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Gli animali nel pensiero moderno

Storia e sviluppi della filosofia animalista

2.3 Gli animali nel pensiero moderno

Anche l’età moderna conosce una critica radicale della tradizionale visione antropocentrica che separa l’essere umano da tutti gli altri esseri del creato. Nei suoi Essais (1580) Michel E. de Montaigne (1533-1592), ispirandosi a Plutarco e più in generale alla migliore cultura filosofica antica, esalta la bellezza, l’intelligenza e il linguaggio degli animali, ma soprattutto si mostra risolutamente contrario all’arrogante fallacia dell’antropocentrismo. Nel saggio Della crudeltà, Montaigne condanna la caccia e confessa di non aver mai potuto «vedere senza disgusto inseguire e uccidere una bestia innocente, senza difesa, e da cui noi non riceviamo offesa alcuna».178 Convinto che «sia la natura stessa a istillare nell’uomo

qualche istinto verso l’inumanità», come dimostra il fatto che «nessuno si diverte vedendo delle bestie giocare fra loro e accarezzarsi e nessuno dovrebbe divertirsi vedendole sbranarsi e squartarsi»,179 cosa che, invece,

fin troppo spesso accade, scrive espressamente che le nature «sanguinarie nei confronti delle bestie, dimostrano propensione per la crudeltà».180

Inoltre, riprendendo il concetto della comune parentela con il mondo animale copiosamente sostenuto dai filosofi presocratici Montaigne sostiene che:

«molti popoli, specialmente fra i più antichi e nobili, non soltanto hanno tenuto alcune bestie in società e compagnia con loro, ma hanno loro assegnato una dignità molto alta, al di sopra di loro stessi, ritenendole a volte familiari e favorite dei loro dèi. Inoltre, avevano per loro rispetto e riverenza più che umana. Altri popoli non riconoscono addirittura nessun altro Dio o divinità all’infuori di loro […]. L’interpretazione stessa che Plutarco ci offre […] dice che non era il gatto, o il bue, per esempio, che gli egizi adoravano, ma che adoravano in quelle bestie qualche immagine delle facoltà divine, […]. Ma quando incontro, […] dei

ragionamenti che tentano di dimostrare la grande rassomiglianza tra noi e gli animali, […] e con quanta verosimiglianza vengono paragonati a noi, certo, io sento abbassarsi molto la nostra presunzione e così declino volentieri quella sovranità immaginaria che ci è data sopra le altre creature. […] c’è nondimeno

un certo rispetto e un certo dovere di umanità che ci lega non solo alle bestie, che

178Cfr. M. Lessona Fasano, Le orme dell’amore, op. cit., pp. 54-55.

179 M. de Montaigne, Della crudeltà, II, 11, 772-776 in Id., L’etica dei piaceri (a

cura di) C. Montaleone, Feltrinelli, Milano 2016, p. 166.

hanno vita e sentimenti, ma anche agli alberi e alle piante. Noi dobbiamo giustizia agli uomini, e grazie e benignità alle altre creature che possono esserne meritevoli. Vi sono delle relazioni e obblighi reciproci fra esse e noi».181

Ancora troviamo che, «senza alcuna reticenza» ad ammetterla, Montaigne elargisce una preziosa e spontanea dichiarazione sulla sua irresistibile, e forse ai più «puerile», propensione a ricambiare sempre teneramente l’amore, l’affetto e le feste che il proprio cane gli «fa inaspettatamente o che [gli] richiede».182

Nella sua Apologia di Raymond Sebond, testo animalista tra i più noti dell’età moderna, leggiamo:

«L’intelligenza è in tutti gli dèi, dice Platone,183 e in pochissimi uomini. […] che

mi faccia capire con la forza del suo ragionamento su quali basi ha fondato quei grandi privilegi che crede di avere sulle altre creature. Chi l’ha persuaso che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di quelle fiaccole rotanti così arditamente sul suo capo, […] siano stati prodotti e durino per tanti secoli per l sua utilità e per il suo servizio? È possibile immaginare qualcosa di più ridicolo dell’idea che questa indigente e infelice creatura, che non è neppure

padrona di se stessa […] si dica padrona e signora dell’universo, del quale non è

in suo potere conoscere la minima parte e tanto meno governarla? […] Ci faccia vedere le credenziali di questo grande e bell’incarico. […] Crederemo forse a quello là: Per chi dunque diremo che è stato fatto il mondo? Certo per gli esseri

animati che hanno uso di ragione. Questi sono gli dèi e gli uomini, dei quali sicuramente non esiste nulla di meglio.184Non scherniremo mai abbastanza

l’impudenza di questo accoppiamento. Ma poveretto, che cosa ha in sé che sia degno di tale prerogativa? […] La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. L’uomo è la più catastrofica e fragile di tutte le creature e nel contempo la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, nel fango e nel letame del mondo, […] all’ultimo piano dell’edificio e al più lontano dalla volta celeste, […] e con l’immaginazione va elevandosi ben al di sopra del cerchio della luna e si mette il cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si paragona a Dio, che si conferisce le prerogative divine, che vaglia e separa se stesso dalla calca delle altre creature, dice qual è il posto degli animali suoi fratelli e compagni e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che più gli aggrada. Come fa a conoscere grazie all’intelligenza i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto tra essi e noi desume la bestialità che attribuisce loro? Quando gioco con la mia gatta, chi sa se lei non fa di me il suo

181 M. de Montaigne, Della crudeltà, in Id., L’etica dei piaceri, op. cit., pp. 167-

168. (Corsivo aggiunto).

182Cfr. ivi, p. 168.

183Platone, Timeo, 51e, ivi, p. 178.

passatempo più che io di lei? Nella sua rappresentazione dell’età dell’Oro sotto saturno, Platone annovera tra i principali vantaggi dell’uomo di allora la capacità di comunicare con le bestie. Informandosi e imparando da loro, […] acquistava un notevole e intelligente buon senso, mediante cui conduceva una vita di gran lunga più felice di quanto riuscirebbe a noi. […] quel difetto che impedisce la comunicazione tra esse e noi, perché non è tanto nostro quanto loro? Resta ancora da indovinare di chi è la colpa del non intenderci, poiché noi non le comprendiamo più di quanto esse comprendano noi. Per questa stessa ragione, esse possono considerarci bestie, come noi le consideriamo. Non c’è di che meravigliarsi se non le comprendiamo, come non comprendiamo né i Baschi né i Trogloditi. […] Del resto, scopriamo con tutta evidenza che, tra esse c’è una piena comunicazione, e che si capiscono fra di loro, non solo quelle della stessa specie, ma anche di specie diverse. Anche le greggi, prive di parola, e perfino le razze

ferine sogliono emettere voci dissimili e varie, se le vince la paura o il dolore, o cresce in loro la gioia.185[…]».186

E infine, dopo aver riportato numerosi esempi a riprova dell’intelligente industriosità degli animali, solitamente attribuita, per lo più in senso dispregiativo, all’istinto naturale, conclude così:

«noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto; tutto ciò che sta sotto il cielo, dice il saggio, è sottomesso a una stessa legge e a una stessa sorte, […]. Bisogna costringere l’uomo e obbligarlo a stare entro le barriere di quest’ordine. Il miserabile non ha alcuna remora nel tentare di scavalcarle, ma è legato e vincolato, è soggetto alle stesse prescrizioni delle altre creature della sua specie […] senza alcuna peculiarità, alcuna superiorità effettiva ed essenziale. […]. Per tornare al mio discorso, dico dunque che non bisogna affatto ritenere che le bestie facciano per inclinazione naturale e forzata le stesse cose che noi facciamo per nostra scelta e per arte. Da effetti simili dobbiamo indurre facoltà simili e, di conseguenza, riconoscere che quel medesimo raziocinio, quel medesimo ordine al quale noi obbediamo nell’agire corrisponde a quello degli animali. Perché immaginiamo in loro questa costrizione naturale, noi che non proviamo niente di simile? […] Insomma, attribuiamo agli altri animali dei doni naturali allo scopo di nobilitare noi stessi con beni acquisiti: molto ingenuamente, mi sembra».187

Molto bella, a seguire, è la posizione di Giordano Bruno (1548-1600). Antiaristotelico e antitomista, seguace di Pitagora, Platone, Plotino e Porfirio, Bruno combatte il geocentrismo, sostenendo l’infinità

185Lucrezio, De rerum natura, V, 1059-1061, ivi, p. 183.

186 Cfr. M. de Montaigne, Apologia di Raymond Sebond, II, 12, 798-814, ivi, pp.

178-183. (Primo corsivo aggiunto).

dell’universo, e l’antropocentrismo, sostenendo che l’anima dell’uomo è della stessa essenza di tutti gli altri esseri viventi:

«[L’anima] dell’uomo è la medesima in essenza specifica e generica con quella delle mosche, ostriche marine e piante e di qualsivoglia cosa che si trova animata o abbia anima. […] Or cotal spirito, secondo il fato o providenza, ordine o fortuna, viene a giongersi or ad una specie di corpo, or ad un’altra; e secondo la raggione della diversità di complessioni e membri, viene ad avere diversi gradi e perfezioni d’ingegno ed operazioni».188

Nel pensiero di Bruno Dio non è al di sopra della natura, ma immanente ad essa; Dio è l’unica anima del mondo. Perciò tutto il mondo è un immenso organismo vivente, senza luoghi e senza esseri centrali o superiori, e l’uomo, così come la terra, sono soltanto un microcosmo in mezzo ad innumerevoli altri. Se tutto ciò che ha vita è intriso della medesima anima è solo il tipo di organizzazione corporea a stabilire un limite alla profondità della sua azione vivificante. In altre parole:

«l’uomo non sarebbe altro che un serpente, se venisse a contraere, come dentro un ceppo, le braccia e gambe, e l’ossa tutte concorressero alla formazion d’una spina, […] in luogo di parlar sibilarebbe; in luogo di caminare, serperebbe; in luogo d’edificarsi palaggio, si caverebbe un pertugio».189

Sono gli anni della scoperta della teoria eliocentrica di Copernico, anni di profondo rivolgimento ma anche di profonda avversione al passaggio da una visione finita dell’universo ad una infinita. Gli anni della scoperta della Colombia, dunque, della conferma dell’esistenza degli Antipodi che, sostenuta fin dall’antichità già dal pitagorismo, era sempre stata fortemente rinnegata dai Padri della Chiesa in difesa di una visione della terra piana. Anni difficili che, seppur non immediatamente, costringono l’uomo ad un ridimensionamento. Il più tragico rifiuto della verità, che include l’abominio per la scoperta della diversità, si concretizza con lo «sterminio apocalittico»190 di settanta milioni di persone solo nel periodo

che va dal 1492 al 1550. È questo lo sfondo temporale in cui Bruno, uno tra

188 G. Bruno, Cabala del cavallo pegaseo (1585) in G. Ditadi, I filosofi e gli

animali, op. cit., p. 146.

189Cfr. ivi, p. 147. 190Cfr. ivi, pp. 35-36.

i pochi ad alzare la voce contro il barbaro massacro, ricorda agli uomini civili la follia del considerarsi appartenenti a una specie suprema e addirittura estranea alla natura:

«Quindi possete capire esser possibile che molti animali possono aver più ingegno e molto maggior lume d’intelletto che l’uomo […] ma per penuria d’instrumenti gli viene ad essere inferiore, come quello per ricchezza e dono de medesimi gli è tanto superiore. […] esamina dentro te stesso quel che sarrebe, se, posto che l’uomo avesse al doppio d’ingegno che non ave, e l’intelletto agente gli splendesse tanto più chiaro che non gli splende, e con tutto ciò le mani gli venesser trasformate in forma de doi piedi, rimanendogli tutto l’altro nel suo ordinario intiero; dimmi, dove potrebbe impune esser la conversazion de gli uomini? Come potrebero istituirsi e durar le fameglie […] più dei cavalli, cervii, porci, […]? E per conseguenza, dove sarrebbono le istituzioni de dottrine, le

invenzioni de discipline, […] le strutture de gli edifici ed altre cose assai che significano la grandezza ed eccellenza umana, e fanno l’uomo trionfator veramente invitto sopra l’altre specie? Tutto questo, se oculatamente guardi, si referisce non tanto principalmente al dettato de l’ingegno, quanto a quello della mano, organo degli organi».191

Se, come abbiamo visto, con il sistema cartesiano l’autorità teologica maggioritaria raggiunge la vetta del parossismo, l’avvento dell’età moderna rappresenta insieme anche l’avvio di un’importante inversione di tendenza. Seppur gradualmente – non mancano le eccezioni – si comincia a parlare dell’esistenza di un dovere morale diretto da parte dell’uomo verso l’animale come quello di non causargli sofferenza, di non maltrattarlo per se stesso e non più semplicemente come mezzo per l’educazione morale di soggetti umani. Divenuta oggetto di interesse di molti pensatori, la crescente attenzione verso le condizioni del mondo animale finisce per concretizzarsi, tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, oltre che nella promulgazione di provvedimenti legislativi (precorritrice fu l’Inghilterra nel 1822,192 ma iniziative analoghe di

191Ivi, p. 147. (Corsivo aggiunto).

192 Sebbene provvedimenti pionieristici risalgano già al 1800 e al 1809,

rispettivamente ad opera di Sir William Pulteney e di Lord Erskine, è nel 1822 che le istanze di movimento in favore degli animali vengono tradotte in legge. Infatti, su proposta di Richard Martin il Parlamento inglese promulga il Martin’s

Act e, per la prima volta nella storia, non solo la crudeltà verso gli animali

sensibilizzazione e protezione animale sorgeranno presto in tutta Europa, in Germania, Scandinavia, Francia e negli Stati Uniti) anche nella nascita di associazioni per la protezione degli animali193 quali la Society for the

Prevention of Cruelty to Animals (1824) nata per segnalare e punire atti di brutalità nei confronti delle bestie (i suoi membri avevano, infatti, anche il potere di emanare sanzioni) e, poiché prende sempre più consistenza l’idea della giustezza dell’alimentazione vegetariana, la prima Vegetarian Society (1847).

A partire dal XVII secolo, prendendo apertamente le distanze dallo sconcertante meccanicismo cartesiano, sono molte le voci che si levano in favore della dignità animale in vista di un abbattimento della barriera di separazione ontologica tra l’uomo e la bestia. Se molte di esse,194 limitando

sono giudicati responsabili. Cfr. M. Lessona Fasano, Le orme dell’amore, op. cit., 83.

193Cfr. F. Allegri, Gli animali e l’etica, op. cit., p. 89.

194 Riprendendo l’immagine del mondo come grande organismo e l’immagine

unitaria della vita di ispirazione neoplatonica, Tommaso Campanella (1568-1639) scrive in Del senso delle cose e della magia che gli uomini e gli animali sono composti dagli stessi elementi (come già fece Teofrasto nel suo Della pietà) e legati dalla medesima struttura sensibile: «Che tutti gli animali sentano, nessuno ne dubita. Or che molti abbino memoria si vede, […]. Che abbino reminescenza pure è noto, perché quando patiscono qualche gran caso doloroso, per ogni passo simile a quello s’adombrano e spaventano. Dunque dal simile il simile in loro si sveglia; dunque han discorso, perché il medesimo è conoscere dall’anticipato simulacro il presente e dal presente un altro consimile». T. Campanella, Il senso

delle cose e la magia in G. Ditadi, I filosofi e gli animali, op. cit., p. 148-149. G.

W. Leibniz (1646-1716) ritiene, contro la posizione cartesiana, che gli animali siano organismi dotati di senso e di memoria, ma nello stesso tempo che siano privi di ragione ed autocoscienza: «poiché nelle bestie tutto ciò che riguarda la percezione e la sensibilità si presenta come nell’uomo e la natura è uniforme nella sua varietà, uniforme quanto ai principi e varia quanto ai modi, è verosimile che anche nei bruti ci sia percezione, ossia si presume che siano dotati di percezione, fino a prova contraria. I cartesiani, per negare alle bestie la percezione, adducono la ragione che, se si ammette questo, bisogna attribuire ai bruti anime indefettibili. Ma questa conseguenza, che essi ritengono assurda, non è per nulla assurda […] perciò anche i corpi inorganici dei bruti sono forniti di anima. […] Frattanto, affinché non sembri che equipariamo troppo l’uomo e il bruto, si deve affermare che grandissimo è il dislivello tra la percezione degli uomini e quella dei bruti. Infatti […] c’è un grado intermedio che chiamiamo senso e che riconosciamo alle bestie ed un grado più alto che chiamiamo pensiero. Il pensiero è percezione congiunta a ragione e le bestie, per quanto possiamo osservare, ne sono prive. […] giacché, mentre taluni negano ai bruti perfino la sensibilità, altri invece attribuiscono ad essi perfino la ragione adducendo molti esempi nei quali sembra che i bruti giungano a trarre conseguenze, bisogna affermare che due

la critica alla reificazione cartesiana dell’animale macchina, contribuiscono a restituire agli animali, attraverso l’evidente analogia fisiologica fra noi e le specie non umane, la dignità di esseri senzienti, sono le associazioni […] quelle empiriche e quelle razionali. Le associazioni empiriche sono comuni a noi e alle bestie e consistono nell’aspettare che quelle cose che altre volte si sono esperite congiunte, lo saranno di nuovo. Così i cani che sono stati battuti per aver fatto cose che non dovevano, aspettano di nuovo le percosse quando rifanno le stesse cose e perciò si trattengono dall’azione, il che hanno in comune con i bambini. […] L’uomo invece, in quanto agisce non empiricamente, ma razionalmente, non si fida dei soli esperimenti o delle induzioni particolari a posteriori, ma procede a priori per ragioni». G. W. Leibniz,

Commentatio de Anima Brutorum (1710) in Id., Scritti filosofici, Utet, Torino

1968, pp. 724-726. Ivi, p. 171-172. Nel suo Dizionario, P. Bayle (1647-1706) scrive contro i peripatetici e contro i cartesiani: «un cane picchiato per essersi avventato su di un piatto di carne, non si azzarda più a farlo, quando vede il padrone minacciarlo con un bastone. […] il cane deve necessariamente ragionare: deve paragonare il presente con il passato, traendone una conclusione; deve ricordare sia i colpi che gli sono stati inferti, sia la ragione per la quale li ha ricevuti; […]. Come spiegare allora questo fatto con la semplice supposizione di un’anima che sente, […] senza trarre alcuna conclusione? […] Nulla è più divertente del vedere con quale sicumera gli scolastici vogliono imporre dei limiti alla conoscenza delle bestie. […] Accordiamo pure loro tutto quello che suppongono. Cosa sperano di poterne ricavare? Credono forse con questi mezzi di convincere le persone capaci di ragionare che l’anima delle bestie non appartiene alla stessa specie dell’anima dell’uomo? Questa loro pretesa è senza alcun fondamento. Per chiunque sappia ragionare è evidente che qualsiasi sostanza, suscettibile di qualche sensazione, sa anche di sentire; […]. Come si può avere il coraggio di dire che le bestie non hanno la capacità di riflettere sui loro pensieri e di trarne una conseguenza? […] Vorrei domandare a questi signori se, a loro avviso, sarebbe giusto dire che l’anima di un uomo all’età di trentacinque anni appartenga a una specie diversa che all’età di un mese, o che l’anima di un […] ebete, […] non sia sostanzialmente perfetta quanto l’anima di un uomo nel pieno delle sue capacità. Respingerebbero senza dubbio questo pensiero, […] non vi è infatti dubbio, che l’anima, che nel fanciullo si limita solo a sentire, è la stessa anima che nell’adulto medita e ragiona solidamente; […] la stessa che non fa che dire sciocchezze in un vecchio, farneticare in un pazzo, percepire in un fanciullo. […] C’è un’infinità di pensieri, di sensazioni, di passioni, di cui quest’anima è perfettamente capace, anche se in questa vita non ne è mai affetta; se fosse unita a organi diversi […] penserebbe diversamente da come pensa ora, […]. È facile applicare quanto abbiamo ora detto all’anima delle bestie. Si ammette che essa sente i corpi, […] che ne desidera alcuni e ne rifugge altri. Ce n’è abbastanza: essa è dunque una sostanza che pensa, capace cioè di pensiero in generale. […] Aristotele e Cicerone, all’età di un anno non avevano pensieri più sublimi di quelli di un cane, […]. È dunque un fatto puramente accidentale che essi abbiano superato gli animali; ciò è avvenuto perché gli organi da cui dipendevano i loro pensieri hanno acquisito certe modificazioni, che gli organi delle bestie non acquistano mai. L’anima di un cane, unita agli organi di Aristotele o di Cicerone, avrebbe sicuramente acquisito tutti i lumi di questi due grandi uomini». P. Bayle, Dizionario storico critico (1740), ivi, pp. 175-182.

molte sono anche quelle che, invece, riconoscendo la straordinaria ricchezza di implicazioni proprie al tema della bestia, non si sono limitate solo a ridurre la distanza ontologica rispetto all’uomo ammettendo che gli animali abbiano percezioni o stati di coscienza (dunque, similmente all’uomo siano in grado di provare, gioia, dolore e sofferenza), ritenendo questa, evidentemente, come una concezione ancora molto lontana dall’ammettere la necessità di una riflessione empatica che, riconoscendo rilevanza morale alla loro sofferenza, restituisca piuttosto agli animali il diritto di essere felici e di essere considerati soggetti di una vita che vuole essere vissuta. La speranza di un risveglio delle coscienze trova sostegno nella voce accorata di quei filosofi che, proprio a partire dalla consapevolezza che il dolore – sia esso inflitto all’uomo sia esso inflitto