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Giurisprudenza costituzionale

Una concezione troppo esigente per il diritto?

2. Giurisprudenza costituzionale

La risposta che il giudice costituzionale ha dato a questa situazione di incertezza sul tema della necessità o meno dell’elemento aletico tra i fini del processo è stata molto

508 Caprioli 2017, p. 319. 509 Caprioli 2017, p. 319.

510 Che recita: «Il testimone ha l'obbligo di presentarsi al giudice e di attenersi alle prescrizioni date dal

medesimo per le esigenze processuali e di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte».

511 Che recita: «Prima che l'esame abbia inizio, il presidente avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità.

Salvo che si tratti di persona minore degli anni quattordici, il presidente avverte altresì il testimone delle responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: “Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”. Lo invita quindi a fornire le proprie generalità».

512 Caprioli 2017, p. 333. 513 Nobili, 2009, p 212. 514 Nobili 2009 p. 208.

influenzata, negli anni, delle vicende socio-politiche che hanno caratterizzato la storia del nostro paese e, quindi, a parere di chi scrive più da ragioni di tipo ideologico che genuinamente epistemologiche.

In un primo momento, infatti, la Corte si era pronunciata strenuamente a favore della ricerca della verità nel processo con una serie di pronunce che sono state definite «sentenze inquisitorie»515. La Corte costituzionale, nella sentenza 23 maggio 1991 n. 258, ad esempio,

affermava che la riforma in senso garantista del nostro codice di procedura penale non aveva intaccato la sua caratteristica fondamentale: e cioè che il processo è principalmente orientato al «principio di ricerca della verità materiale». Tale affermazione è stata poi sostenuta anche dalla sentenza Corte cost. 3 giugno 1992, n. 255: «il fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità» e che questo sia l’unico modo in cui il processo può realizzarsi «in armonia coi principi della Costituzione». Successivamente, la Corte cost. 24 marzo 1993, n. 111 ha ribadito quanto affermato dalle due pronunce precedenti spingendosi avanti nel criticare quella visione – sporadicamente difesa anche da alcune pronunce della Cassazione – che vuole il processo come mero mezzo di risoluzione dei conflitti, come istituzione che «non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale un esito vale l’altro, purché correttamente ottenuto»516.

La Consulta ha proseguito poi criticando la posizione di chi vorrebbe che il giudice rivestisse un ruolo di mero garante del giudizio che «avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali, onde pervenire ad una decisione il più possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere – nel presupposto di una accentuata autonomia finalistica del processo – quella sola verità processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto delle rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello».

Questo orientamento è avvenuto in concomitanza con una serie di eventi e cambiamenti importanti nel nostro paese prima tra tutti la già accennata riforma garantista del processo penale che aveva portato ad una forte mobilitazione oppositiva della Magistratura sulla spinta del timore di essere declassata ad un ruolo totalmente residuale nel processo. Si paventava

515 Perpetuando così l’odioso equivoco che l’accertamento veritativo dei fatti comporti un processo

antigarantista. L’argomento è affrontato anche in Carlizzi 2017, pp. 22-23.

infatti il rischio di un giudice ridotto a mera “penna” delle parti nella redazione di sentenze in ottemperanza alla richiesta di neutralità e terzietà che il sistema accusatorio prevedeva.

Un altro elemento che può aver influenzato l’orientamento della Corte potrebbe essere, tra i molti, il clima di forte sdegno mediatico e sociale che aveva investito l’Italia all’indomani dei primi grandi maxiprocessi alla mafia517 e dello scandalo c.d. “mani pulite” o

“Tangentopoli”518 relativo ad una serie di inchieste giudiziarie che avevano rivelato un

sistema pervasivo di collusione e corruzione che univa strettamente imprenditoria e politica italiana. Fu un momento di forte incertezza e di “frattura” col passato che ebbe rilevanti ripercussioni anche sul sistema politico italiano. Si arrivò, infatti, al c.d. “crollo della prima Repubblica” cioè allo scioglimento di partiti storicamente maggioritari come la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano generando, di fatto, mutamenti non trascurabili degli equilibri politici italiani.

Già dalla fine degli anni ’90, però, la Corte costituzionale aveva iniziato a pronunciarsi in maniera più sporadica ed in modo molto più blando sul tema. Nella sentenza n. 361 del 1998, infatti, non si incontra più, esplicitamente, il termine “verità” ma si assegna al processo solo la funzione di «verificare la sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative responsabilità».

Del resto, si deve anche rilevare che, al contrario di quanto generalmente viene attestato, anche durante la c.d. “fase inquisitoria” ci sono state delle sentenze di indirizzo opposto e non favorevoli ad assegnare al processo una funzione aletica. Ad esempio, già nella sentenza della Corte cost. n. 41 del 10 febbraio 1993 nella quale, seppur incidentalmente, si trattava del tema della verità, si affermava chiaramente che l’udienza preliminare, a differenza della fase dibattimentale, non sarebbe «una sede di acquisizione probatoria destinata all’accertamento della verità». A tale voce hanno fatto poi seguito in modo concorde le pronunce: Corte cost. 17 giugno 1991 n. 303; Corte cost. 22 maggio 1991, n 252 e Corte cost. 28 gennaio 1991 n. 64 che hanno riportato l’orientamento maggioritario della Consulta a non considerare come scopo del processo l’accertamento della verità. Ne darebbe atto anche la recente sentenza della numero 73 del 2010 che, totalmente imperniata sulla salvaguardia dell’imparzialità del giudice, non fa alcun accenno alla finalità aletica del processo519.

517 Il primo fu voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e si concluse il 16 dicembre 1987 a Palermo. 518 Il primo procedimento fu aperto nel 1991 a Milano.

Nondimeno, v’è una pronuncia più recente che, del tutto isolatamente, assegna invece alla ricerca della verità un ruolo importante. Si tratta della sentenza 26 del 2008 nella quale la Consulta ha esplicitamente affermato l’importanza e la doverosità «di consentire il più ampio spettro di indagine nella ricerca della verità dei fatti». Tuttavia, la rilevanza che in questa decisione viene data alla ricerca della verità è, forse, spiegabile alla luce della vicenda particolare su cui verte la sentenza. Si trattava, infatti, di una decisione su un conflitto di attribuzioni tra la Procura della Repubblica, il tribunale ordinario di Roma e la Commissione parlamentare di inchiesta sulla dolorosa vicenda della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin,

reporter assassinati a Mogadiscio con modalità ancora non del tutto chiarite. La circostanza

che fosse una decisione su una vicenda tanto dolorosa e connotata da clamore mediatico spinge a pensare che l’appello alla verità sia dovuto più alla sete di sapere dell’opinione pubblica che ad un ripensamento della Corte che, a distanza di anni, non ha mostrato alcun

revirement del suo orientamento maggioritario