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L’alternativa verità materiale–verità processuale: etichettare la verità è fuorviante

La riabilitazione del realismo aletico in campo giuridico

6. La verità fuori e dentro il processo

6.1. L’alternativa verità materiale–verità processuale: etichettare la verità è fuorviante

Nella letteratura (ma anche nell’uso comune dei parlanti), il termine “verità” viene spesso qualificato o specificato tramite aggettivi quali: «materiale»358, «giudiziale»359

356 Taruffo 1992 p. 12 e ss. 357 Ferrajoli, 1989, p. 36.

358 Taruffo 1992, pp. 4 e 5 e p. 158. Ricorda l’accezione di “verità materiale” utilizzata nei c.d. sistemi

processuali socialisti che derivava dal materialismo dialettico e, in particolare, dalla dottrina epistemologica di Lenin. Detta teoria è stata poi riformulata in versioni «epistemologicamente più credibili» come ad es.

“storica”, “processuale”, «formale»360, “sostanziale”, «consensuale»361, «legale»362,

“assoluta”, «relativa»363, “convenzionale”.

È interessante notare che per Ferrajoli «l’alternativa epistemologica tra i due modelli» di diritto penale, quello garantista e quello anti-garantista, «si manifesta anche nel diverso tipo di “verità giudiziaria” da essi perseguito»364.

Proprio a questo proposito Ferrajoli introduce la celebre opposizione tra «verità sostanziale e verità formale»365. La verità «sostanziale» o «materiale», per Ferrajoli, sarebbe

quella a cui aspira il modello anti-garantista che viene caratterizzata come:

una verità assoluta e onnicomprensiva in ordine alle persone inquisite, priva di limiti e di confini legali, raggiungibile con qualunque mezzo al di là di rigide regole procedurali366

L’autore prosegue affermando che essa è «perseguita al di fuori di regole e controlli e soprattutto di un’esatta predeterminazione empirica delle ipotesi d’indagine». Secondo l’autore essa non può quindi che decadere «a giudizio di valore, di fatto, largamente arbitrario» recando con sé, inevitabilmente una concezione autoritaria e irrazionalistica del processo penale. La verità formale o processuale sarebbe invece raggiunta:

l’elaborazione di un’idea “relativa” della verità materiale di cui ha parlato Ginsburgs. Per un quadro più completo del tema si veda Taruffo 2009 p. 82 e ss.; Taruffo 1992 p. 37 e 38.

359 Solamente per citarne alcuni: Ubertis 2015, Taruffo 1992, Ferrua 1995. 360 Ferrua 2015 p. 15, utilizzata in contrapposizione con quella di verità materiale. 361 Tonini, Conti, 2014.

362 Taruffo, 1992; Tonini – Conti, 2014.

363 Un discorso parzialmente diverso riguarda la posizione di chi sostiene che ci sia una pluralità di verità tutte

validamente sostenibili. Anche Taruffo 1992 e 2009 parla di verità relativa ma non in senso relativista. Una posizione ulteriore, ma eccentrica rispetto alle accezioni fin qui ricordate è quella di chi ha sostenuto la contrapposizione tra una “Verità” e “verità” così come ricordato da Taruffo 2009 p. 74 e da Ferrua, 2015, p.13.

364 Ferrajoli, 1989, p. 16-17.

365 Ma tale opposizione è ben più risalente nella letteratura processualista. Solo a titolo esemplificativo:

Carnelutti 1947, p. 32 e ss; Ferrer 2005, p. 61 ss; Ferrua 1995, pp. 337-390; Summers, 1999 pp. 497-511; Taruffo 2009, p. 82. Per un quadro completo sull’uso di questa distinzione si veda: Ferrajoli, 1989, p. 49, nota: 19. Tuzet 2016a, p. 94, nota che tale opposizione è stata interpretata principalmente in due modi: chi sostiene che la verità processuale non sia una forma di verità (Carnelutti 1947, p. 32) e chi invece, come Taruffo 1992, p. 53 e ss; 152 e ss., crede che la c.d. verità materiale, assoluta non esista. Ferrer 2016 p. 193, nota 13, afferma che sarebbe più corretto distinguere tra prova (fatti provati nel processo) e verità piuttosto che tra distinte verità. Sempre in Ferrer 2016 p. 193 nota 14 si ricorda la tesi di Alchourron e Bulygin 1989, p. 311 secondo cui sebbene col termine “verità processuale” si intenda la fine alla controversia legale incarnata nella decisione giudiziale, si dovrebbe ricordare che porre fine a una discussione sulla verità non rende automaticamente vera la decisione presa. Sullo stesso punto Ferrer 2005 p. 20 e ss.

366 Ferrajoli, 1989, p. 17. Questa definizione è davvero molto interessante. Sfortunatamente, in questa sede, non

se ne può dare una più compiuta analisi. Basti notare, però, la sovrapposizione di piani concettuali: «assoluta e onnicomprensiva in base alle persone inquisite» (sovrapposizione del piano epistemico e del piano dell’ideologia processuale inquisitoria). «Priva di limiti e confini legali» […] «raggiungibile con qualunque mezzo […]» (sovrapposizione del piano epistemico, legale e dell’ideologia processuale).

con il rispetto di regole precise e relativa ai soli fatti e circostanze ritagliati dalla legge come penalmente rilevanti. Questa verità non pretende di essere la verità, non è conseguibile mediante indagini inquisitorie estranee all’oggetto processuale; è di per sé condizionata al rispetto delle procedure e delle garanzie di difesa. È insomma una verità più controllata quanto al metodo di acquisizione ma più ridotta quanto al contenuto informativo di qualunque ipotetica “verità sostanziale”: nel quadruplice senso che è circoscritta alle tesi accusatorie formulate sulla base delle leggi, che deve essere suffragata da prove raccolte attraverso tecniche prestabilite normativamente, che è sempre una verità solamente probabile e opinabile, e che nel dubbio o in difetto di accuse o di prove […] prevale la presunzione di non colpevolezza, ossia della falsità formale o processuale delle ipotesi accusatorie367.

Per Ferrajoli questo sarebbe il prezzo e il valore del formalismo anche se, allo stesso tempo, ammette che, se è vero che «una giustizia penale interamente con verità risulta un’utopia, una giustizia penale interamente senza verità equivale ad un sistema di arbitrio»368.

Si deve sottolineare che i teorici del fatto, in opposizione a questa tendenza, hanno ridotto l’utilizzo aggettivato del termine verità e spesso hanno prodotto anche argomenti relativi alla non sostenibilità di tale opposizione. Ad esempio, González Lagier afferma: Quando affermiamo che una ricostruzione fattuale è vera, non vogliamo (solo) dire che sia coerente, che sia accettabile, o convincente […] ma che sia una ricostruzione che probabilmente riflette in maniera abbastanza approssimativa ciò che realmente è accaduto […] la parola verità, tanto nell’espressione “verità materiale” come nell’espressione “verità processuale” significa “corrispondenza con la realtà”, così non ci sono ragioni per sostenere che siano cose differenti369

e anche che la:

“verità processuale” e la “verità empirica” (a) non si differenziano quanto alla caratteristica che predicano degli enunciati che si dicono veri; (b) nemmeno quanto ai criteri di verità; (c) solo per una questione di grado, quanto alle restrizioni poste ai mezzi di accertamento della verità; (d) non si differenziano nemmeno (se non, di nuovo, forse solamente per una questione di grado) quanto al loro carattere probabilistico370

367 Ferrajoli, 1989, pp. 17-18. 368 Ferrajoli 1989 p. 18.

369 González Lagier 2013, pp. 25 e 26. Traduzione mia.

Si è precedentemente sottolineato che distogliere la verità dalla sua funzione epistemica371 equivale a svuotarla di significato e renderla inidonea a permettere il

conseguimento del fine conoscitivo cui è sotteso il suo accertamento. Taruffo, sul punto, afferma che: «l’espressione “verità materiale” e le altre espressioni sinonime diventano

etichette prive di significato se non si ricollegano al problema generale della verità. Da questo

punto di vista, il problema della verità dei fatti nel processo non è che una variante specifica di questo problema più generale»372.

Ci si può interrogare, allora, sul perché si sia sentito (e si senta) il bisogno di utilizzare una tale quantità di specificazioni da apporre al termine “verità”. Da un lato si può immaginare che ciò sia dovuto alla necessità di rendere conto di abitudini in qualche modo diffuse anche nel linguaggio comune dei parlanti, dall’altro, però, si può ipotizzare che vi siano ragioni ulteriori che hanno reso tale prassi così diffusa. Se così fosse, ne potremmo ipotizzare almeno cinque:

(i) per specificare il concetto vago e generico di verità;

(ii) per specificare alcune caratteristiche degli enunciati nei quali compare il termine “verità”;

(iii) quale “amplificatore” comunicativo di una data ideologia del processo o teoria epistemologica373;

(iv) per connotare il contesto o il metodo utilizzato per la ricerca della verità374;

(v) per evidenziare la sua legittimità, validità e efficacia.

Dalla sola sintetica formulazione di queste ipotesi si può inferire che il fenomeno abbia differenti origini e sia riconducibile a diverse “dimensioni” o “funzioni” che potremmo chiamare l’una concettuale, le altre linguistico-semantica, teorico-ideologica, epistemica, e giuridica. La pluralità di queste ragioni di specificazione può essere intesa come un indicatore

371 Cioè attribuirle vesti o funzioni che esulino dall’essere, semplicemente, componente essenziale della

conoscenza. Ciò vale in particolar modo nell’ambito di un processo epistemico, ma si ammette che in altri ambiti la verità possa rivestire altre funzioni.

372 Taruffo 1992, p. 5.

373 Questo punto riprende la critica alla nozione di verità “troppo forte” elaborata da Ferrua. Cfr. Ferrer 2005,

cap. III sulla nozione di conoscenza troppo forte, ne parleremo comunque alla fine del terzo capitolo.

374 Tuzet 2010 p. 36, sostiene, ad esempio, che la contrapposizione tra «verità materiale» e «verità processuale»

della complessità (reale o percepita) nella comprensione del tema della verità e dei livelli di analisi attraverso i quali il fenomeno può essere studiato.

Tuttavia, l’intuizione che qui si difende è che l’applicazione di qualsivoglia aggettivo alla nozione di verità può essere fuorviante e può non consentire la produzione di teorizzazioni concettualmente corrette. Ciò avviene in primo luogo perché, come abbiamo visto, la nozione di verità verrebbe distolta dalla sua funzione epistemica e, in secondo luogo, perché il fenomeno dell’“etichettamento della verità” deriva, spesso, da una serie di fraintendimenti e sovrapposizioni concettuali375. L’illusione di chi utilizza queste nozioni

consiste nel fatto che affiancare al termine “verità” un aggettivo sembra potergli attribuire delle “qualità” che però esso, di fatto, non è suscettibile di ricevere376. Ciò comporta ben

pochi benefici in termini di chiarezza e correttezza delle tesi sostenute377 e sfocia, spesso, in

teorie caratterizzate da storture epistemiche così come da mancanza di consilience, cioè di “ampiezza esplicativa”378.

Il caso della dicotomia “verità materiale-verità processuale” è emblematico. Tale distinzione, pur evidenziando la legittima esigenza dei giuristi di distinguere tra verità e verdetto giudiziale, pare a chi scrive concettualmente erronea perché crea non solo un pregiudizio di pluralità aletica rispetto ai fatti (che non è sostenibile), ma agevola una certa presunzione rispetto alla sovrapponibilità delle nozioni di conoscenza e verità. Come afferma Ferrer se la distinzione serve a dare conto dei casi in cui la ricostruzione dei fatti avvenuta in giudizio si discosti da quanto avvenuto nel mondo non si ha necessariamente bisogno della dicotomia concettuale “verità materiale” / “verità formale” ma è certamente più corretto parlare di “accertamento” o prova (per indicare la ricostruzione processuale) e verità per indicare lo svolgimento effettivo dei fatti379.

Nel paragrafo seguente ci soffermeremo su altre distinzioni applicate in dottrina alla nozione di verità ma basate su peculiarità del contesto di scoperta.

375 Ferrer 2005, p. 61 e ss., però, sottolinea come tale distinzione sia nata dall’esigenza di spiegare l’eventuale

divergenza tra giudicato e realtà fattuale. Nel parleremo alla fine del prossimo capitolo.

376 Cioè, non acquista nessuna qualità sostanziale dall’attribuzione di tali specificazioni semantiche. 377 Cfr. Ferrer 2005, 61 e ss., sottolinea come questo “metodo teorico” non abbia portato nessuna concreta

soluzione al problema che riguarda la chiarificazione dei rapporti tra prova e verità.

378 Sul concetto di consilience si veda: Leiter 2007, pp. 168, 205 e ss., 211 e ss. ma anche Thagard 1978. 379 Ferrer 2005, p. p. 65-66, n. 14.