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Gli animali nel pensiero greco-romano

Storia e sviluppi della filosofia animalista

2.1 Gli animali nel pensiero greco-romano

Anche nella cultura greco-romana si ritrovano solidi elementi di distacco rispetto alla tradizione di pensiero predominante. Innanzitutto si ricorda che tra le prescrizioni morali di Eleusi vi era la raccomandazione di «non essere crudeli con le bestie»118 e che a partire dal VI sec. a.C., accanto ai

misteri eleusini, si diffonde nella Grecia antica la predicazione dei misteri orfici (da Orfeo, personaggio della mitologia greca). Orfeo invitava all’amore e alla benevolenza tra gli uomini e gli animali e i suoi seguaci si astenevano dal mangiare carne, credevano della metempsicosi e ritenevano che gli animali fossero dotati come gli uomini di un’anima capace di trasmigrare in un altro essere. Si pensi, inoltre, all’affetto manifestato per gli animali tra la gente comune e del quale recano testimonianza molti dei monumenti pervenutici (vasi, statue, steli funerarie); su questi, proprio a riprova del posto che essi occupavano tra la gente, troviamo che gli uomini e i propri animali sono spesso raffigurati insieme. Allo stesso modo si guardino le celebrazioni di funerali e le stesure di epitaffi rivolte agli animali da parte dei loro padroni. Alcune fonti testimoniano a favore del grande rispetto tenuto nei confronti di quegli animali che si erano resi protagonisti di azioni meritevoli o eroiche. Nel De sollertia animalium di Plutarco leggiamo, infatti, a proposito di

117 S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, in Id., Opere 1915-1917,

Boringhieri, Torino 1976, 12 voll., vol. 8, p. 660.

118 Porfirio, De abstinentia carnibus, XXII, in M. Lessona Fasano, Le orme

una mula che era stata mantenuta fino alla morte a spese dello Stato come ringraziamento per i molti anni di lavoro prestato al servizio della costruzione dei monumenti dell’Acropoli, ma anche di un cane chiamato Capparo che ricevette lo stesso trattamento per aver aiutato a catturare un ladro sacrilego del tempio di Asclepio ad Atene.119

Nella filosofia greca la storia dell’animalismo ha inizio con Pitagora (570 a.C.). Nato a Samo, Pitagora si trasferisce poi nella Magna grecia dove fonda la famosa scuola. Secondo Porfirio Pitagora viaggiò molto e conobbe anche Zaratustra. Sebbene di lui si posseggano solo alcuni “discussi” frammenti, numerose fonti, per lo più concordi nell’attribuire a Pitagora grande rispetto e considerazione nei confronti di tutti gli animali, testimoniano a favore della sua condanna per i sacrifici di sangue e per l’alimentazione carnea, pratiche considerate colpevoli (in virtù della credenza nella metempsicosi) del rischio di togliere la vita ad un’anima reincarnata. Tuttavia, mentre secondo alcune fonti l’astensione prescritta da Pitagora era totale per altre era parziale. Porfirio ci dice che per Pitagora «[…] l’anima è immortale; poi che essa trasmigra in altre specie di esseri viventi; e inoltre che, secondo determinati periodi di tempo, ciò che una volta è esistito ritorna, che nulla è nuovo in senso assoluto, e che tutti gli esseri animati devono essere considerati della stessa natura. […] Pitagora tanto aborriva da uccisioni e uccisori, che non solo si asteneva dal mangiare esseri viventi, ma neppure si accostava a macellai e cacciatori».120 Giamblico (riportando una testimonianza che sembrerebbe

fare riferimento più che ad un’astensione completa, a due livelli di astensione – totale o parziale – rivolti alle due tipologie distinte di seguaci, filosofi e legislatori da un lato, discepoli meno filosofi dall’altro) dice a proposito di Pitagora che:

«A coloro che tra i filosofi erano più dotati di capacità speculativa ed erano pervenuti alle vette supreme della contemplazione, proibiva assolutamente i cibi superflui e ingiustificati, raccomandando di non mangiare mai animali […] né

119Cfr. Plutarco, De sollertia animalium, trad. it. cit., pp. 140-142.

120Cfr. Porfirio, Vita di Pitagora, 19 in G. Ditadi, I filosofi e gli animali, op. cit. p.

mai di immolare agli dèi animali né di arrecare a questi il minimo danno e di rispettare col massimo scrupolo le norme della giustizia anche nei loro riguardi. Ed egli stesso visse in modo conforme, astenendosi dalla carne degli animali ed adorando solo gli altari incruenti e adoperandosi perché neanche gli altri uccidessero gli animali affini a noi per natura e correggendo ed educando le bestie selvatiche con le parole e gli atti piuttosto che offendendole coi castighi […]. Nella cerchia dei “politici” prescriveva ai legislatori di astenersi dagli animali: perché volendo costoro praticare in sommo grado la giustizia, non dovevano recare offesa a nessuno degli animali a noi affini. Infatti, come avrebbero potuto persuadere gli altri ad agir giustamente, quando essi stessi fossero dominati dallo spirito di sopraffazione? Generale è la parentela degli esseri viventi i quali, mediante la comunanza della vita, dei medesimi elementi e della mescolanza da questi risultante, quasi fraternamente sono legati a noi».121

Diogene Laerzio dice che Pitagora «proibiva di offrire vittime agli dèi, consentiva di venerare soltanto l’altare puro di sangue».122 Ed infine,

Porfirio nel De abstinentia trascrive che «il companatico di Pitagora è ancora più gustoso di quello di Socrate, per il quale il companatico del cibo è l’aver fame; per Pitagora invece è il non essere ingiusto verso nessuno a dar gusto al companatico, con la giustizia. Evitare l’alimentazione carnea significava evitare di commettere ingiustizie per nutrirsi».123

In generale, tutti i più antichi filosofi greci (Anassimandro, Empedocle, Anassagora, Eraclito, Democrito124) poi definiti “presocratici” (VI-IV sec.

a.C.), scorta l’intuizione dell’origine comune di tutti gli esseri viventi, esaltano la ragionevolezza, l’intelligenza e la sensibilità degli animali e vagheggiano una morale che abbracci indistintamente la loro sorte come quella degli uomini.

Nei frammenti che seguono, in particolare, troviamo che le concezioni di Pitagora vengono accostate a quelle del medico e filosofo agrigentino Empedocle (492-428 a.C. circa):

121Giamblico, Vita Pitagorica, XXIV, 107-109, XXX, 168. Ibidem.

122Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, VIII, 12-13. Ivi, p. 68. 123Porfirio, De abstinentia, III, 26, 8-9. Ibidem.

124A questo grande filosofo Porfirio attribuisce un bellissimo pensiero: «Il vivere

male, stoltamente, nell’intemperanza, senza fraterna solidarietà, non è un vivere ma un lungo morire». Porfirio, De Abstinentia, in M. Lessona Fasano, Le orme dell’amore, op. cit., p. 20.

«Pitagora ed Empedocle e tutto il resto della schiera degli Italici affermano che non solo esiste una certa comunanza tra noi reciprocamente e con gli dèi, ma anche con gli animali privi di ragione. Infatti esiste solo un “soffio” che pervade l’intero universo a guisa di anima e che ci rende un’unica cosa con quelli. Ragion per cui, se uccidiamo gli animali e ci cibiamo delle loro carni, commettiamo ingiustizia ed empietà, come se sopprimessimo nostri congiunti».125

A differenza di Pitagora, che parla di metempsicosi, Empedocle condanna i sacrifici di sangue e l’alimentazione carnea puntando la sua attenzione sull’uguaglianza di tutte le vite a partire dal riconoscimento di un’omogeneità dell’aggregato corporale che costituisce tutti i viventi. Per la dottrina della metensomatosi non esistono anime senza corpi né corpi senza anima, dunque, senza distinguere l’anima dal corpo, Empedocle ritiene che il soffio vitale (peuma), diffuso in tutto l’universo come anima, risieda già nella stessa materia aggregata in forma organica e che entrambi, gli uomini e gli animali, ricevano la loro comune natura di esseri viventi, la capacità di sentire, percepire e pensare già a partire dall’aggregazione degli elementi corpuscolari.126 A proposito

dell’appartenenza di uomini e animali ad una medesima comunità, in quei pochi frammenti del suo grandioso Poema fisico e lustrale, leggiamo di una primitiva età felice che «fioriva con dovizia di alberi sempre verdi e perennemente in fiore, nell’aria primaverile, durante l’anno intero». Le bestie «tutte erano mansuete e per gli uomini amiche: gli uomini e le fiere insieme, ed era acceso l’amore». Gli uomini «non avevano un Ares come dio né cimento di guerra né un sovrano Zeus né Crono né Poseidone, ma solo Cipride sovrana… e questa si propiziavano con venerande effigi e con immagini dipinte, e con unguenti elaborati e offerte di pura mirra e incenso odoroso, e al suolo versando i libami dei biondi favi. Non si tingeva l’altare con l’immacolato sangue dei tori, ma per gli uomini era questo il massimo abominio, le pie membra divorare strappandone l’animo». Ancora «Non cesserete dunque questa lamentevole strage? Non vedete che l’un l’altro vi divorate per insania di mente? Ma il padre,

125Sesto Empirico, Contro i fisici, I, 127-128, trad. it. in Id., Contro i fisici, contro

i moralisti, Laterza, Bari-Roma 1990, p. 48.

sollevando il proprio figlio che ha mutato aspetto, lo scanna innalzando voti, terribilmente sciocco; e gli altri stanno a guardare la flebile vittima, mentre la immola; e lui sordo la scanna, sbraitando, per imbandire nel palazzo lo scellerato festino. Nella stessa maniera il figliolo afferra il padre, ed i figli la madre, strappandone l’animo per divorarne la propria carne». E «Ricordatevi che tutte le cose sono fornite di intelligenza e partecipano del pensiero».127

Prossima al pitagorismo empedocleo è la posizione di Platone (427-347 a.C.). In Platone, la classe dei viventi non è distribuita su una scala gerarchica, ma su di un’immensa ruota che gira su di se stessa seguendo la duplice direzione. Su questa ruota le anime compiono i loro percorsi di ascesa e caduta in relazione all’aver o meno agito secondo giustizia nel mondo dei viventi, punto mediano d’incontro tra anime in ascesa e in discesa:

«Chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi senza giustizia una sorte peggiore. Ché ciascuna anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita prima di diecimila anni – giacché non mette le ali in tempo minore – tranne l’anima di chi ha perseguito con convinzione la sapienza, […]. Tali anime, se durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa via filosofica, riacquistano per conseguenza le ali e se ne dipartono al termine del terzo millennio. Ma le altre, quando abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a giudizio, e dopo il giudizio, alcune scontano la pena in prigioni sotterranee; altre, alzate dalla Giustizia, in qualche sito celeste, ci vivono così come hanno meritato dalla loro vita, passata in forma umana. Allo scadere del millennio, entrambe le schiere giungono al sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna anima sceglie il proprio volere: è qui che un’anima può passare in una vita ferina e l’anima di una bestia che sia stata una volta in un uomo può ritornare in un uomo. Giacché l’anima che non abbia mai visto la verità non giungerà mai a questa nostra forma».128

Aspirando ad un ampio e radicale riordinamento politico in grado di produrre una profonda trasformazione dei modi di vita dei cittadini che all’interno della polis «badano sempre alla buona tavola e a simili cose»,129

Platone lascia intendere che i caotici e indisciplinati rapporti tra gli uomini

127Empedocle, Poema fisico e lustrale, fr. 117-122, 104. Cfr. ivi, p. 72. 128Platone, Fedro, 248 e – 249 c in Id., Opere complete, III. Ivi, pp. 76-77. 129Platone, Repubblica, IX, 586 a. ivi, p. 26.

sono lo specchio riflesso della loro ingordigia e dei loro appetiti immondi. Per questo motivo, nella concezione di Platone, la costituzione di una società umana governata secondo ragione e giustizia non solo condanna i sacrifici di sangue non graditi agli dei, la pesca con l’amo e la caccia praticata con l’inganno,130 ma accoglie l’astensione dalle carni e il

vegetarianismo come messaggio politico e come chiara indicazione del suo dissenso al comune modo di vivere, all’insegna di uno stile di vita improntato piuttosto alla sobrietà e alla semplicità. È a tal proposito che nel Politico, quasi in una sorta di commento al Poema di Empedocle, Platone descrive quanto saggia fosse la condizione degli uomini quando questi:

«avevano grande disponibilità di tempo e potere di stabilire relazioni e conversazioni non solo fra gli uomini, ma anche con le bestie, facevano uso di tutte queste condizioni in funzione della filosofia, discorrendo appunto fra loro e con gli altri animali, e interrogando tutte le specie animate per sapere se una ve ne fosse che per una sua particolare capacità avesse mai potuto conoscere qualche cosa a tutto superiore nel procurare grande apporto al tesoro dell’intelligenza […]. È facile giudizio dire che quelli di allora incommensurabilmente eccellevano per felicità sugli uomini di ora […]».131

Seguendo l’esempio di quello stile di vita saggio e armonioso i fondatori della polis della giustizia si:

«nutriranno di farine ricavate dall’orzo e dal frumento ora cuocendole ora impastandole, e serviranno belle focacce e pani su canne o foglie pulite. […] cuoceranno gli alimenti propri della campagna, cipolle, legumi e serviranno loro […] anche pasticcini di fichi, ceci e fave. […] Così passeranno la vita, com’è naturale, in pace e buona salute, moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo[…]. Lo Stato vero, è quello di cui abbiamo parlato ora. Uno Stato sano».132

130 Platone, Repubblica, II, 365, 372; Id., Leggi, VII, 823-824. In M. Lessona

Fasano, Le orme dell’amore, op. cit., p. 20.

131Platone, Politico, XVI, 272 b in G. Ditadi, I filosofi e gli animali, op. cit., p. 77. 132Platone, Repubblica, II, 372 b-e. Ivi, p. 80.

Teofrasto (373-287 a.C. circa), discepolo di Platone e poi allievo prediletto di Aristotele133 cui fu successore presso il Liceo, affronta il tema del

rapporto uomini-animali da una prospettiva antitetica rispetto a quella del maestro. Allineandosi ai pitagorici e più in generale al pensiero dei “presocratici”, Teofrasto riprende i magnanimi criteri di giustizia e di clemenza nei confronti degli animali. Nel suo trattato Della pietà (cui si ispireranno tutti coloro che in seguito prenderanno le difese degli animali) Teofrasto sostiene la tesi di una parentela universale secondo la quale gli animali, come tutti i viventi, hanno la stessa struttura originaria e, dunque, insieme agli uomini appartengono ad una stessa comunità:

«Riteniamo che tutti gli uomini ma anche tutti gli animali sono della stessa razza,

perché i principi dei loro corpi sono per natura gli stessi […] e ancor più perché

l’anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli appetiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle sensazioni. […] per tutti i principi sono per natura gli stessi. La parentela delle affezioni lo prova. […] tutte le specie sono intelligenti, ma esse differiscono per l’educazione e per la composizione del miscuglio dei primi elementi. Sotto tutti i rapporti, dunque, la razza degli altri animali ci è apparentata ed è la stessa della nostra; poiché i mezzi di sussistenza sono gli stessi per tutti come l’aria che respirano, […] e un sangue rosso scorre in tutti gli animali e tutti mostrano d’avere in comune per Padre il Cielo e per madre la Terra».134

Alla luce della parentela universale, Teofrasto, si oppone al loro utilizzo sia come vittime sacrificali sia come fonti alimentari e, oltre a prendere come riferimento esemplare il popolo egiziano per il trattamento da questi riservato agli animali,135 ricorda che le prime offerte sacrificali fatte agli dei

furono di natura vegetale e solo successivamente, a causa di guerre e carestie, le offerte fatte loro dagli uomini presero una via illegittima. Il sacrificio di sangue, secondo Teofrasto, avrebbe avuto origine da una situazione difficile:

133 «Fu Aristotele a cambiare il suo nome da Tirtamo a Teofrasto: “colui che parla

divinamente”». Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, in M. Lessona Fasano, Le orme dell’amore, op. cit., p. 23.

134Teofrasto, Perì eusébeias, trad. it. Della pietà, Isonomia, Este (PD) 2005, pp.

259-265. (Corsivo aggiunto).

135 «Costoro sono così lontani dall’uccidere uno solo degli animali, ch’essi fanno,

con le figure degli animali, immagini degli dèi, perché li considerano prossimi e apparentati agli dèi e agli uomini». Ivi, p. 226.

«Ma finché vi sono i raccolti, che bisogno c’è di praticare sacrifici se non sono più imposti dalla necessità? […] I più belli e preziosi benefici che gli dèi ci accordano sono i raccolti: grazie ai raccolti ci conservano in vita e ci procurano un’esistenza ingentilita. I raccolti devono dunque servirci per onorarli. Inoltre dobbiamo sacrificare solo ciò il cui sacrificio non lede nessuno, poiché se vi è un atto che non deve causare alcun torto, questo è il sacrificio. E se qualcuno dicesse che il dio ci ha dato gli animali allo stesso titolo dei raccolti, per il nostro uso, gli risponderei che quando si sacrificano gli esseri viventi si causa loro ben qualche torto perché li si deruba dell’anima. Non bisogna dunque sacrificarli. Il sacrificio è infatti un atto santo e porta anche il nome di santificazione: ora non vi è nulla di santo nell’azione di chi, per esprimere la sua riconoscenza, utilizza i beni altrui senza il suo consenso – anche se non gli prende che raccolti o semplicemente delle piante. Come potrebbe esservi santità quando una ingiustizia è commessa a spese delle vittime del furto? La santità è assente dal sacrificio quando non si rubano che i raccolti altrui; e dunque a maggiore ragione contrario alla santità offrire sacrifici rubando ad altri beni ancora più preziosi. Il crimine così commesso è infatti più grande. Ora l’anima è un bene più prezioso dei prodotti della terra e non è per nulla conveniente farne oggetto di furto sacrificando degli animali».136

E proclamando l’estensione della giustizia anche agli animali continua: «benché una prossimità ci unisca agli altri uomini, noi siamo del parere che bisogna distruggere e punire tutti quelli che sono malvagi […]. Ebbene, allo stesso modo, si ha forse il diritto di sopprimere, tra gli animali privi di ragione, quelli che per natura sono ingiusti e malvagi […]. Ma tra gli altri animali certi non commettono ingiustizie, la loro natura non li spinge a nuocere; questi ultimi è sicuramente ingiusto ucciderli e distruggerli esattamente come è ingiusto farlo agli uomini che sono come loro. Ciò sembra rivelare che non vi è che una forma di diritto tra noi e gli animali poiché tra questi ultimi gli uni sono nocivi e malvagi per natura e gli altri no, esattamente come tra gli uomini».137

Ispirata all’evidenza e al sentimento della pietà,138 la concezione

dell’animale espressa dal poeta e filosofo latino Lucrezio (99-53 a.C. circa) nel De rerum Natura e i suoi attacchi, carichi di intensa emotività, alla

136Ivi, p. 199. 137Ivi, p. 173.

138 Contrariamente alla concezione contrattualista della giustizia seguita dagli

epicurei, di fatto indifferenti alla sorte degli animali, Lucrezio, benevolmente aperto alla pietà verso tutti gli esseri viventi ritiene che non esista differenza alcuna tra questi ultimi. Anche gli animali pensano, sognano, ragionano, hanno sentimenti e sono dotati di «un’anima che in essi, come negli uomini, nasce, cresce, si modifica (il bambino non ha l’accortezza dell’adulto, né il puledro l’esperienza di un cavallo) e muore insieme al corpo». Cfr. M. Lessona Fasano, Le

pratica del sacrificio, che si ripetono in ben cinque dei sei libri di cui è composto il poema,139 partecipano ulteriormente allo smantellamento

della concezione che nega, su basi contrattualiste della giustizia, considerazione morale agli animali. Infatti, sebbene gli animali non possano vantare diritti, in ogni caso, gli uomini hanno l’obbligo morale di ricompensarli per i servizi da loro resi.140 Inoltre, attraverso una serie di

descrizioni141 (tratte dall’esperienza) usate per mettere in luce il complesso

mondo emotivo e cognitivo degli animali, Lucrezio dimostra come essi possiedano un valore ontologico analogo a quello dell’uomo e, in virtù di una tale somiglianza tra gli esseri viventi, sostiene che «pretendere che gli dèi abbiano voluto preparare il mondo e le sue meraviglie per gli uomini è pura follia».142

Preziose testimonianze – questa volta poetiche – di un riconoscimento nei confronti delle facoltà intellettive e affettive degli animali si trovano anche nell’Odissea di Omero e in particolare nell’episodio del ritorno in patria di Ulisse, quando l’unico a riconoscerlo, dopo tanti anni di assenza e nonostante l’aspetto di un mendicante, è proprio Argo, il suo vecchio cane, nonché nella vicenda dei cavalli di Achille, Xanto e Balio, quadrupedi di straordinaria sensibilità che, oppressi dal dispiacere, piangono desolati lacrime di dolore, di affetto e di rimpianto per la morte di Patroclo, caduto sotto i colpi di Ettore. Nelle sue Bucoliche e Georgiche anche il poeta Virgilio (70-19 a.C.) accenna alla comunanza e all’affetto tra uomini e animali e ritenendo che gli animali sentano e soffrano al pari degli uomini