Una concezione troppo esigente per il diritto?
6. Le ragioni a sostegno del realismo aletico
I filosofi del diritto di stampo realista ai quali ci siamo riferiti in precedenza (i teorici del fatto), tuttavia, non hanno temuto di prendere una posizione netta nei confronti delle teorie epistemiche e, più in generale, nei confronti dell’anti-realismo aletico. Marina Gascón e Michele Taruffo591, in particolare, hanno apertamente criticato l’idea di concepire la verità in
tali termini e lo hanno fatto riferendosi, soprattutto, alle teorie coerentiste e pragmatiste della verità.
È possibile riassumere tali critiche in una serie di punti, il primo e più importante dei quali è di carattere generale e di ordine filosofico. È stato infatti evidenziato che abbracciare le teorie epistemiche possa comportare un forte rischio di “relativismo ontologico”592 dato
che, affermando la mente-dipendenza (in questo caso, dipendenza dalla verifica, giustificatezza, conoscenza soggettiva o comunitaria) di quello che esiste (e quindi di quello che è vero) ci esporremmo al rischio di violazioni del principio di non contraddizione593. Il
pericolo è che, in casi estremi, si arrivi a ritenere che un dato enunciato fattuale (una data ricostruzione del mondo) sia ritenuto né vero né falso (semplicemente perché non ne abbiamo conoscenza) e perfino che due ricostruzioni contraddittorie dello stesso evento siano ritenute entrambe vere, o entrambe false594. Rischio inaccettabile se si vuole tutelare la razionalità
della decisione giudiziale e della sua giustificazione argomentativa ma anche il garantismo processuale, come cercherò di indicare nel prosieguo.
Una seconda obiezione posta alle teorie epistemiche si riferisce al fatto che la “giustificazione” sarebbe una qualità troppo “instabile”, così come mutevoli e soggetti al
591 Hanno trattato il tema, però, anche Ferrer Beltrán 2012 e Tuzet 2016a. 592 Gascón 1999, p. 61.
593 Il giustificazionismo Dummett, come vedremo tra poco, rinuncia invece, parzialmente, al principio di
bivalenza.
cambiamento sarebbero i vari criteri che utilizziamo per applicare il predicato “vero” e quanto consideriamo garanzia assertoria. La proprietà dell’“essere vero”, al contrario, sarebbe una proprietà “fissa” e risulterebbe, quindi, un mezzo molto più affidabile sul quale costruire giudizi e impostare l’azione. Secondo Taruffo, poi, se si decidesse di accettare l’equazione “verità=giustificazione” ci si dovrebbe rassegnare a non avere né verità definite né conoscenze stabili col rischio di tornare al problema del relativismo ontologico sopra ricordato595.
Viene inoltre sottolineato da entrambi questi autori che identificare verità e coerenza non fornisca informazioni sull’esistenza (o meno) di stati di cose rispetto ai quali gli enunciati possono dirsi veri o falsi ma solo una serie di informazioni su di essi596. Un argomento simile
viene poi utilizzato contro le teorie pragmatiste. La verità, intesa come accettabilità giustificata, ci informerebbe solo sul fatto «che esistono ragioni che ci giustificano ad asserire un enunciato»597, null’altro. Si è, infatti, affermato, da una parte, che la pretesa pragmatista di
identificare la verità con un consenso generalizzato è del tutto utopistica dal momento che trovare un perfetto consenso (anche scientifico) su materie complesse e altamente controverse sembra davvero difficile. Dall’altra si è ribadito come nessun consenso, per quanto esteso o solido, possa mutare o influenzare in alcun modo i valori di verità di un enunciato fattuale598.
L’idea stessa di “consenso generalizzato” sarebbe, inoltre, quasi sempre utilizzata dai pragmatisti in maniera troppo vaga e poco contestualizzata599. Ciò detto tali considerazioni
non dovrebbero portare a credere che la coerenza o l’accettazione diffusa non debbano essere utilizzati. Essi, sebbene risultino insufficienti se utilizzati isolatamente, sarebbero invece utili come criteri «addizionali di verità»600 .
Le critiche di questa dottrina giusfilosofica alle teorie coerentiste e pragmatiste601
affondano le proprie radici in alcune tesi presentate da Ferrajoli:
Ho l’impressione che la contrapposizione tra queste teorie o nozioni [di verità] nasca da un equivoco. La nozione semantica è infatti asimmetrica rispetto alle altre due. Laddove la “corrispondenza”, almeno nella
595 Taruffo 2009 p. 81.
596 Gascón 1999, p. 61; Taruffo 2009, p. 81. 597 Gascón 1999 p. 67.
598 Tuzet 2016a p. 67.
599 Gascón 1999 p. 62; Taruffo 2009 p. 81. 600 Gascón 1999 p. 67. Corsivo mio.
601 Soprattutto contro il pragmatismo di James e Peirce anche se questa critica è rivolta forse più ad alcune idee
sommarie o principi estrapolabili dalle loro parole che ad un’analisi davvero approfondita di alcune loro singole posizioni.
definizione di Tarski è il significato della parola “verità”, la “coerenza” e l’“accettabilità giustificata” sono invece dei criteri di (decisione della) verità. Precisamente la coerenza è il criterio che impone di considerare falsa una proposizione se è in contraddizione con un’altra ritenuta vera o se ne è derivabile un’altra ritenuta falsa; l’accettabilità giustificata è il criterio che consente di ritenere vera una proposizione a preferenza di un’altra qualora essa, in accordo con altre accolte come vere, risulti dotata di maggiore portata empirica […] I criteri soggettivi della coerenza e dell’accettabilità giustificata, per quanto elaborati in sede epistemologica, non sono infatti, di per sé, dei criteri soltanto di verità. Essi possono essere anche criteri di moralità, o di convenienza o di efficienza o di altro ancora» sono quindi «inaccettabili […] nella giurisdizione penale602.
Oltre alle critiche sopra menzionate, però, la dottrina giuridica a cui ci riferiamo, ha prodotto una serie di tesi positive circa l’adeguatezza della postura realista in ambito giuridico.
Marina Gascón, ad esempio, in Los hechos en el derecho, afferma che il realismo risulta particolarmente adeguato 1) «da un punto di vista concettuale, pratico e assiologico»603 ma
anche 2) per «dar conto della conoscenza dei fatti che si sviluppa in sede giudiziale»604.
Da un punto di vista assiologico – cioè al fine di «salvaguardare i valori che questa conoscenza deve perseguire in una prospettiva […] garantista»605 – il realismo sarebbe
adeguato perché non è dogmatico e consentirebbe di concepire e giustificare razionalmente l’errore giudiziario. Esso, infatti, ammette la possibilità di ipotesi che, pur riccamente provate ed accettate risultino, ciò nonostante, false. Come pure che un imputato possa essere innocente sebbene ci siano molte prove a suo carico. Proprio per questo il realismo sarebbe particolarmente indicato per giustificare le nostre intuizioni garantiste.
Sarebbe adeguato poi, da un punto di vista pratico, perché ci consentirebbe di arrivare a ciò che più ci interessa in giudizio e cioè l’«informazione empirica». Ci permetterebbe di conoscere quali sono i fatti che si sono realmente verificati (il referente empirico di un
602 Corsivi dell’autore. Ferrajoli 1989, pp. 40-43 che continua: «Solo se riferiti alla verità come corrispondenza, i
criteri della coerenza e dell’accettabilità giustificata possono infatti impedire la prevaricazione punitiva sul singolo di interessi e volontà più o meno generali, e vincolare il giudizio alla stretta legalità, ossia ai fatti empirici previamente denotati dalla legge come punibili».
603 Gascón 1999, pp. 66-67 (corsivi e traduzione miei). Vedi anche pp. 51 e ss; pp. 64 e 65. L’autrice parla di
“cognitivismo critico”. Nella versione presentata da Gascón esso fonde il cognitivismo anti-decisionista e garantista di Ferrajoli con alcuni spunti del realismo minimale di H. Putnam. In letteratura esso viene spesso utilizzato con una certa ambiguità: sia per indicare una postura ontologica sia come modello epistemologico. Si trova spesso, come abbiamo visto, anche nella dicitura: “realismo non ingenuo” ma entrambe le diciture sono derivate dall’opera di Ferrajoli. In questo lavoro, vista la sostanziale sovrapponibilità delle due dizioni, utilizzeremo solo la seconda e solo come concezione ontologica.
604 Gascón 1999, p. 65. 605 Gascón 1999, p. 65.
enunciato fattuale) e non la sua coerenza o la sua accettabilità giustificata. Del resto, secondo Gascón, «quando nel processo si chiede ad un testimone che dica la verità non gli si sta chiedendo che dica ciò che egli stima sia utile o coerente, ma che descriva i fatti, tali e quali accaddero»606. Gascón rafforza la sua difesa del realismo aggiungendo che, non solo esso ha il
pregio di adeguarsi a posizioni epistemologiche di portata più generale (e a suo avviso corrette), ma anche che, difendere tale posizione, è uno dei pochi mezzi che abbiamo per giustificare l’oggettività della conoscenza607.
Infine, il corrispondentismo risulterebbe adeguato anche da un punto di vista
concettuale:
perché il concetto di verità come corrispondenza, a differenza di quello che succede con altri concetti di verità, è quello che si adegua di più alle intuizioni dei parlanti e, certamente, anche a quelle di chi partecipa in un modo o nell’altro al procedimento giudiziale608.
Il tema della giustificazione delle “intuizioni del senso comune” è, all’interno della riflessione realista, un tema assai ricorrente. Il realista, infatti, sembra sentire l’esigenza di dar conto del modo in cui, generalmente, siamo portati a pensare come di qualcosa con cui la riflessione filosofica debba fare i conti609. Sebbene tale tesi sia tra le più utilizzate ed efficaci
per i realisti, tale tentativo di vincolare la riflessione filosofica alla “realtà” della pratica linguistica necessiterebbe di essere sviluppato e argomentato un po’ di più.
Generalmente, infatti, il concetto di “intuizione del sentire comune” non viene definito né tantomeno vengono esplicitate le ragioni del perché dovremmo sentirci così vincolati ad esso. In mancanza di ciò tale argomento che, di fatto, viene spesso considerato uno dei punti di forza della riflessione giusrealista, rischia di scontare le stesse difficoltà della tesi pragmatista sul consenso generalizzato.
Si pensi, infatti, alle risultanze del test che è stato presentato nel primo capitolo riguardo allo scetticismo dei pratici del diritto e al fatto che molte delle loro intuizioni sulla verità ottenuta o ricercata nel processo non sembrano essere di taglio real-corrispondentista.
606 Gascón 1999, p. 67.
607 Gascón 1999, p. 65, e p. 65 n. 63.
608 Gascón 1999, pp. 66-67. Vedremo che il ricorso alle “intuizioni dei parlanti” è un tema chiave anche per
l’argomentazione anti-realista.
609 Anche l’argomentazione dummettiana si appoggia alle prassi comuni del linguaggio per derivarne tesi su
verità, significato e giustificazione ma, come vedremo successivamente, differisce sostanzialmente dal modo realista. Sia la posizione dummettiana che quella realista, però, condividono l’intuizione per cui la pratica del linguaggio merita la nostra attenzione nel momento in cui costruiamo le nostre teorizzazioni relative alla verità.
La difesa del real-corrispondentismo basata sulle intuizioni del senso comune dovrebbe, allora, essere rafforzata in quanto il c.d. “sentire comune” è un concetto assai vago e non ha un riferimento univoco. La nozione di verità genera, infatti, interpretazioni contrastanti proprio nel senso comune, sede nella quale, come abbiamo visto, non regna solo il “buon senso” ma anche l’irrazionalismo e lo scetticismo. Parlare di senso comune, prima facie, sembra conferire a tale argomento una qualche valenza descrittiva quando invece, non essendo ulteriormente specificato in questi lavori, rischia di essere interpretabile solo in un senso meramente prescrittivo.
7. L’ anti-realismo processuale