Il 24 giugno 2016, l’Unione europea ha avuto un brusco risveglio. Nel referendum indetto successivamente all’approvazione dello European Union Referendum Act (17 dicembre 2015), il 51,89% dei votanti del Regno Unito si è espresso a favore del Leave dall’Unione europea, contro il 48,11% dei voti favorevoli al Remain. Tale risultato, molto variegato e differenziato, è stato da subito oggetto di un animato dibattito. I dati che ne sono emersi97 sono sicuramente sociologicamente e politicamente interessanti, fonte di discussione e anche di possibili conseguenze politico - costituzionali, che però non possono mettere in alcun modo in dubbio, come talvolta si è cercato di fare, il valore indefettibile e indiscutibile del
95 J. HABERMAS, Three Reasons for ‘More Europe’, in The Lure of Technocracy, cit., pag. 81. 96 C. PINELLI, Il doppio cappello dei governi fra stati e Unione europea, in Riv. trim. dir. pub., 2016, pag. 645.
97 Per completezza di informazioni, si ricorda che il risultato si è differenziato per fasce di età (i più giovani - anche se hanno dimostrato scarsa partecipazione - hanno votato a favore del Remain, i più anziani per il Leave), per aree geografiche (Scozia, Irlanda del Nord, Londra hanno votato per il Remain, il Galles e il resto dell’Inghilterra a favore del Leave; a Gibilterra c’è stata - comprensibilmente, in ragione della peculiare e difficile situazione geografica che la espone alle pressioni dalle coste africane e sui confini spagnoli - la quasi unanimità per il Remain). È stato altresì ampiamente ricordato come il livello di istruzione abbia rappresentato un crinale: ove più alta è stata la percentuale del Leave, maggiore è la percentuale di individui privi di qualifiche specifiche residenti nella circoscrizione elettorale.
suffragio universale: il punto di arrivo delle democrazie occidentali, One man, One vote, è assolutamente fuori discussione98.
Detto questo, si comprende come, in conseguenza di un voto dai tratti dilemmatici, per il Regno Unito e per l’Unione Europea si sono aperte questioni di altissimo profilo costituzionale. Può infatti ritenersi che il recesso di uno Stato membro dall’Unione europea, metta capo a uno tra i più delicati e complessi conflitti costituzionali che l’U.E. possa essere chiamata ad affrontare. Tale atto prima ancora di dar vita a spinosi problemi di ordine tecnico - giuridico, ha scosso dalle fondamenta l’edifico europeo, facendo nuovamente dubitare non tanto del persistente valore del processo di integrazione, quanto piuttosto della consistenza delle sue aspirazioni costituzionali, in passato già formalizzate nel naufragato progetto di una Costituzione per l’Europa99. Un progetto che, se perfezionato,
avrebbe senza dubbio contribuito a dare maggiore forza al processo europeo di integrazione; la Costituzione europea come simbolo di un’Europa unita, non solo sotto il profilo economico ma anche e soprattutto sul piano dei valori costituzionali.
Per decenni, l’ipotesi che uno Stato potesse voler abbandonare la casa comune europea è stata talmente irrealistica da non essere presa seriamente in considerazione neanche sul piano teorico, oltre che su quello giuridico. La costruzione in progress dell’Unione europea e la sua progressiva trasformazione da organizzazione internazionale a sovranazionale, ha fatto sì che per anni il tema del recesso dall’Unione non fosse inserito nei Trattati, cosa avvenuta con il Trattato di Lisbona, dopo essere stata proposta qualche anno prima nel mai entrato in vigore Trattato costituzionale del 2004100.
Tuttavia, più ancora dell’intervento normativo operato a Lisbona, è la crisi economico - finanziaria che rende oggi l’ipotesi del recesso da parte di alcuni Stati membri non solo un surreale caso di scuola ma una eventualità concreta, sebbene dalle conseguenze non del tutto prevedibili. Nella sua fase espansiva, che l’ha portata a ricomprendere 28 Stati membri, l’Unione Europea aveva infatti
98 B. CARAVITA, Brexit: keep calm and apply the European Constitution, in federalismi.it, editoriale n. 13/2016, pag. 1.
99 E. OLIVITO, G. REPETTO, op. cit., pag. 11.
100 F. SAVASTANO, Prime osservazioni sul diritto di recedere dall’Unione europea, in federalismi.it n. 22/2015, pag. 1.
rappresentato un enorme fattore di diffusione di diritti e di opportunità economiche tale da non rendere ipotizzabile la possibilità dell’uscita di uno Stato. Per questi motivi, era quasi impensabile chiedersi quale governo avrebbe rinunciato alle quattro libertà e alla possibilità di accedere ad un mercato nuovo e vastissimo. Oggi invece l’impatto della crisi sulla stabilità dell’Unione europea si è fatta sentire, soprattutto per tre ordini di ragioni. Innanzitutto ha dato forza all’euroscetticismo e quindi a tutti quei movimenti partitici che hanno individuato nell’Europa il capro espiatorio per le difficoltà economiche nazionali. In seconda battuta, è noto come la risposta europea alla crisi si sia basata su politiche di rigore, molto impopolari e molto sofferte in diversi Stati membri. Una delle reazioni a queste politiche è stato il rilancio della svalutazione competitiva, in base alla quale uno Stato che decidesse di uscire dall’Europa potrebbe trarre grandissimi benefici economici dalla svalutazione della propria moneta che gli consentirebbe di competere, da una posizione di vantaggio, con il lungo e macchinoso blocco europeo. La terza conseguenza della crisi è senza dubbio la più importante: essa ha rappresentato infatti il primo vero banco di prova per l’efficacia dell’Unione europea. Mai nella storia, infatti, la Comunità prima e l’Unione poi, erano state messe di fronte ad una situazione di tale complessità. Il perdurare delle difficoltà economiche ha messo in dubbio la credibilità delle istituzioni europee, proprio in un momento in cui ci si aspettava da loro il massimo dell’efficacia. L’Europa nasce infatti per dare una risposta comune a problemi troppo grandi per i singoli Stati membri: se si mostra incapace di dare queste risposte allora perde la sua stessa ragion d’essere101.
Ritornando però all’oggetto della nostra trattazione, si rende necessario a questo punto riflettere su quali siano stati i motivi che hanno condotto il Regno Unito a mettere in dubbio la propria permanenza nell’Unione Europea.
Storicamente, in particolare durante i periodi di scarsa crescita o di austerità, la questione economica è sempre stata in cima all’agenda degli elettori - per l’insieme di cause che sono state ampiamente discusse in precedenza - ma in questo caso sembra che tutti gli avvertimenti (peraltro ben pubblicizzati) sulle possibili conseguenze economiche della Brexit siano stati completamente ignorati.
Questo è strano (e in definitiva fuorviante), ma per il momento limitiamoci ad osservare quelle che gli attivisti del “Leave” considerano essere le due ragioni chiave.
In primo luogo, la riconquista della sovranità rispetto ai poteri che stavano lentamente e irreversibilmente trasferendosi a Bruxelles. Questo sentimento potrebbe esistere, non si può negare, ma questa “perdita” di sovranità nazionale ha avuto luogo negli anni. La seconda ragione chiave, e ora ampiamente condivisa dal Parlamento, è che gli elettori necessitassero di controllare i confini inglesi, o in altre parole, di ridurre l’immigrazione102, quei flussi migratori provenienti non solo dai Paesi terzi, ma soprattutto dagli Stati membri della stessa Unione europea.
A conferma di quanto esposto fino a questo punto, si pone il discorso tenuto dall’allora primo ministro britannico David Cameron, che anticipa la trasmissione al presidente dell’Unione europea Donald Tusk della lista delle richieste britanniche da negoziare con i partners in vista del referendum sull'adesione britannica all'Unione, che sintetizza in maniera chiara le questioni a cuore al governo britannico e per le quali si ritiene necessario aprire le trattative, alternando toni ottimistici a già noti altolà. “Missione impossibile? Assolutamente no se ci sarà volontà politica e immaginazione… ma se le nostre legittime richieste sbatteranno contro la sordità dei nostri interlocutori la Gran Bretagna valuterà se l'adesione all’Unione europea è davvero vantaggiosa”. In altre parole Downing Street deciderà, sulla base delle risposte ricevute dai vertici dell’Unione, se sollecitare o meno il “no” all'adesione. Questo è l’avvertimento ai partners di un primo ministro deciso, in realtà, a battersi per il “si”, ma sulla base di quattro punti già delineati e ribaditi formalmente. David Cameron, nel suo intervento, sottoponeva alle istituzioni dell’Unione le seguenti richieste:
1) L’opt-out, cioè la possibilità per il Regno Unito di disapplicare la clausola dei Trattati che prevede la partecipazione ad un’Unione “ancor più integrata”; 2) Sollecita il riconoscimento di strumenti di tutela, da parte delle istituzioni europee, per i Paesi che non partecipano all’Eurozona attraverso il formale
102 L’immigrazione europea in U.K. negli ultimi anni ha toccato il picco massimo e in particolare negli ultimi tre anni è costantemente aumentata, in coincidenza con l’allargamento dell’Unione europea.
riconoscimento che il mercato unico è “multicurrency” e che pertanto la sterlina potrà godere delle analoghe condizioni di cui godrà l’euro anche quando i Paesi a divisa comune si saranno integrati ulteriormente; 3) Torna a invocare quella “sussidiarietà” che dai tempi di Maastricht resta la parola magica inglese e lo fa rivendicando un maggiore ruolo dei parlamenti nazionali. “Mi rendo conto - ha detto il premier evocando di fatto il meccanismo del “cartellino rosso” - che un veto potrebbe portare alla paralisi” ma gruppi di parlamenti nazionali, a suo avviso, devono avere il potere di correggere la legislazione comunitaria; 4) Il quarto punto, l’ultimo ma sicuramente non per il peso assunto nel dibattito sul tema, è l’annosa questione dell’accesso al welfare da parte degli immigrati intracomunitari: l’“affrontare gli abusi del diritto alla libera circolazione”. Londra - ha ribadito il premier considerando la richiesta “non negoziabile” - raccomanda una sospensione di quattro anni prima del pieno accesso ai benefici e sussidi dello stato sociale per un cittadino non inglese. In realtà, la Gran Bretagna sarebbe disponibile a estendere le stesse limitazioni ai britannici che rientrano in patria dopo aver vissuto all’estero.
Per meglio comprendere la “forza emotiva” del discorso di Cameron, si ritiene utile riportarne un estratto che racchiude molto del sentimento britannico - e forse anche di altri - nei confronti dell’Unione europea:
“Non dimentichiamo che l’Unione Europa comprende 28 antiche nazioni europee. Tale differenza così marcata è in realtà la più grande forza dell’Europa. La Gran Bretagna vuole quindi celebrare questo fatto. Riconosciamo che la risposta ad ogni problema non è sempre “più Europa”. A volte è “meno Europa”. Accettiamo che non ci possa essere una taglia unica per tutti. La flessibilità è ciò che credo sia il meglio per la Gran Bretagna; e, devo dirlo, migliore per l’Europa… In altre parole, un’Unione Europea a “due velocità”, con la flessibilità necessaria ad assicurare che tutti i suoi membri sentano che la loro appartenenza sia il meglio per loro”103.
103 D. CAMERON, discorso di Chatham House del 10 novembre 2015, rinvenibile in http://www.eunews.it/2015/11/13/il-discorso-italiano-di-cameron-chatham-house-sulla-