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La questione animale nella letteratura

3.4 Aspettando i barbar

Le vicende di Aspettando i barbari414 si svolgono in una piccola cittadina

di frontiera situata lungo i confini settentrionali di un impero non meglio precisato, collocato fuori dal tempo e dallo spazio.415 È noto che il titolo e

l’argomento di questo terzo romanzo di Coetzee derivano dai versi del celebre componimento omonimo Aspettando i barbari (1904), scritto dal poeta greco-alessandrino Costantino Kavafis (1863-1933). La presenza dei “barbari” nella poesia si rivela fondamentale per rappresentare le dinamiche di potere di una Roma imperiale che, in una fase di decadenza, se ne serve per poter scaricare su di loro tutte le tensioni sociali e politiche del Paese. Esattamente come nella poesia di Kavafis anche la vicenda di Coetzee non rimanda ad un avvenimento storico preciso e riconoscibile, è raccontata al tempo presente da un narratore testimone e si conclude con l’esito finale dell’attesa preannunciata dal titolo: i barbari non arriveranno

413J. M. Coetzee, La vita degli animali, op. cit., p. 85 (corsivo aggiunto).

414 J. M. Coetzee, Waiting for the Barbarians (1980), trad. it. Aspettando i

barbari (a cura di) M. Baiocchi, Einaudi, Torino 2016.

415 Cfr. S. Brugnolo, La tentazione dell’altro. Avventure dell’identità occidentale

mai.416 Michela Canepari-Labib mette in luce le affinità intertestuali di

Aspettando i barbari con Il deserto dei tartari di Dino Buzzati (1940), pubblicato in Italia per la prima volta sotto il regime fascista. Anche questo romanzo di Buzzati gioca con l’indeterminatezza dell’ambientazione di una narrazione che interessa una fortezza circondata dal deserto, la fortezza Bastiani, per mettere a nudo la falsità e l’illusione di miti, tra i quali quello della costruzione di un nemico (inconsistente in entrambi i romanzi), creati a giustificazione di un regime militare. Solo contro l’Altro, il diverso, percepito come pericoloso e minaccioso, il potere totalitario può convogliare le proprie energie e affermare se stesso.417

Analogamente, anche i barbari del romanzo di Coetzee si configurano come l’arbitraria esternalizzazione delle paure di estinzione che turbano la serenità dei potenti. La loro criminalizzazione, infatti, non è altro che il frutto di una propaganda costruita dagli inviati speciali della Terza Divisione giunti dalla capitale per acquartierarsi nell’anonima e tranquilla cittadina di frontiera con l’intento di sferrare un attacco risolutivo contro la loro imminente, quanto fantomatica invasione. In Aspettando i barbari Coetzee rappresenta un potere centrale che si sente vulnerabile e che per necessità ha individuato in una popolazione che vive presso i suoi confini un vero e proprio capro espiatorio la cui semplice esistenza come Altro da sé viene percepita non solo come una diminuzione, ma come una vera e propria minaccia mortale del Sé. Ammesso che i barbari esistano e non siano semplicemente un’invenzione dell’Impero per poter imporre lo stato d’emergenza, sull’onda emotiva della paura, questo stato d’emergenza legittima il superamento delle barriere morali e, creato uno spazio anomico, induce all’assunzione di qualsiasi forma di intervento ritenuto necessario per la salvaguardia e la sicurezza del Paese, compresa la guerra e la tortura dei civili. A proposito della figura della violenza più volte evocata in questo romanzo Coetzee scrive in un saggio del 1986 che

416 «Come faremo adesso senza i barbari?/ Dopotutto quella gente era una

soluzione». C. Kavafis, Aspettando i barbari, in Settantacinque poesie, a cura di N. Risi e M. Dalmàti, Einaudi, Torino 1992, p. 39.

417Cfr. M. Canepari-Labib, Old Myths – Modern Empires: Power, Language and

«[..R]elations in the torture room provide a metaphor, bare and extreme, for relations between authoritarianism and its victims. In the torture room unlimited force is exterted upon the physical being of an individual in twilight of legal illegality […]».418 È proprio in questa zona d’ombra di

insensibile trapasso dalla civiltà alla barbarie che si collocano le vicende della narrazione di Aspettando i barbari.

Il protagonista e narratore di questo racconto allegorico non viene mai indicato con il nome, ma semplicemente con la funzione burocratica che svolge: è un Magistrato, che si dà arie da intellettuale; un sereno funzionario dell’Impero, appagato semplicemente dal suo ruolo e dalla tranquilla routine di una felicità discreta. Delineato con i tratti di un personaggio fondamentalmente passivo che, incapace di prendere l’iniziativa, di decidere o agire se non quando non può farne a meno, si lascia trasportare dagli eventi, il Magistrato ha sempre eseguito le mansioni impartitegli dalle autorità della capitale, senza mai metterle in discussione, finché con l’arrivo del colonnello Joll, alto funzionario della Terza divisione, specializzato in fatto di torture e inviato dalla capitale per gestire lo stato d’emergenza che più chiaramente il Magistrato definisce come una «specie d’isteria sui barbari… che a ogni generazione, a un certo punto si diffonde»,419 si trova costretto ad assumersi, pur se

indirettamente, la responsabilità per le conseguenze raccapriccianti di quello che ritiene essere uno stupido e ingiusto conflitto inscenato a spese

418 J. M. Coetzee, Into the Dark Chamber: the Writer and the South African

State (1986), in Doubling the Point. Essays and Interviews, (edited by) D.

Attwell, Harvard University Press, Cambridge & London 1992, p. 361-368, p. 363. In questo saggio Coetzee si interroga sulla possibilità per il romanziere di affrontare il tema della tortura praticata all’interno di un regime totalitario sfuggendo sia al pericolo insito nel fatto di mettere la fiction al servizio della Storia, rappresentando cioè l’orrore in modo talmente fedele da sostenere, malgrado tutto, gli scopi del regime di terrorizzare la popolazione, sia a quello, sempre in agguato, di lasciarsi conquistare dal fascino della rappresentazione del dolore e della crudeltà. È essenziale che l’arte trovi un suo modo di rappresentare la violenza, un modo che risponda alle sue esigenze e non a quelle della Storia, appunto. Questo modo, che tende a ricreare l’esperienza dell’altro attraverso l’immaginazione simpatetica, ha un innegabile valore etico perché dà al lettore la possibilità di vedere, ma insieme quella di riflettere, ed è un modo caratteristico di questo, ma anche di tanti altri romanzi di Coetzee.

di poveri gruppi di nomadi e pescatori con i quali la comunità è da sempre stata in buoni rapporti.420 È interessante notare che tutti i personaggi del

romanzo sono indicati unicamente con il ruolo che svolgono o con una loro caratteristica qualificante – la ragazza barbara, il soldato, etc. Gli unici dotati di un nome sono i due militari della Terza divisione, il colonnello Joll e il suo aguzzino Mandel. Il nome Joll è certamente significativo e assurge a momento fondamentale dell’interpretazione. Esso ricorda il Jolly, il giullare, colui che sta al di sopra delle regole del gioco. Indubbia la componente ironica; il militare Joll, infatti, è una figura tutt’altro che ilare, ma al contrario un personaggio mortifero e disumano le cui orbite nere, gli impenetrabili cerchi scuri delle lenti da sole che indossa, fanno presto rassomigliare il suo volto a quello di un teschio. Il nome Joll stabilisce inoltre un legame tra questo personaggio e il protagonista. Se il Jolly delle carte è un’evoluzione della figura del matto dei tarocchi, c’è un’altra figura dei tarocchi che, in Aspettando i barbari, viene rappresentata in maniera molto evidente verso la fine della vicenda, e precisamente quando il Magistrato, al culmine della sua Passione laica, legato con una corda ad un albero e sollevato a testa in giù dai suoi aguzzini, subirà una vera e propria morte simbolica ricreando la figura de “l’appeso”. Simbolo del sacrificio e del rinnovamento, del riconoscimento della colpa e del desiderio di espiarla, il Magistrato, diventato “l’appeso”, riconosce la sua appartenenza (ribadita più volte nel corso del romanzo a cominciare dall’ossessione di entrambi questi due uomini, il Magistrato e il colonnello, di vedere qualcosa – la verità – davanti alla quale tutti e due – sprofondati nella pretesa poi costantemente frustrata, che la verità possa essere sempre conosciuta e comunicata – rimarranno ugualmente e inesorabilmente ciechi) all’Impero del torturatore.

420 «Non volevo impegolarmi in questa cosa. Sono un magistrato, un funzionario

responsabile, al servizio dell’Impero; faccio il mio lavoro in questo pigro territorio di frontiera e aspetto di andare in pensione. Incasso tasse e decime, amministro le terre demaniali, […]. Per il resto guardo l’alba e il tramonto, mangio e dormo, e mi accontento. […] Non ho chiesto altro che una vita tranquilla in tempi tranquilli». Ibidem.

Il racconto si apre con l’interrogatorio di due barbari arrestati dai soldati in seguito a una razzia di bestiame avvenuta nelle vicinanze. Nonostante la loro evidente inoffensività, il colonnello Joll, nascosto dietro il suo bel paio di lenti da sole nere a specchio, così «fastidiosamente pulito ed elegante» da sembrare il «discendente diretto del ragioniere capo di Cuore di tenebra»,421 decide comunque di interrogarli. A questo punto la

narrazione svela al lettore tutta la perversione del processo inquisitorio: «– C’è un tono particolare, – dice Joll. – Un tono particolare nella voce dell’uomo che dice la verità. L’allenamento e l’esperienza ci insegnano a

riconoscere quel tono. […] Mi riferisco a una situazione particolare. A una

situazione in cui cerco la verità e in cui devo esercitare una certa pressione per scoprirla. In principio mi dicono solo bugie, […] succede sempre così: prima bugie, poi pressione, poi ancora bugie, ancora pressione, quindi il crollo, ancora pressione alla fine la verità. È così che si arriva alla verità».422

Nelle parole del colonnello la verità è il risultato di un processo meccanico, di una forza applicata e ripetutamente aumentata che non ha nulla di personale,423 come nulla di personale ha il ricercatore contro le cavie del

suo laboratorio; entrambi “lavorano” in virtù di una giusta causa. Perciò l’uso innocente del termine “pressione” quando si dovrebbe dire “dolore”; perché il dolore dell’altro, per colui che è il persecutore, semplicemente non esiste come non esiste l’orrore di una pratica chiamata tortura. Ma quale credibilità possono avere rivelazioni estorte violentemente a uomini prigionieri di un corpo straziato dalla sofferenza? Come può un inquisitore avere la certezza di aver colto la verità? L’unilateralità di quello che è un procedimento potenzialmente interminabile è esplicitata da un’asserzione come questa: «Solo io posso sapere quando il mio lavoro sarà concluso»;424 mentre le obiezioni del Magistrato, eluse dalla tanto cinica e

decantata esperienza nel settore, l’unica in grado di affinare l’orecchio alla ricezione di una certa “tonalità” nella voce di chi dice la verità; il “tono”

421L. Fiorella, Figure del male nella narrativa di J. M. Coetzee, op. cit., p. 82. 422J. M. Coetzee, Aspettando i barbari, op. cit., p. 8. (Corsivo aggiunto).

423«E non è per cattiveria […]. I miei aguzzini hanno anche una vita loro. Io non

sono il centro del loro universo». Ivi, p. 145.

della verità… o piuttosto il grido dis-umano di un corpo straziato dal dolore… l’unico capace di rendere veramente credibile il racconto della vittima agli occhi dei rappresentanti del potere, i suoi aguzzini. Per il torturatore si tratta semplicemente del potere di ridurre tutte le vittime a quel minimo comune denominare rappresentato dalla condizione universale di estrema fragilità e precarietà della sostanza del corpo che, più avanti, quando sarà lo stesso Magistrato a divenire oggetto di tortura, con toni amaramente ironici Coetzee definirà come una condizione di umanità associandola peraltro, per ciò che riguarda la comune sofferenza del corpo, a quella di animalità. Ma prima, prima di diventare lui stesso vittima del colonnello Joll, sono parecchie ed esplicite le asserzioni portavoce dello sguardo introspettivo di un Magistrato che, pur tentando disperatamente di porre una distanza ontologica fra sé e gli oppressori,425 è

contemporaneamente e perfettamente consapevole di continuare ad appartenere al sistema che opprime e distrugge, perfettamente consapevole, dunque, di assumere agli occhi dei prigionieri cui vorrebbe portare sollievo, soltanto un altro volto del carnefice.426 Nonostante il

Magistrato cerchi di dissuadere il Colonnello dai suoi disegni di guerra,427

425 «la sua presenza mi disturba al punto che nei suoi confronti non riesco a

tenere altro che un comportamento corretto e niente più. […] Lo guardo e mi chiedo come si deve essere sentito la prima volta: invitato come apprendista a stringere le pinze o a girare la vite o a fare quel che fanno, qualunque cosa sia, avrà provato un piccolo brivido al pensiero che stava varcando una soglia proibita? Mi sorprendo a chiedermi se osservi un qualche suo privato rituale di purificazione, […] che gli permetta di tornare tra gli uomini, di sedersi a tavola insieme a loro. Forse si lava accuratamente le mani, o si cambia da capo a piedi». Ivi, p. 16.

426 «D’altro canto chi sono io per asserire la mia distanza da lui? Bevo con lui,

mangio con lui, lo porto a spasso, […] L’impero non impone ai suoi servitori di amarsi, ma solo di fare il loro dovere». Ivi, p. 8. «Perché io non ero, come mi piaceva credere, l’opposto indulgente ed edonista del gelido, rude colonnello. Ero la menzogna che l’impero si racconta quando le cose vanno bene, e lui la verità che l’Impero dice quando comincia a soffiare vento di tempesta. Due facce dell’impero, né più né meno». Ivi, p. 170.

427 «Cerco di dissuaderlo. – Senza offesa, colonnello, – dico, – lei non è un

soldato di mestiere, non ha mai fatto una campagna in queste lande inospitali. […] E non può contare sull’aiuto dei soldati, sono solo contadini di leva, […]. In tutta sincerità le consiglio di non partire. […] – solo perché se vi doveste perdere

questi, «instancabile»428 nella ricerca della verità, dà inizio ad una serie di

rastrellamenti nelle terre oltre confine nonché ad un’interminabile serie di atroci “interrogatori” che distruggono letteralmente la tranquillità della cittadina, ma soprattutto quella del protagonista:

«Maledico il colonnello Joll per tutti i guai e la vergogna che mi ha portato. […] Volto le spalle al trionfo del colonnello e me ne ritorno nelle mie stanze. […] So troppo. E da questo sapere, una volta che ne sei contagiato, non c’è scampo. […] Me ne sto nel mio appartamento con le finestre chiuse, […] cerco di leggere e intanto mi sforzo di sentire o di non sentire i suoni della violenza. […] Ho perduto la gioia di vivere, […] tiro per le lunghe ogni piccolo compito per riempire le ore».429

Concluse le sue indagini Joll rientra temporaneamente nella capitale mentre il Magistrato rilascia i prigionieri nella consapevolezza che nulla potrà mai cancellare l’orrore di quanto è accaduto.430 A questo è dovuta la

decisione di prendersi cura di una giovane barbara che non ha potuto seguire i compagni a causa delle offese subite nel corso degli interrogatori che l’hanno resa cieca e storpia. Portandola a casa, prendendosene cura, nutrendola e lavandola, massaggiandole i piedi per alleviarle i dolori e dormendo con lei, il Magistrato istaura una relazione ambigua e perversa all’insegna di un erotismo feticistico che neppure lui stesso è capace di spiegarsi. A proposito, è interessante notare come il rapporto del Magistrato con la giovane barbara anticipi il presunto stupro della ragazza di colore Melanie Isaacs da parte del professor Lurie, protagonista di Vergogna. Come vedremo più avanti, infatti, anche Lurie, simbolo di una tradizione umanistica che non è più percepita come centrale e fondativa, ha molte caratteristiche in comune con il Magistrato di Coetzee: sarebbe compito nostro venirvi a cercare e riportarvi alla civiltà –. In silenzio assaporiamo, dai nostri diversi punti di vista, l’ironia della definizione». Ivi, pp. 15-16. (Corsivo aggiunto).

428 Ivi, p. 28. 429Ivi, pp. 26-29.

430 «Se almeno questo oscuro capitolo della storia del mondo si chiudesse qui,

[…] e noi giurassimo di ricominciare tutto da capo, di fare un impero senza più ingiustizia né dolore. […] Ma non è roba per me. Gli uomini nuovi dell’Impero, loro si che credono nella palingenesi, nei nuovi capitoli, nelle pagine bianche». Ivi, p. 31.

intellettuale, maschio, bianco, maturo, afflitto da un corpo ancora pieno di desiderio che già sente il logorio del tempo, disincantato, ma pacificamente approdato a una felicità discreta fatta di abitudine e di autocompiacimento che però, ad un certo punto, viene infranta da un avvenimento che mette in moto l’intreccio della narrazione. Nel rapporto di sollecitudine e cura istaurato con la ragazza e nell’imposizione di un’intimità che lei non ha cercato, ma che comunque, date le sue “condizioni”, è stata costretta ad accettare, dobbiamo certamente riconoscere non solo tutta la sofferenza del Magistrato legata al suo bisogno di colmare la distanza che lo separa da lei, ma insieme, e in quello che si rivelerà essere un ossessivo bisogno di risposte, anche un vero e proprio atto di prevaricazione, una coincidenza di intenti fra le sue azioni e quelle degli aguzzini. Il suo ruolo, dunque, seppure non violento resta pur sempre quello del “carnefice”, di colui cioè che ha fatto della persona dell’Altro nient’altro che un corpo, un oggetto, di cui disporre a piacimento data la posizione di vantaggio:

«Ha la bocca chiusa, le labbra serrate, sicuramente anche le orecchie; non ne vuole sapere di vecchi piagnucolosi e dei loro sensi di colpa. Le giro intorno, […] disgustato di me. […] La distanza tra me e i suoi aguzzini, mi rendo conto, è insignificante. Rabbrividisco».431

La protezione data alla ragazza poggia, dunque, su basi ambivalenti. Da un lato il senso di colpa per non essere stato capace di impedire lo strazio,432

dall’altro, e in accordo con la percezione di una distanza relativa del Magistrato rispetto agli aguzzini rappresentanti del potere, una forte attrazione fisica per il corpo martoriato della mendicante,433 un corpo

chiuso che pare custodisca un segreto che il Magistrato si affanna

431Ivi, p. 36.

432«questo corpo nel mio letto, un corpo di cui io sono responsabile, o così pare,

altrimenti perché lo terrei qui?». Ivi, p. 55. «Cosa provi per gli uomini che ti hanno fatto questo?». p. 52.

433 «– Fammi vedere i tuoi piedi, – le dico […]. – fammi vedere che cosa hanno

fatto ai tuoi piedi. Lei non mi aiuta, ma non mi ostacola. […] – Fammi vedere, – dico». Ivi, p. 36.

disperatamente di conoscere e decifrare,434 ma che gli rimarrà, proprio

come una superficie riflettente e restituiva soltanto della sua colpa,435 per

sempre estraneo, impenetrabile ed inconoscibile.436 Nel romanzo

l’impossibilità di comprendere veramente il dolore dell’altro è data dal segno irreversibile delle cicatrici. La cicatrice è il segno dell’esperienza del dolore, dell’umiliazione e insieme il segno di appartenenza alla furia distruttiva di qualcuno che ha saccheggiato la sacralità del nostro corpo disponendone come fosse un oggetto, come fosse una proprietà.437 È a

questo corpo sfregiato dalla conoscenza di un segreto di fatto inesprimibile nel linguaggio dei sani perché irriducibile al loro pensiero che, il Magistrato rivolge il suo incessante interrogatorio, un interrogatorio fatto di domande che chiedono di raccontare, di dare forma intelligibile al dolore che lo ha rovinato, che aspirano ad entrare sempre più in profondità, quasi a “dissezionare”,438 secondo un atteggiamento che suo

434 «Mi è sempre più chiaro che fino a che non avrò decifrato e capito i segni sul

corpo di questa ragazza non potrò lasciarla. Non posso lasciarla. […] Torno indietro nel tempo, cercando di rintracciare un’immagine di com’era lei prima, […] quando, insieme agli altri, si è seduta nel cortile della caserma in attesa di quello che sarebbe successo». Ivi, pp. 40-43.

435«E con un moto di orrore vedo la risposta che aspettavo da sempre: mi si offre

nell’immagine di una faccia nascosta dietro due neri e vitrei occhi d’insetto che

non rispondono al mio sguardo, ma solo rimandano il mio riflesso raddoppiato.

[…] No! No! No! Grido a me stesso. Sono io che mi inganno per vanità, io che immagino questi significati e queste corrispondenze. […] Non c’è niente che colleghi me agli aguzzini, […]. Debbo ribadire la mia distanza dal colonnello Joll! Non voglio scontare io i suoi crimini!». Ivi, p. 56. (Corsivo aggiunto).

436«Non so che fare con lei, non più di quanto una nuvola in cielo sappia che fare

con un’altra nuvola». Ivi, p. 43. «[…] con questa donna qui è come se non ci fosse un interno, solo una superficie sulla quale faccio avanti e indietro inutilmente, cercando un ingresso. È così che si saranno sentiti i suoi torturatori quando andavano a caccia del suo segreto, qualunque esso fosse? Per la prima volta sento