La riabilitazione del realismo aletico in campo giuridico
8. Tarski e la riabilitazione del realismo “ingenuo”
8.1. Il realismo della dottrina giuridica
410 Su questo tema si vedano anche Tuzet 2016a p. 83 e González Lagier 2013, p. 4 e ss. che però parla di
Come abbiamo visto, il dibattito che la maggior parte dei filosofi del diritto di lingua italiana e castigliana ha portato avanti dagli anni ’90 fino ai giorni d’oggi sul tema di verità nel processo è stato per la maggior parte concorde nel difendere una posizione “realista”.
La difesa del realismo aletico nelle riflessioni di questi giuristi si è espressa soprattutto 1) nella consapevolezza di una netta distinzione tra nozione di verità e criteri o mezzi epistemici che ci consentono – nella pratica – di conoscere la verità e 2) nella difesa – non sempre esplicitamente espressa – di una concezione di conoscenza “classica” come “credenza vera e giustificata” che da qui in avanti definiremo “forte” proprio in quanto richiede l’elemento della verità delle credenze giustificate411.
La consapevolezza rispetto alla distinzione tra vero e conoscenza della verità, tra definizione semantica di verità e i criteri per stabilirla (punto 1) è plausibilmente una conseguenza dell’accettazione pressoché unanime, tra questi giuristi, dell’applicabilità della teoria dei bicondizionali tarskiani agli enunciati processuali, così come proposto da Ferrajoli in Diritto e Ragione:
Se applichiamo questa equivalenza [quella tarskiana412] al termine “vero” quale è predicabile della
proposizione fattuale e di quella giuridica nelle quali può essere scomposta la proposizione giurisdizionale «Tizio ha colpevolmente commesso il tale fatto denotato dalla legge come reato”, otteniamo, per sostituzione, le due seguenti equivalenze: a) “la proposizione ‘Tizio ha colpevolmente commesso il tale fatto’ è vera se e solo se Tizio ha colpevolmente commesso il tale fatto”, e b) “la proposizione ‘il tale fatto è denotato dalla legge come reato’ è vera se e solo se il tale fatto è denotato dalla legge come reato413
Come si è visto in precedenza, l’accettazione di tale postura si manifesta (nell’opera di Ferrajoli e in quella della maggior parte dei filosofi del diritto a lui successivi) nella generale accettazione di una concezione corrispondentista di verità in chiave realista. Unitamente a questo modo di caratterizzare verità e realtà, i teorici del fatto hanno sposato una concezione “classica” di conoscenza che viene definita dalla relazione di tre elementi: “credenza”,
411 Tra i giuristi, Bulygin 1995, pp. 269-274 e Tuzet 2016a ne fanno chiara menzione. Tale definizione di
conoscenza non è tuttavia accettata in maniera unanime nel dibattito epistemologico e anzi si è affermato che l’epistemologia sviluppatasi dal 1963 in poi, non sia altro che la storia dei tentativi di risolvere il c.d. «problema di Gettier» che ha messo in discussione proprio tale definizione. Si veda a proposito: F. D’Agostini, N. Vassallo 2002, pp. 251 e ss.
412 Tarski, A. 1935 in Tarski 1956, pp. 152-178: «“la neve è bianca” è vera se e solo se la neve è bianca». 413 L. Ferrajoli 1989, p. 21. Si veda poi anche la p. 54, nota 31: «[La teoria di Tarski ha il pregio di aver]
“verità” e “giustificazioni”414. Secondo tale concezione Tizio sa che “p” se e solo se: 1) crede
“p”, 2) ha ragioni epistemiche affidabili a sostegno della sua credenza, 3) “p” è vera415.
Si è della definizione di conoscenza in termini relazionali proprio perché la conoscenza viene spiegata in un rapporto di mutuo collegamento tra la sfera “soggettiva” della credenza e quella “oggettiva” della verità che avverrebbe tramite l’elemento “intersoggettivo” della giustificazione.
Tuzet, al riguardo, parla di giustificazione come «condizione intersoggettiva della conoscenza» perché «i suoi criteri (ciò che mi autorizza a credere che “p”) sono elaborati in seno a una pratica sociale, dove non conta l’opinione individuale ma ciò che la comunità rilevante riconosce come giustificazione (certe fonti, certi metodi, ecc.)»416. Del resto, che
senso avrebbe una nozione di verità da applicare ai fatti, se non ci fosse nessuno interessato ad avere credenze su di essa? Non ci sarebbe alcun motivo per l’esistenza di tale nozione. Così, per il realista, non c’è giustificazione o “ragione per credere” che non sia tale in ragione di una qualche nozione di verità. Semplicemente perché una prova non può essere altro che una ragione per credere o accettare una qualche verità: ma su questo torneremo successivamente.
In quest’ottica, allora, una nozione di verità che non sia analizzata considerando anche quella di credenza sarebbe inutile a fini epistemici, mentre, una nozione di conoscenza, privata di quella di verità, rischierebbe di essere cieca417, una credenza indistinguibile da
molte altre, priva della forza di orientare veramente le condotte verso azioni efficienti, di successo. Questo perché la nozione di verità svolge anche un ruolo normativo rispetto al ragionamento pratico. Tendiamo, infatti, generalmente, ad agire molto più volentieri sulla base di credenze che sappiamo essere vere o più probabilmente vere perché, rappresentando
414 In questo lavoro, ben consapevoli della vastità della letteratura che si è occupata del tema, utilizzeremo come
sinonimi “giustificazioni”, “garanzie” e “prove” come elementi epistemici che legittimano l’asserzione e la conoscenza.
415 Vassallo 2002 in D’Agostini, Vassallo, 2002.
416 Tuzet 2016a, p. 73, specifica che «La prima [la credenza] è la condizione soggettiva della conoscenza, la
seconda [la verità] è la sua condizione oggettiva». Il valore della intersoggettività è caro, come vedremo successivamente, anche a Dummett che ne parla a proposito della prova. Sia in Tuzet (ma anche nella letteratura pragmatista) che in Dummett l’intersoggettività è un elemento che tendenzialmente conduce ad una maggiore oggettività dei giudizi. Declinato in senso realista ciò porta alla probabilità ma non necessariamente alla verità, nel senso anti-realista dummettiano, invece la prova stratificata nel tempo e intersoggettiva è identificabile con la verità. Comanducci 2008 p. 425-426, sebbene in modo indiretto (riferendosi alla conoscenza del diritto come pratica sociale e in particolare ai fatti istituzionali che in larga parte la costituiscono), parla di intersoggettività ma come “soggettivismo diffuso”, quindi in un’ottica opposta, rifiutando l’idea secondo cui l’intersoggettività porti ad una maggiore oggettività.
417 Su questo ultimo punto si veda anche quanto afferma Tuzet 2016a, p. 73. Per un quadro più ampio di questo
in un modo adeguato la realtà, ci consentono di essere degli agenti maggiormente razionali ed efficienti nel raggiungere i nostri obiettivi418.