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Gli animali nel pensiero ebraico-cristiano

Storia e sviluppi della filosofia animalista

2.2 Gli animali nel pensiero ebraico-cristiano

Anche se nell’Antico Testamento prevale la concezione antropocentrica che sancisce la supremazia dell’uomo sulle altre creature, tuttavia, esaminandolo con attenzione, riusciremo ad individuare diversi passaggi di segno del tutto opposto rispetto a quella che è l’impostazione prevalente. Sebbene si parli di supremazia umana, infatti, in nessun luogo della Genesi viene sancita la crudeltà dell’uomo nei confronti degli animali né tantomeno il diritto di ucciderli per cibarsene o per vestirsene, anzi, a ben vedere, nel paradiso dell’eden creato da Dio sulla terra, uomini e animali vivono fraternamente insieme senza divorarsi tra loro, cibandosi solo di erba e di frutti.157Utile a questa interpretazione il commento di T.

156 Porfirio, De abstinentia, IV, 1-18 in G. Ditadi, I filosofi e gli animali, op. cit.,

pp. 111- 112.

157 «Dio disse: – Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la

terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla

Regan che, nel suo libro Gabbie vuote, scrive: «Nell’Eden non ci sono cacciatori, ma solo raccoglitori. Nello stadio più perfetto della creazione [quello in cui gli uomini sono più vicini al volere divino], gli umani sono vegani; non mangiano carni animali e neppure alcun prodotto di derivazione animale, come latte e uova».158 Questo fino a quando, l’uomo e

con lui la donna, contravvenendo al volere divino, non decisero di prestar fede alla superbia mangiando il frutto colto dall’albero della conoscenza. Poche righe della Genesi denunzierebbero da subito la naturale – e perché no arrogante – tendenza dell’uomo a superare il limite del posto che gli è stato originariamente assegnato e dunque la rottura dell’armonia:

«Ma il serpente disse alla donna: – […] Dio sa che il giorno in cui ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male. Allora la donna […] prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture».159

Subentrata la consapevolezza e, insieme, la vergogna per la nudità che di quell’originale divino disegno di fratellanza e uguaglianza era probabilmente il simbolo, Dio veste di pelli Adamo ed Eva, ma a quel punto non è più loro concesso di vivere nel paradiso terrestre. È come se Dio avesse accettato e sancito la libertà dell’uomo rispetto alla sua volontà, infatti, teniamo presente che qui non si è ancora parlato di un diritto concesso da Dio all’uomo di uccidere gli animali e che solo più avanti tale libertà finisce per includere anche questo “diritto”, in particolare quando Abele sacrifica i primogeniti del suo gregge alla divinità. Da questa prospettiva si ha come l’impressione che in tutti i passaggi successivi in cui sembra sancirsi il diritto alla crudeltà, Dio acconsenta piuttosto al desiderio dell’uomo di essere lasciato libero di sbagliare, desiderio terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde –E così avvenne».

Genesi, 1,29-1,30.

158 T. Regan, Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali (2004), Sonda, Casale

Monferrato (AL) 2009, p. 116. Devo questa citazione come le successive (ad eccezione di quando diversamente precisato) a F. Allegri, Gli animali e l’etica, op. cit., cap. 1.

ammissibile solo all’interno di un mondo che si è ormai allontanato dall’iniziale disegno della sapienza divina:

«Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali puri e di uccelli puri e offrì olocausti sull’altare. Il Signore ne odorò il profumo gradito e disse in cuor suo: – non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché ogni

intendo del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto. Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e

caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno –. Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: – siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli animali della terra e in tutti gli uccelli del cielo. Tutto ciò che striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono dati in vostro potere. Ogni essere che striscia e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe».160

Nel Politico di Platone troviamo alcuni passi che danno proprio questa lettura dell’uomo nel suo passaggio da creatura armonica facente parte di un Tutto a creatura diabolica ordinatrice (o forse meglio disordinatrice?) del Tutto:

«avevano grande disponibilità di tempo e potere di stabilire relazioni e conversazioni non solo fra gli uomini, ma anche con le bestie, facevano uso di tutte queste condizioni in funzione della filosofia, discorrendo appunto fra loro e con gli altri animali, e interrogando tutte le specie animate per sapere se una ve ne fosse che per una sua particolare capacità avesse mai potuto conoscere qualche cosa a tutto superiore nel procurare grande apporto al tesoro dell’intelligenza […]. È facile giudizio dire che quelli di allora incommensurabilmente eccellevano per felicità sugli uomini di ora […]. [Ma] come fu compiuto […] il periodo di tutti questi avvenimenti […] proprio allora il pilota dell’universo tutto quasi abbandonando la barra del timone, si ritirò nel suo posto d’osservazione, e allora furono il destino ed una innata tendenza a volgere il cosmo nel corso del nuovo ciclo.

Tutti gli dèi allora, i quali nei singoli luoghi governavano in accordo con quella più grande divinità, resisi conto di ciò che accadeva, abbandonarono anch’essi la sezione del cosmo affidata alla loro responsabilità. Ed il cosmo, […] provocò in se stesso un grande scuotimento e di qui determinò ancora un’altra strage di animali d’ogni specie. Dopo di che, passato il tempo necessario, cessato ormai per esso il tumulto e lo sconvolgimento, e conseguita da parte sua la calma da quegli scuotimenti, esso continuò ad andare conformemente alla sua propria carriera consueta, esso stesso interessandosi ed avendo potere su ciò che ad esso inerisce e su di sé, ricordando, nei limiti delle sue possibilità, l’insegnamento del suo artefice e padre. […] E infatti tutto ciò che ha di bene lo ha ricevuto dal suo organizzatore, ma dalla sua primitiva condizione, quante sono le difficoltà ed

imperfezioni che si verificano nell’universo, tutte da quella ad esso derivano ed in tutti gli animali esso le ingenera. E così quando si trovava ad allevare in sé gli animali con l’aiuto del suo pilota, erano piccola cosa i mali, ma grandissimi i beni che esso produceva, quando invece è separato da lui […] nel tempo immediatamente successivo all’abbandono tutto conduce benissimo, però col passare dei giorni, sopravvenendo in esso l’oblio, sempre più rafforza anche il potere dell’antica affezione sua del disordine […] e giunge così presso al pericolo di distruggere sé stesso e ciò che in esso è compreso».161

Intervenendo a proposito della differenza di prospettiva tra i passi della Genesi 1,29 e 9, 1-4, G. Ditadi commenta che se «Dio sembra contraddirsi» quando «prima crea un mondo basato sulla legge vegetariana, [e] poi offre le carni degli animali come cibo», in realtà (anche secondo il parere del teologo eretico E. Drewermann) «l’origine di questa contraddizione nella storia del popolo ebraico, [potrebbe essere legata al fatto di essere stato] influenzato da un lato dalla civiltà egizia, nella quale “qualsiasi trasgressione del rispetto per gli animali in quanto creature era considerato peccato” e, dall’altro, soggetto all’influenza della cultura assiro-babilonese, caratterizzata “dalla durezza […] nei confronti degli animali”».162

Contraddizioni di questo genere abbondano sia all’interno del Vecchio (VI sec. a.C.) che del Nuovo Testamento. La compassione per gli animali è radicata, per esempio, nei primi cinque libri costituenti la Torah Ebraica (Pantateuco per i cattolici), la quale mentre da un lato consente agli uomini di utilizzarli a proprio vantaggio dall’altro insegna loro come astenersi dal causargli sofferenza. In alcuni passi troviamo cenni elogiativi delle loro qualità, della loro saggezza e intelligenza,163 e laddove i rapporti

161 Platone, Politico, XVI, 272 b-e – 273 a-c in G. Ditadi, I filosofi e gli animali,

op. cit., pp. 77-78. A mio avviso, giunto a questo punto, Platone prosegue dicendo qualcosa che sembra richiamare l’Apocalisse di Giovanni: «È proprio per questa ragione che il dio che già una volta l’ha ordinato, vedendolo in difficoltà estreme, preoccupandosi che sconvolto dalla tempesta, sotto il suo infuriare non si dissolva e s’inabissi nel mare infinito della dissomiglianza, ritornando a sedere al timone di quello e volgendo a nuovo corso ciò che nel tempo precedente, in cui l’universo era abbandonato a se stesso, si ammalò e si dissolse, l’ordina ancora e lo raddrizza e così lo rende immortale e senza vecchiaia».

162G. Ditadi, I filosofi e gli animali, op. cit., p. 60. 163Giobbe, 12, 7-8; Geremia, 8, 7; Proverbi, 30, 24-31.

con gli animali sono improntati alla durezza è evidente che la stessa durezza è riservata anche alle relazioni con gli uomini. Diversi passi, inoltre, rifiutano il sacrificio animale164 mentre altri li esigono (si precisa

ancora una volta che negli stessi passi lo stesso trattamento è riservato anche ai bambini)165. L’attenzione verso il mondo animale insieme alla

possibilità di un ritorno alla situazione di alleanza originaria è posta senza mezzi termini dal profeta Isaia quando dice «Colui che macella un bue è simile a colui che macella un uomo»166 e ancora, in vista della fine dei

tempi, «Il lupo abiterà insieme con l’agnello e la pantera giacerà insieme con il capretto; il vitello e il leone pascoleranno insieme e il fanciullo li guiderà. La mucca pascolerà con l’orso, i loro cuccioli si sdraieranno insieme, il leone mangerà la paglia come il bue. Il lattante si divertirà sulla buca dell’aspide e il bambino porrà la mano nel covo della vipera. Non si commetterà il male né vi sarà strage su tutto il mio santo monte, perché il paese è pieno della conoscenza del Signore come le acque ricoprono il mare».167 Poi, in un passo del Qoélet (Ecclesiaste) leggiamo che «la sorte

degli uomini è la stessa di quella degli animali: come muoiono questi, così muoiono quelli. Gli uni e gli altri hanno uno stesso soffio vitale, senza che l’uomo abbia nulla in più rispetto all’animale».168 E Infine, richieste di

considerazione e attenzione nei confronti degli animali ne troviamo ancora nei Proverbi,169 nei Salmi,170 e diverse anche nel Nuovo Testamento.171 Ciò

164Isaia, 1, 11-16; Amos, 5, 22. 165Esodo, 12, 2-13; 13, 2; 22, 28-29; 166Isaia, 66, 3. 167Isaia, 11, 6-9. 168Qoélet, 3, 19-21.

169«Il giusto ha cura di ognuno dei suoi animali». Proverbi, 12, 10.

170«Tu facesti scaturire sorgenti nelle valli, esse scorrono fra i monti; procurano

da bere a tutte le bestie della campagna, gli asini selvatici vi estinguono la loro sete. Lungo il loro corso vivono gli uccelli del cielo, tra le ronde fanno udire la loro voce. […] Fai crescere il fieno per il bestiame e l’erba che l’uomo coltiva per trarre dalla terra il suo nutrimento […]». Salmi, 104, 27:“Inno di lode a Dio per tutte le

meraviglie del creato”.

171«Chi di voi se gli cade nel pozzo un figlio o un bue, non lo tirerà subito fuori,

anche se è di sabato?» e ancora «Chi di voi se possiede cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto per andare a cercare quella che è

che in definitiva emerge è che se la Chiesa, e in generale il cristianesimo, ha sempre seguito il filone maggioritario presente nel testo biblico a supporto della tradizionale barriera di separazione uomo-animale sono, allo stesso tempo, molteplici i brani che seguendo l’impostazione alla cura, al rispetto e alla compassione per il mondo animale inducono ad una riflessione generata dalla difficoltà insita nell’interpretare l’autorità teologica di un testo tanto antico, scritto da molte mani e in molte epoche differenti, secondo quella visione unilaterale che vorrebbe piuttosto sancire la supremazia della specie umana sugli altri esseri viventi. Non mancano, inoltre – certo, sono rare, coraggiose e per lo più ignorate all’interno di quello che è stato quasi un millennio di silenzio spietato – le personalità importanti che sposando il filone secondario hanno intrapreso un atteggiamento differente e predicato la compassione verso gli animali. Basta pensare a san Francesco d’Assisi, sant’Antonio da Padova, santa Caterina da Genova, san Basilio e ancora a sant’Ambrogio da Treviri (vescovo di Milano), Scoto Eriugena e Ugo di san Vittore.172 Ma bisognerà

attendere la metà del 1400, dunque l’aureo periodo rinascimentale, per assistere, oltre che al rinascimento culturale dovuto alle influenti traduzioni umaniste dei testi classici di grandi filosofi, poeti e scrittori del mondo greco-latino, al miracoloso risveglio di una più giusta disposizione alla pietà e alla sensibilità nei confronti del mondo animale. Leonardo da Vinci (1452-1519), mente aperta e di grande acume intellettuale scrive che: «L’uomo ha grande discorso del quale la più parte è vano e falso, li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero, e meglio è la piccola certezza che la gran bugia».173

smarrita, finché non la ritrova? Quando la trova, se la mette sulle spalle contento, ritorna a casa, convoca gli amici e i vicini e dice loro: – fate festa con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta –». Luca, 14, 5; 15, 4-7. Anche in questo caso, e come accade in tutto il testo biblico, parabole che vanno nella direzione opposta subentrano per riequilibrare la situazione. Pensiamo, ad esempio, a quella del figliol prodigo il cui ritorno è festeggiato con l’uccisione del vitello più grosso.

172 Per un approfondimento su questi ultimi tre teologi cfr. G. Ditadi, I filosofi e

gli animali, op. cit., pp. 32-33.

173Leonardo da Vinci, f, 96 b in M. Lessona Fasano, Le orme dell’amore, op. cit.,

Grande compassione gli ispirano le piccole bestiole che durante la stagione della neve si avvicinano alle case degli uomini «chiedendo quasi la limosina». Mentre, a proposito di capre, pecore e altre simili bestie, non può fare a meno di notare che a moltissime di loro saranno «tolti i loro piccoli figliuoli e quelli scannati e crudelissimamente squartati».174

Tra gli ultimi pensatori rinascimentali pro-animali ritengo che ad essere estremamente degne di nota siano, inoltre, le considerazioni espresse in loro favore da Erasmo da Rotterdam (1466-1536), ammiratore delle opere di Plutarco e Porfirio, e dal suo amico Thomas More (1478-1535), poiché è negli scritti di entrambi questi importanti umanisti rinascimentali che la mia tesi trova ancora una volta sostegno: il massacro degli animali ha abituato l’uomo a massacrare gli uomini. Erasmo, ad esempio, condanna le uccisioni e la mancanza di rispetto per gli animali proprio perché in esse ritrova la causa generale dell’abitudine degli uomini alla crudeltà. L’uomo risente, infatti, talmente della forza della consuetudine da non essere più in grado di distinguere quanto in essa c’è di assurdo o di malvagio. Ricercando le origini della guerra, Erasmo non esita, dunque, a ritrovarle nell’uccisione degli animali:

«I grammatici hanno intuito la natura della guerra: alcuni sostengono che essa si chiami bellum per antitesi, perché non ha niente di buono né di bello; […]. Altri preferiscono far derivare la parola bellum da bellua, belva: perché è da belve, non da uomini, impegnarsi in uno sterminio reciproco. Ma a me, definire animalesco o bestiale un conflitto armato, sembra ancora inadeguato. […] Cane non mangia cane; i feroci leoni non si fanno la guerra […]. Gli animali quando combattono, combattono con le armi che gli ha dato la natura. Noi ci armiamo […] di armi innaturali escogitate da un’arte diabolica. Gli animali non si scatenano per qualsiasi ragione, ma solo perché sono inferociti dalla fame, perché si sentono braccati, perché temono per i cuccioli. Noi uomini […] scateniamo le più tragiche guerre per i motivi più futili: vacui titoli di dominio, un puerile scoppio d’ira […]. Inoltre gli animali conoscono solo scontri singolari e brevissimi. […] chi ha mai sentito dire che centomila animali si sono sterminati a vicenda? Eppure così fanno dappertutto gli uomini. […] fra tutti gli uomini presi uno ad uno, c’è guerra

174 Leonardo da Vinci, Discorso contro gli abbreviatori, b, Profezie (Delli asini

perpetua: non esiste nel genere umano un’alleanza veramente salda.175 […] Nel

lontano passato, […] giovani intrepidi cominciarono a dar la caccia agli animali, a ostentarne le spoglie come trofei. Col passare del tempo non si limitarono ad ucciderli: si valsero delle loro pelli per difendersi dai rigori dell’inverno. Così ebbero inizio gli ammazzamenti. […] Poi si spinsero più avanti: ebbero l’audacia di compiere un atto che Pitagora giudicò sommamente empio, e che a noi potrebbe apparire mostruoso – potrebbe se non ci fosse di mezzo la

consuetudine. […] quale fu dunque questo misfatto? Ebbene, non ebbero

scrupolo di divorare i cadaveri degli animali, di lacerarne a morsi la carne esamine, di berne il sangue, […]. Dagli animali feroci si passò alle bestie innocue. Si cominciò dappertutto a infierire sulle pecore, […] sulla lepre, colpevole soltanto di essere saporita. Non si risparmiò il bue domestico, […] e la tirannide della gola arrivò al punto che nessun animale fu più in grado di sottrarsi alla caccia spietata dell’uomo […]. Un altro effetto ebbe la consuetudine: consentì di usare crudeltà contro ogni specie vivente, senza percepirla come tale, […]. Il tirocinio che abbiamo descritto fu un addestramento all’omicidio […]. E a forza di sterminare animali, s’era capito che anche sopprimere l’uomo non richiedeva grande sforzo. […] Pitagora, […] aveva senza dubbio compreso tutto questo, quando con un espediente filosofico cercava di distogliere la moltitudine ignorante dall’uccidere animali. Egli intuiva che l’uomo abituato a versare, senza la minima provocazione, il sangue di una bestia innocua, non avrebbe esitato, in balìa della collera […] a sopprimere il suo simile».176

Anche Thomas More, grande amico di Erasmo, coglie il nesso tra la caccia e la guerra per poi esporlo nella sua opera più nota, Utopia (1516). Sebbene ad Utopia l’esercizio della caccia non sia stato del tutto abolito e l’uccisione degli animali sia ritenuta una «vile» necessità, More scrive che gli abitanti dell’isola giudicano la caccia un «compiacimento insulso e indegno di uomini liberi» tanto da accollarlo ai «macellai (un mestiere […] che essi fanno esercitare agli schiavi)». E le motivazioni sono sempre le stesse: «non tollerano che i cittadini si abituino a macellare gli animali» perché è «una pratica che a poco a poco inaridisce la compassione».177

175Erasmo da Rotterdam, Dulce bellum inexpertis in Id., Adagia (1515), trad. it.

Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, Einaudi, Torino 1980, p. 213-218.

176Ivi, pp. 220-221. (Corsivo aggiunto).

177 Cfr. T. More, Utopia, trad. it.Utopia, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 71, 88 e