Sembra opportuno, a questo punto, delineare alcune riflessioni conclusive rispetto al presente lavoro. Il testo è stato articolato in tre capitoli nei quali ho tentato di delineare un percorso progressivo che è partito da problemi molto generali quali quello della post-truth
culture e dei contrasti sul tema della verità nel c.d. “senso comune” di giuristi e non (Capitolo
1) per poi orientarsi su una riflessione più specifica intorno a contrasti dottrinali interni al dibattito giusfilosofico del realismo e dell’anti-realismo aletico (Capp. 2 e 3).
Per arrivare a questo grado di specificità ho ritenuto importante proporre alla fine del primo capitolo un’analisi essenziale dei principali fondamenti filosofici sui quali si è basato il dibattito tra realismo e anti-realismo aletico.
Il contributo che spero di aver offerto al lettore con il primo capitolo è, in primo luogo, un quadro concettuale e filosofico all’interno del quale inserire fenomeni come quello dello scetticismo e dei contrasti sul tema della verità e, in secondo luogo, aver dato conto – tramite una piccola indagine empirica – del fatto che il quadro filosofico del secolo scorso ha fortemente influenzato il senso comune dei giuristi inducendo tali professionisti a sovra- intellettualizzare nozioni assolutamente comuni come “verità”, “realtà”, “oggettività” e spingendoli ad evitarle. Si sarebbe, così, creata una sorta di dissociazione per cui nel ragionamento pratico (soprattutto quello istintivo) si usano i canoni real-corrispondentisti mentre nel ragionamento teorico e astratto (prettamente consapevole) si utilizzano categorie anti-realiste, che d’altra parte, la maggior parte delle volte, vengono ritenute più politically
correct. Ciò che spero sia emerso da questo primo capitolo è, quindi, un quadro complesso,
capace di dar conto dei conflitti teorici presenti nel dibattito attuale in merito all’utilizzo del termine “verità” nel senso comune e nel dibattito filosofico.
Nei capitoli successivi ci si è interrogati su tre temi principali: 1) il processo di riabilitazione del realismo aletico in campo processuale; 2) i contrasti dottrinali e giurisprudenziali rispetto all’utilizzo della nozione di verità e 3) la possibilità di dare risposte a quattro quesiti relativi alle relazioni tra piano semantico della verità e quello epistemico e attraverso i quali ho cercato di proporre un confronto tra le tesi realiste e anti-realiste sul tema della verità:
1. Nel momento della raccolta e valutazione probatoria di un qualsiasi processo (civile o penale che sia) che differenza fa, per noi, la distinzione tra prova e verità o tra prova e conoscenza?
2. La verità è davvero uno degli scopi del processo?
3. Il realismo aletico è la concezione che si adegua di più alle intuizioni dei parlanti e a quelle di chi partecipa al procedimento giudiziale?
4. Quando in sentenza stabiliamo l’esistenza di un fatto, stiamo affermando che la proposizione che lo rappresenta è vera o meramente provata?
Nello specifico, nel secondo capitolo mi sono occupata della dottrina giusfilosofica di stampo realista e ho cercato di ricostruire il suo contributo scientifico rispetto alla definizione dei temi dell’accertamento processuale e della nozione di verità.
Ribadendo alcune considerazioni svolte nel primo capitolo, ho rilevato che sin dai primi anni ’90 si è attestato un ritorno della riflessione filosofica e giusfilosofica (soprattutto tramite il lavoro e l’influenza di Luigi Ferrajoli) su temi quali il realismo aletico. Il lavoro di Ferrajoli, in particolare, ha permesso una prima reale apertura della riflessione giuridica e processualista verso temi filosofici ed epistemologici e quindi: 1) lo sviluppo di un interesse sempre maggiore per i temi della conoscenza e della verità e 2) un corrispondente maggiore adeguamento di queste riflessioni agli standard qualitativi del dibattito filosofico generale. Entrambe le discipline, fino a quel momento, si erano infatti interessate di altro e l’idea stessa di questa commistione interdisciplinare era percepita come una sorta di scardinamento della c.d. autonomia (autarchia) disciplinare.
L’interesse per il tema della verità e dell’accertamento fattuale si è, però, affermato prendendo forme nuove e più definite nei lavori dei c.d. teorici del fatto, filosofi del diritto di stampo prevalentemente analitico che, dapprima, hanno lavorato sulla chiarificazione di alcune fallacie presenti nel ragionamento processuale e giusfilosofico a loro antecedente, per poi interessarsi al progetto di una “riabilitazione” del realismo aletico per l’ambito processuale. Molti dei problemi concettuali e filosofici evidenziati da questa letteratura sono da attribuirsi, infatti, proprio alle ingombranti eredità del primo realismo aletico e del postmodernismo.
Il contributo che spero di aver offerto in questo secondo capitolo è, in primo luogo, aver messo in luce la necessità di lavorare ancora sulla “riabilitazione” del realismo per fornirne
una concezione adeguata al contesto processuale. Secondariamente, ho cercato di fornire un riconoscimento unitario alle opere degli autori che ho denominato “teorici del fatto” mettendo in luce una sorta di “metodo” e interessi comuni e collocandoli all’interno della rinascita dell’interesse filosofico per il realismo aletico.
Nel terzo capitolo si è partiti evidenziando che a livello legislativo e in giurisprudenza è avvenuto un cambiamento metodologico per cui, di fatto, ove non completamente rimosso ogni riferimento alla nozione di verità, esso è stato sostituito da lessico e categorie preminentemente epistemiche. Ora, tale fenomeno apre la questione se tale mutamento comporti anche l’aver accettato una postura anti-realista o se, invece, ciò sia un mero segno di progressivo e sempre maggiore tecnicismo del linguaggio delle Corti.
Ho cercato di mostrare che, sebbene le tesi realiste su verità e conoscenza processuali siano ad oggi maggioritarie, esse non sono di certo le uniche difendibili tanto che c’è una illustre tradizione di pensiero verificazionista e costruzionista anche in ambito giuridico sia sui temi dell’accertamento fattuale che sul tema della “conoscenza del diritto”.
A mio avviso, nonostante i tentativi di tale autorevole letteratura di rimarcare i benefici di un approccio anti-realista per la prassi processuale, tali soluzioni continuano a sembrare assai poco convincenti, molto costose e poco remunerative in fatto di efficienza dell’attività processuale (si ricordi l’analisi della circa la critica di Villa all’impostazione dicotomica).
Ritengo che il fenomeno del mutamento linguistico delle Corti non sia da riferirsi alla scelta consapevole di una postura anti-realista (ci sono ancora sporadici ma ricorrenti riferimenti alla verità in senso realista) ma piuttosto ad un mix di cause tra le quali, oltre alle ragioni postmoderne, sono riscontrabili anche quelle relative alla iper-specializzazione delle questioni trattate, al frequente contatto col sapere scientifico e a un affinamento delle competenze epistemologiche giudiziali.
Mi pare, inoltre, di poter dire che, nonostante possa essere ulteriormente approfondita, la proposta teorica di Ferrer sui rapporti tra prova, verità e accettazione fornisca un quadro prevalentemente adeguato nel quale inserire tale fenomeno senza comportare gli esiti contro- intuitivi delle scelte anti-realiste.
Si deve, ciononostante, riconoscere che la riflessione anti-realista in generale (e quella costruttivista-giustificazionista in particolare) ha avuto il pregio di mettere il realismo in discussione su alcuni punti cruciali quali la gestione della gradualità epistemica, la distorsione rappresentativa connaturata ai nostri strumenti conoscitivi e la consapevolezza della
complessità valutativo-descrittiva di ogni atto rappresentativo. Tutti elementi che erano stati per lungo tempo trascurati dal realismo ma che, lungi dal suggerire un suo abbandono, mettono nelle mani dei filosofi del diritto – e in particolare dei teorici del fatto – le basi per costruirne una versione sistematica maggiormente adeguata.
I contributi che spero di aver fornito al dibattito su tali temi con questo ultimo capitolo sono due. Il primo è aver messo in luce un’ulteriore tendenza (comune alla letteratura realista e anti-realista) che riguarda la ricerca di una via intermedia, capace di scardinare la visione conflittuale che da sempre ha caratterizzato il confronto tra questi due poli. Ciò mi permette di proporre due ulteriori ipotesi: 1) che questa via “moderata” sia, in qualche modo, quella scientificamente più promettente dato che scaturisce da una lunghissima stagione di confronto e scontro e 2) che, se è vero che il “senso comune” ha inglobato lessico e categorie post- moderne, praticamente, alla fine di tale stagione (e quindi con un certo ritardo), ciò fornisce qualche elemento per ritenere che, forse, in futuro, anche nel senso comune si diffonderà una tendenza “moderata” nella quale prevarrà un’aspirazione alla sintesi e un atteggiamento plausibilmente meno conflittuale di quanto ora avviene.
Il secondo contributo che spero di aver offerto al lettore è aver evidenziato che l’ambito di ricerca, lungi dall’essere esaurito, sembra caratterizzato da ampi spazi inesplorati che meritano di essere percorsi. Mi riferisco, in particolare, 1) alla necessità di fornire spiegazioni più adeguate delle connessioni empiriche, pratiche e concettuali tra prova e verità; 2) alla costruzione di una concezione realista pienamente riabilitata.