Torino 2001, p. 200.

42 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, Quest. 25, art. 3, trad. it. cit.,

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abbiamo troppo poco in comune con loro»43. Precisando che Tommaso

non sembra considerare l’amicizia, quella che si ha con gli amici, come un tipo di rapporto distinto da quello che abbiamo con la persona che amiamo o ancora da quello che abbiamo con i familiari, poiché nel suo latino è ancora forte la connessione etimologica di amare-amicitia-amor, troviamo che nell’art. 3 della Quest. 25 (IIa-IIae) della Summa Theologiae Tommaso non si chiede genericamente se possiamo amare o avere rapporti di amicizia con gli animali, ma più specificatamente – siamo nella pars secunda, parte dove Tommaso si concentra sulle virtù che avvicinano a Dio, fine ultimo dell’agire umano, dunque, il quesito è posto all’interno della sezione relativa alla carità, che è una delle virtù teologali – se è possibile provare dilectio ex caritate (ovvero quel tipo di amore intellettivo, dilectio, che reso perfetto dalla caritas, virtù soprannaturale infusa dallo Spirito Santo, proviamo verso Dio, per se stesso e per la sua propria bontà, ma che possiamo rafforzare e accrescere attraverso atti di carità rivolti verso il nostro prossimo, dal momento in cui in esso ritroviamo Dio) anche per le creaturae irrationales, cioè prive di ragione. Poiché il criterio per l’ammissione della dilectio ex caritate è la presenza di razionalità e poiché «le creature irrazionali non possono avere niente in comune con la vita umana, che è regolata dalla ragione […] non ci può essere nessuna amicizia con le creature irrazionali, se non metaforicamente».44 Sorretto dall’esegesi del verbo “dominare”

(dall’ebraico radah, lett. “pigiare l’uva”, in senso lato “sottomettere”) presente in Genesi 1, 26, Tommaso non cade mai nella tentazione di mitigarne la semantica e le implicazioni morali (come fanno coloro che interpretano il termine con il senso di “avere cura”) e conclude che l’unica relazione che è abbiamo motivo di intrattenere con gli esseri bruti, data la loro natura irrazionale (gli animali non hanno il dominio dei loro atti, non sono guidati dal giudizio né dalla consapevolezza, ma seguono

43Cfr. S. Perfetti, Animali pensati, (a cura di) A. Fabris, Edizioni ETS, Pisa 2012,

cap. IV, “Ci può essere amicizia tra umani e animali? Tommaso d’Aquino e

Barbara Smuts”, p. 69.

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semplicemente schemi di comportamento istintuali – inclinatio naturalis – ed univoci, prova ne sia che gli animali di una stessa specie, anche quando “sembrano” compiere atti razionali45 si comportano tutti allo

stesso modo,46 e quel modo non è altro che un effetto dell’agente-Dio che

lo ha ordinato) e il loro carattere strumentale (sulla scorta delle argomentazioni aristoteliche47 anche Tommaso ritiene che l’ordine

naturale procede dall’imperfetto al perfetto ed è ricalcato da un ordine di uso secondo cui l’inferiore, in questo caso l’animale, sia strumento a disposizione dell’uomo) è di natura dominante.

Anche nella Summa contra Gentiles (III, 81) Tommaso giustifica il dominio umano e, sottolineando l’assenza della luce intellettuale negli animali, al capitolo 113, ribadisce ancora una volta che nel disegno provvidenziale le creature brute esistono in misura servile di quelle razionali. Se anche la provvidenza divina si occupa direttamente solo delle creature razionali, dispensando per le altre, quelle irrazionali, un tipo di cura che potremmo definire indiretta, e cioè sempre e solo a vantaggio delle razionali, allora ne deriva che non è peccato per l’uomo uccidere gli animali perché:

45 «sono intelligenti [prudentia] senza capacità di imparare tutti gli animali che

non possono udire i suoni, come le api». Aristotele, Metaphisica, I, 1, 980b, 2-3. Ivi, p. 82. A differenza dell’uomo, dotato di una universalis prudentia, dunque, di una ragione pratica universale, per Tommaso, invece, gli animali possiedono una

prudentia limitata ad atti particolari e perciostesso incapace di veicolare il

comportamento sulla base di un raffronto (apprendimento) con l’esperienza passata.

46 «[…] omnia quae sunt unius naturae, similiter operantur». Tommaso

d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, quest. 13, art. 2. Si veda anche «omnis […] hirundo similiter facit nidum, et omnis aranea similiter telam». Id., Summa

contra Gentiles, II, 82. Ivi, p. 84.

47 «[…] le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli

domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici […] perché se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga vesti e altri arnesi. Se dunque la natura niente fa né imperfetto, né invano, di necessità è per l’uomo che la natura li ha fatti, tutti quanti. Perciò [continua con un riferimento a Sofista 222c] anche l’arte bellica sarà per natura in certo senso arte di acquisizione (e infatti l’arte della caccia ne è una parte) e si deve praticare contro le bestie e contro quegli uomini che, nati per obbedire, si rifiutano, giacché per natura tale guerra è giusta». Aristotele, Politica, I, 8, 1256b, 16-26. Ivi, p. 79.

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