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Il pregiudizio epistemico 1 L’assolutismo deluso

La riabilitazione del realismo aletico in campo giuridico

4. I loci della letteratura sulla verità

4.3. Il pregiudizio epistemico 1 L’assolutismo deluso

Autori come Taruffo, Ferrer e Ferrua hanno evidenziato, in senso critico, l’attitudine (diffusa tra i giuristi, e non solo) ad essere degli «assolutisti delusi»300.

Sebbene in letteratura se ne sia parlato in termini personalistici, tale nozione indica piuttosto una “patologia” del discorso teorico e sarebbe quindi, più corretto parlare di “assolutismo deluso”.

Avviene – in sostanza – che la rilevanza teorica (l’importanza) attribuita a un dato concetto si traduca, spesso, in descrizioni stereotipate e perfezionistiche, esposizioni o spiegazioni connotate dall’applicazione a quel concetto di caratteristiche e qualità inarrivabili

298 Mi limito a citare: Musatti, 1930; De Cataldo 1988; Loftus 2003, Mazzoni 2003; Bona 2010.

299 Si pensi, ad esempio, al caso in cui vengono prodotti in giudizio filmati o registrazioni che magari consentono

di avere un accesso molto più specifico e diversificato ai fatti della questione. Classico il caso di telecamere poste in più punti, magari difficilmente raggiungibili personalmente.

300 Hart 2002, p. 163: parla di «assolutista deluso» in riferimento allo scettico sulle norme. Ferrajoli 1989, p. 36-

37 parla invece di «illuministi delusi» riprendendo i «verificazionisti» e «giustificazionisti delusi» di Popper 1972, p 391. La figura viene ricordata anche da Ayer 1967, cap IV, da Twining 1984, pp. 96 – 97; da Taruffo 1992 p. 10 note 22 e 23, da Ferrer 2012, p. 11, nota 7 e da Ferrua 2012 p. 32. e 2015, p. 14, il quale, come diremo, sostiene che tale atteggiamento derivi dal sostenere una nozione «troppo forte» di verità.

o, semplicemente, migliori di quanto non siano in realtà301. Chiameremo questo

comportamento teorico “assolutizzazione delle nozioni rilevanti”. Tale fenomeno funziona, quindi, tramite un processo di idealizzazione che comporta l’attribuzione di caratteristiche tanto perfezionistiche quanto irrealistiche al concetto studiato e la sua definizione in termini che sono stati definiti «troppo forti»302.

Ferrua utilizza questa espressione nell’ambito della sua riflessione sul tema della verità e, sebbene il concetto non venga esplicitamente definito, è possibile darne almeno due letture: la prima in senso epistemologico: a) come identificazione della nozione di “verità” con quella di “certezza” e b) come pretesa di onnicomprensività e infallibilità delle nostre facoltà mentali e del nostro linguaggio303.

Una seconda lettura della nozione di “verità troppo forte” è in senso ideologico, come “asservimento” della nozione di verità alle “logiche” o alla difesa di una data concezione del processo o della conoscenza. In questo senso sarebbe “troppo forte” in quanto caricata di “pesi ideologici” e quindi utilizzata, impropriamente, quale sostegno delle ideologie di chi se ne fa portavoce. Verrebbe così distolta dalla sua peculiare funzione epistemica304.

Questa impostazione ha portato in letteratura a una serie di pregiudizi come quello che vuole incompatibili “verità” e “garantismo penale” o alla moltiplicazione indiscriminata di nozioni di verità305: ne tratteremo tra poco.

Se ci si interroga sulle ragioni del fenomeno dell’assolutizzazione della nozione di verità o, in generale, di atteggiamento assolutistico, si può pensare che esso sia generato da almeno tre ragioni (isolatamente o in combinazione tra loro): 1) il “peso”306 attribuito a tale

concetto; 2) l’incapacità di formulare analisi adeguate (e “contestualizzate”), improntate a standard realistici e coerenti con l’ambito cui si riferiscono o con i limiti delle proprie facoltà

301 Se ne possono trovare esempi in Ubertis 2015; Patterson 2010; Negri 2004. 302 Ferrua 2015, p. 14 e Ferrua 2012, p. 32.

303 Pretesa che consiste nel ritenere che le nostre facoltà cognitive (sensoriali, inferenziali e, in generale,

intellettive) riescano a trattenere e riprodurre in maniera perfetta e totale la realtà a cui essi di riferiscono. A questa lettura possiamo ricondurre anche il fenomeno della “sopravvalutazione della conoscenza diretta” e la nozione che spesso si stente invocata di “verità assoluta”. L’insostenibilità di una nozione “assolutista” di verità era già stata messa in luce da Russell 1906-1907. Russell criticava la tesi del monismo idealista che affermava: «solo la verità per intero è interamente vera»: p. 49. Traduzione mia. Egli in particolare criticava la l’assolutismo di questa nozione di verità (the whole truth) e la tesi secondo cui esse non sarebbe conoscibile “in parti”.

304 Abbiamo detto che la conoscenza viene concepita generalmente come “credenza vera e giustificata”, per

questo è ragionevole ritenere che, nell’ambito di un’impresa conoscitiva – come quella intrapresa all’interno del processo – la verità svolga una funzione epistemica, in quanto, senza la sua presenza, non ci sarebbe conoscenza.

305 Nozioni inservibili ai fini di un’impresa epistemica, in quanto, in questi casi, la verità non svolge alcuna

funzione epistemica ma viene utilizzata per veicolare una data concezione filosofica o un’ideologia processuale.

306 Cioè l’importanza, l’influenza di tale concetto nell’economia dello studio che si sta svolgendo. Ciò,

intellettive; 3) la necessità (teorica o ideologica) di negare la stessa nozione assolutizzata307. E

infatti, l’esito di questo atteggiamento teorico è stato, di frequente, quello di rifiutare la nozione che si era precedentemente assolutizzata. Tuttavia, è plausibile pensare che ciò non avverrebbe solamente per ragioni ideologiche o teoriche ma che questo fenomeno possa essere compreso anche come una reazione alla “delusione intellettuale” causata dal non trovare e non poter gestire teoricamente una nozione ritenuta tanto perfetta e utopica. Di fronte all’impossibilità di raggiungere una conoscenza certa e perfetta308 – in questo senso

“assoluta” – la disillusione teorica porta a negare qualsiasi possibilità di conoscenza della verità e «qualsiasi tipo di razionalità cognitiva»309. Come afferma Ferrer, siamo di fronte ad

un atteggiamento che salta da «una posizione epistemologica estrema ad un’altra, tanto implausibile come lo era la prima»310.

L’eredità del realismo ingenuo starebbe, quindi, proprio in un atteggiamento intellettuale che idealizza e rende stereotipati la realtà e i nostri processi cognitivi. Un po’

naïve, quindi, nel non considerare i nostri limiti intellettuali e nel dimenticare che le nostre

descrizioni del mondo lo sottodeterminano sempre (non riescono, cioè, a coglierne ogni aspetto).

In particolare, nel caso della nozione di verità, l’assolutizzazione si regge assai di frequente su argomentazioni che sovrappongono conoscenza (o certezza) e verità e su argomenti di stampo relativista. Ne sono due esempi le posizioni di Ubertis e Cavalla.

Ubertis afferma che non si possa parlare sensatamente una conoscenza «‘obiettiva’»311.

Difende questa tesi riprendendo il classico argomento relativista (analizzato nel primo

307 In questo caso tale meccanismo si risolverebbe in una tecnica retorico-argomentativa. Taruffo ricorda che tale

atteggiamento coincide con la figura del “Caricaturist” di Twining 2006 (ricordato nel primo capitolo) che è lo stereotipo di chi esagera volutamente le caratteristiche di qualcosa per poi poter dire che essa non è sostenibile o accessibile, proprio in virtù di quelle stesse caratteristiche esasperate.

308 Tipica di un chiaro retaggio cartesiano. 309 Ferrer 2012, p. 11.

310 Ferrer 2012, p. 11. Dell’atteggiamento che spinge spesso molti teorici a passare da una posizione estrema

all’altra (e che può essere collegata col fenomeno dell’assolutizzazione delle nozioni rilevanti) si parlerà nel prossimo capitolo. Intanto basti dire che Ferrajoli 1989, p. 20 afferma che questa posizione comporta l’inservibilità o la dannosità della nozione di verità nel processo. Ferrua 2015, p. 13, parla in senso molto simile di «convergenza degli opposti», tesi sostanzialmente coincidente con quella della «polarizzazione simmetrica» elaborata in Taruffo 1992, p. 20-21. Con questa locuzione egli sostiene che, nel suo essere “estrema”, la posizione che, ad esempio, ritiene incompatibili contraddittorio e verità «mostra lo stesso vizio della posizione razionalistica da cui rifugge che è quello dell’assolutizzazione (ne tratteremo nel prossimo paragrafo). Si rifugge cioè da posizioni razionalistiche insostenibili, perché assolute, per cadere in un irrazionalismo pure assoluto e quindi altrettanto insostenibile».

311 Ubertis 2006, p. 153-154. Ubertis 2015, p. 5: «[…] nemmeno sarebbe possibile comparare quanto ottenuto

applicando le regole di due differenti discipline, ad esempio quella storica e quella giuridica allo studio di uno stesso accadimento: “anche quando i frutti delle due diverse indagini apparissero difformi non si potrebbe

capitolo) dell’impossibilità di porsi in una situazione di neutralità, cioè in «un punto d’osservazione più alto […] dal quale pervenire a una verità inconfutabile per così dire di

secondo grado»312.

Sullo stesso piano sembra porsi Cavalla che sostiene: «le proposizioni verificabili» – cioè descrittive – «non possono mai considerarsi come asserzioni assolutamente indiscutibili, apoditticamente vere per tutti»313. A suo avviso la verificabilità di una proposizione

presuppone la corrispondenza tra linguaggio e realtà che, tuttavia, non è dimostrabile in quanto «bisognerebbe disporre di un terzo termine con il quale analizzare gli altri due ed effettuare tra loro un confronto». Secondo Cavalla, infatti, una qualsiasi riprova della “fedeltà” del linguaggio agli oggetti descritti non può svilupparsi che attraverso il linguaggio»314. A suo avviso, mancando questo terzo termine di paragone, accertare la

corrispondenza tra linguaggio e realtà si rivela solo «un’ipotesi […] sicché ogni enunciato descrittivo appare sempre intrinsecamente discutibile»315.

Gli argomenti sono simili ma presentano alcune importanti differenze. Il primo (quello di Ubertis) ha dei connotati più “metafisici” egli infatti parla di: «punto d’osservazione più alto» mentre quello presentato da Cavalla adatta il consueto argomento relativista alla famosa critica di Frege all’impossibilità di una corrispondenza tra enunciati e mondo. Entrambi, tuttavia, utilizzano aggettivi quali «inconfutabile», «indiscutibile» che evidenziano una postura secondo cui verità e conoscenza o verità e certezza si sovrappongono.

A chi scrive nessuna delle due posizioni sembra persuasiva perché, oltre a peccare di assolutismo concettuale e cognitivo (non ammettendo alcun tipo di gradualità) ritengono necessario un meta-criterio assolutamente esterno ai nostri sistemi concettuali come unico mezzo per arrivare a conoscere la verità e questo non è sostenibile anche alla luce delle riflessioni che abbiamo presentato nel primo capitolo e, in particolare, della critica di Davidson alla nozione di incommensurabilità316.

comunque determinare quale sia quello ‘migliore’. Per operare una tale scelta, infatti, occorrerebbe potersi porre da un punto d’osservazione più alto di quello storico o giudiziario, dal quale pervenire a una verità inconfutabile, per così dire, di secondo grado. Ma ancora una volta si tratterebbe di un’illusione, [considerata] l’irraggiungibilità di una verità incontrovertibile: pure tale eventuale esito ulteriore non potrebbe comunque sostituirsi a quelli precedenti, diversi essendo[lo] il contesto, gli strumenti e gli scopi della ricerca”».

312 Ubertis 2006, p. 153-154. Corsivi miei. Tale metafora ha anche lo svantaggio di essere metafisicamente e

assiologicamente connotata.

313 Cavalla 1991, p. 58. 314 Cavalla 1991, p. 58.

315 Cavalla 1991, p. 59. Per una visione opposta si veda, ad es., Russell 1912 cap. 12, nelle parti dedicate alla

correspondence theory.