La questione animale nella letteratura
3.5 La vita e il tempo di Michael K
Michael K, protagonista dell’omonimo romanzo La vita e il tempo di Micheal K,461 è una figura emblematica e altamente rappresentativa
457Ivi, p. 136.
458 S. Durrant, J. M. Coetzee, Elizabeth Costello, and the Limits of the
Sympathetic Imagination, op. cit., p. 130.
459Ivi, pp. 120-21.
460J. M. Coetzee, Aspettando i barbari, op. cit. p. 192.
461J. M. Coetzee, Life & Time of Michael K (1983), trad. it. La vita è il tempo di
dell’alterità-diversità violata. Il valore simbolico di questo personaggio potrebbe forse già emergere dalla scelta di J. M. Coetzee di ridurre il cognome di Michael alla sola lettera iniziale, la K, probabilmente nell’intendo di richiamare l’analogo valore simbolico assunto dal Joseph K. protagonista del Processo o, ancora, quello del K. protagonista del Castello di Kafka. Indubbiamente le difficoltà pratiche a cui va incontro il protagonista del romanzo tutte le volte che ha a che fare con le istituzioni e la loro burocrazia contribuiscono a sostenere l’ipotesi di una relazione con il mondo delle opere di F. Kafka. Non passano certamente inosservati neppure i rimandi alle novelle de Il digiunatore e de La tana anche se è evidente che, a differenza dei suoi progenitori kafkiani, a K manca non solo l’intelligenza delle proprie azioni (laddove il misterioso architetto protagonista de La tana illustrava compiaciuto le potenzialità di offesa e difesa del suo sofisticato labirinto sotterraneo, K si limita, invece, solo ad occupare una preesistente fessura del terreno per difendersi da eventuali predatori) e la voglia di esibire davanti ad un pubblico la propria capacità di mortificazione del corpo (a differenza del protagonista de Il digiunatore il più grande desiderio di K è quello di sparire, di fuggire, di rendersi invisibile agli occhi di un mondo da sempre pronto a soffermarsi troppo a lungo su quel labbro deforme che fin dalla nascita non gli ha portato altro che vergogna e umiliazione), ma soprattutto, e a differenza degli altri protagonisti dei romanzi coetziani abituati a misurarsi con gli abissi insondabili della propria coscienza, ciò che manca a Michael è la capacità di riflettere su di se stesso e sul senso della propria vita462 (sfumatura che
impedisce che nel romanzo si istauri l’atmosfera di angoscia e allucinazione tipica invece dello stile di Kafka). Se la K è quindi certamente la prova di un rimando a Kafka tuttavia questo non significa che non si possano considerare altri effetti che il nome K può suscitare sul lettore: per
462 «Sarà questa la mia educazione? […] Riesco finalmente qui, nel campo, a
imparare qualcosa sulla vita? Gli pareva che sotto i suoi occhi si svolgesse una scena dopo l’altra di autentica vita e che tutte le scene s’accordassero tra loro. Aveva il presentimento che queste scene, tutte insieme, convergessero o minacciassero di convergere verso un unico significato, sebbene non sapesse ancora quale potesse essere questo significato». Ivi, p. 125
esempio il fatto che non sia puntata potrebbe indicare che non rimanda ad altri se non a se stessa e alla peculiarità del personaggio di cui è indicativa, ancora, potrebbe essere una strategia di allontanamento, un modo per ricordarci che di questo personaggio non sappiamo molto, neppure il cognome, e che non arriveremo a conoscerlo davvero neanche alla fine del romanzo. È con la pubblicazione de La vita e il tempo di Michael K (1983) con cui guadagna il primo Booker Prize (il secondo gli viene assegnato nel 1999 per Disgrace) e il Prix Etranger Femina (nel 1985), che J. M. Coetzee guadagna fama internazionale e attira su di sé l’attenzione della critica di tutto il mondo. A causa del contesto dei disordini politici provocati dal leader nazionalista P. W. Botha fra il 1981 e il 1984, ravvisabile sullo sfondo della storia narrata nel romanzo, l’interpretazione de La vita e il tempo di Michael K rimane per un po’ di tempo incastrata nel conflitto di due posizioni opposte: la prima, quella di Nadine Gordimer,463 portavoce
di buona parte dei commentatori sudafricani, che vi vede un sostanziale disimpegno e una fuga dai reali problemi del Paese, la seconda, quella di David Attwell, votata al contrario a mettere in luce tutta la forza sovversiva e la sensibilità politica di un opera espressa in forme non convenzionali. Se l’inserimento di un’opera letteraria nel suo contesto storico-politico non rappresenta certo un male, solo la progressiva partecipazione al dibattito di studiosi non sudafricani consentirà l’apertura a nuovi orizzonti di interpretazione diretti a cogliere tutta la peculiarità di un testo capace di sostenere, come un autentico paradosso di Zenone, un numero infinito di letture e di significati prima di “darsi” per scontato.
Già lo stesso titolo del romanzo che rimanda nel modo più tradizionale a un progetto biografico, a un voler narrare la vita e il tempo di qualcuno degno di nota, si rivelerà ben presto una trappola perché la storia di K, una storia il cui senso e la cui lezione ci vengono promessi già dall’incipit con la scena della nascita del protagonista e dello stupore manifestato della levatrice per la scoperta sul suo corpo di un’anomalia degna di un essere
463 N. Gordimer, “The idea of Gardening” in The New York Review of Books,
molto speciale,464 diverso, resta invece un enigma fino alla fine. Come ha
puntualizzato Coetzee nel corso di un’intervista,465 è già l’assenza
dell’articolo determinativo nel titolo inglese originale a segnare uno scarto dalla consuetudine: non è infatti The Life, ma Life, che allude, appunto, a un piano meno vincolante. La promessa della storia della vita di Michael finisce per coincidere con la storia di qualcuno che rifiuta la vita, più precisamente un certo tipo di vita e, quindi, a conti fatti, con quella di un’eterna fuga dal consorzio degli umani di un morto vivente, tradotta in un caparbio e interminabile voler morire per il rifiuto di un cibo che non è il proprio, secondo una forma di autarchia alimentare che ne sottende, appunto, una sociale e spirituale. Perciò l’intera vita di Michael rappresenta, testuali parole, «un’allegoria – per parlare al più alto livello possibile – di quale scandaloso e oltraggioso significato possa assumere la permanenza in un sistema, senza diventarne parte».466 Alla luce di quanto
appena citato, pare che obiettivo di Coetzee, che era già stato di Kafka,467
sia quello di esaltare, attraverso l’acquiescenza che si concretizza nello straziante mutismo di questo nuovo K, la condizione di prigionia correlata alla violazione di quello che è un diritto fondamentale; il diritto alla vita; il diritto a essere quello che si è e ad essere lasciati liberi di vivere una vita consona al proprio modo di essere. Ecco, Michael è l’emblema di tutti gli “individui” che all’interno di un sistema come quello umano, fondato sui valori della razionalità, restano incomprensibili e nella peggiore delle ipotesi perseguibili. Come sempre, Coetzee non manca di esprimere la diversità-incomprensibilità dell’altro come uomo in analogia con quella dell’altro come animale e non poche sono le espressioni con cui nel testo si
464 «La prima cosa che la levatrice notò in Michael K, quando lo estrasse
dall’utero della madre e lo introdusse in questo mondo, fu il suo labbro leporino. […] Alla madre disse: – Dovreste essere contenta, portano fortuna alla famiglia». J. M. Coetzee, La vita è il tempo di Michael K, op. cit., p. 9.
465 Cfr. D. Attwell, J. M. Coetzee, South Africa and the Politics of Writing,
California University Press, Berkeley 1993, p. 91.
466J. M. Coetzee, La vita e il tempo di Michael K, op. cit., p. 229. 467Cfr. S. Brugnolo, Strane coppie, il Mulino, Bologna 2013.
fa riferimento a Michael come a cane intimidito,468 malato469 e con l’aria
colpevole,470 o quelle che lo descrivono protagonista di tutta una serie di
pensieri e comportamenti tali che, ad un certo punto del racconto, abbiamo quasi l’impressione di non leggere più della vita di un uomo, ma piuttosto di quella di un animale. Nel caso di Michael sarà anzi un vero e proprio iter di becoming animal, il cui inizio nella narrazione coincide con l’episodio dell’uccisione di una capra,471 a segnalare la cesura definitiva
con il sistema. Se inizialmente sono lo stato di necessità e il principio di autoconservazione a legittimare la violenza sulla capra, quando poi Michael si ritrova tra le mani il cadavere dell’animale viene improvvisamente sopraffatto, oltre che dal profondo senso di disgusto, anche e soprattutto dall’angosciante intuizione di aver commesso un vero e proprio delitto intraspecifico. Da questo momento in poi K – innegabile qui il tocco autobiografico della posizione di Coetzee in proposito – dà inizio alla sua inflessibile conversione al vegetarianesimo,472 una
468J. M. Coetzee, La vita e il tempo di Michael K, op. cit., p. 43. 469Ivi, p. 213.
470Ivi, p. 46.
471 «[…] gli venne in mente che, se sperava di sopravvivere, avrebbe dovuto
catturare, uccidere, squartare e mangiare questi sbruffanti quadrupedi coperti di pelo, o animali del genere. […] trascorse tutto il giorno a dar loro la caccia […]. K le si scagliò sopra con tutto il peso del suo corpo. Devo mostrarmi deciso, si disse, non posso mollare, non devo cedere. Poteva avvertire la groppa della capra, che cercava di sollevarsi sotto di lui. Belò due o tre volte per il terrore, […] K le si mise a cavalcioni, strinse le mani attorno al collo e, […] la obbligò a piegare la testa sotto la superficie dell’acqua, […]. A un certo momento lo scalciare si indebolì, […]. E fu solo quando il freddo dell’acqua cominciò a paralizzargli le membra che si alzò, strascicandosi fuori dall’invaso. […] Entrò nel bacino e, impegnando tutte le sue forze, trasse fuori l’animale morto, […]. Aveva i denti scoperti; gli occhi gialli erano spalancati. Un filo d’acqua le scivolava dalla bocca. Era una capra. Il morso della fame, che il giorno prima l’aveva tormentato, era scomparso. L’idea di fare a pezzi e divorare questa ripugnante cosa, […] lo rivoltava. […] Gli pareva impossibile ora credere di aver trascorso un giorno intero a dar loro la caccia, come un folle […]. Si rivedeva, impegnato a premere sotto il suo peso la capra, facendola soffocare nella melma, […] e non poté non rabbrividire. Avrebbe voluto seppellire la carogna e dimenticare tutto o, meglio, gli sarebbe piaciuto poterle dare una pacca sull’anca e vederla alzarsi in piedi e correre via. […] Aveva l’impressione di non essere più in grado di capire perché mai avesse percorso tutte quelle centinaia di miglia e dovette camminare in su e in giù con le mani sul volto prima di sentirsi un po’ meglio». Ivi, pp. 76-80.