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Logica dicotomica vs logica anti-dicotomica

Una concezione troppo esigente per il diritto?

9. Il costruttivismo giustificazionista nella pratica processuale

9.3. Logica dicotomica vs logica anti-dicotomica

Se volessimo, lo scontro tra sistema dicotomico (realista) e anti-dicotomico (costruttivista) potrebbe essere ricondotto anche ad uno scontro tra modelli logici. Potremmo, infatti, leggere l’impostazione dicotomica alla luce di un modello di logica classica mentre, quella costruttivista – nella versione Dummett-Villa che stiamo considerando – alla luce di una logica intuizionistica o di un qualche altro tipo di logica non classica che sia scelta ed utilizzata (anche solo per singoli settori del linguaggio processuale), promuovendo un uso a volte ristretto della bivalenza o del principio del terzo escluso735. In questa sede non si intende

in alcun modo entrare nello specifico del complesso dibattito tra modelli logici ma limitarsi, senza alcuna pretesa di completezza, a dar conto del fatto che le intuizioni realiste e anti- realiste sono entrate nella riflessione giusfilosofica anche in questo tipo di dibattito.

Come abbiamo precedentemente accennato, nell’ottica del costruttivismo giustificazionista di cui trattiamo, si potrebbe affermare che per alcuni soggetti attivamente coinvolti nel processo non sia proprio possibile, di fatto, tenere un’impostazione dicotomica (si pensi, ad esempio, alle parti private coinvolte in un processo). Come dicevamo, di solito gli avvocati, anche da un punto di vista meramente semantico, sembrano lavorare nelle zone opache del linguaggio, nelle “pieghe” delle norme e delle ricostruzioni fattuali. Per loro, quindi (come per i soggetti da loro difesi), sembrerebbe valere, nella pratica, un’impostazione metodologica e semantica molto meno rigida di quella dicotomica che, in senso costruttivista, parrebbe poter ammettere posizioni graduali, valori di verità intermedi, sospensione dell’attività assertiva. In questi casi il costruttivista potrebbe voler ricostruire tali pratiche

735 Per principio di bivalenza si intende che è possibile attribuire ad una proposizione un solo valore di verità: V

o F. Per principio del terzo escluso (che è la traduzione sul piano formale del principio di bivalenza) si intende, invece, che una tra la proposizione o la sua negazione deve essere vera: se p è vera allora la sua negazione è falsa, se p è falsa allora la sua negazione è vera.

attraverso un uso ristretto dei principi della logica classica, così come suggerito dall’impostazione dummettiana.

Von Wright sosteneva che non ci si può chiedere quale sia la «vera» (la più giusta) «logica della verità», ci si può chiedere però:

1. secondo quale logica funziona veramente il ragionamento in un dato contesto e ci si può rendere conto che questa domanda non sempre ha una unica risposta,

2. quale sia la logica più adatta da applicare alla verità per il dato contesto di ragionamento che stiamo considerando736.

Così il costruttivista potrebbe affermare che la risposta circa quale sia la logica più giusta da seguire dipenderà solo dal contesto e per questo non sarà possibile dare per scontato che il ragionamento, in tutte le situazioni, debba seguire la logica classica.

Lo stesso von Wright riconosce che, nel caso in cui siamo in un contesto in cui il ragionamento lavora con concetti vaghi, una logica che permette al suo interno la presenza di lacune di valori di verità, sembra più adatta rispetto ad una logica classica che, invece, non lo consente. E ciò sembrerebbe accadere anche nella retorica processuale e, in generale, nel caso di valutazioni probatorie in presenza di gap informativi737.

Von Wright riconosce anche che, per i ragionamenti che riguardano i «processi e i mutamenti di un mondo che cambia», l’uso di un tipo di logica paraconsistente (con sovrapposizioni di valori di verità, cioè dove la proposizione può essere sia vera che falsa) può essere particolarmente adatto. L’idea che in sostanza mi pare volesse veicolare l’autore in quell’articolo era appunto quella di dar conto del fatto che una buona parte di queste logiche non classiche può essere sistematizzata all’interno di una teoria più ampia e che questo consente di raggiungere una comprensione più profonda delle stesse e delle loro relazioni con la logica classica (in questo sistema alcune nozioni, ad es. la negazione, possono comportarsi sia classicamente che non classicamente). Ciò potrebbe avere una qualche applicazione giuridico-processuale?

Secondo Mazzarese, mutatis mutandis, parrebbe di sì:

736 Von Wright 1987, pp. 333-334. Del resto, ciò è quello che sembra essere accaduto in alcune branche della

riflessione matematica: si veda ad esempio il caso già citato di Brouwer e della sua logica intuizionista.

un apparato logico-formale che mutui la natura vero-condizionale della logica classica (così come molti calcoli, standard e non, della logica deontica) non sia idoneo a cogliere i tratti peculiari a molti fenomeni giuridici per i quali si tenta (e dei quali si ritiene irrinunciabile) un modello esplicativo, rassicurantemente scandito in termini logici. In particolare, ritengo che un apparato logico-formale che si avvalga degli strumenti e dei principi vero-funzionali della logica classica bivalente non si presti ad un’analisi che dell’applicazione giudiziale del diritto fondi e giustifichi l’usuale concezione logico-deduttiva738

e parlando della logica fuzzy (o logica del ragionamento approssimato) afferma:

si incentra proprio su […] l’intrinseca indeterminatezza del linguaggio naturale (sia esso tecnico o no), e l’ineludibile natura approssimata del ragionamento (sia esso teoretico o pratico). Indeterminatezza del linguaggio e natura approssimata del ragionamento che (a dispetto di un pregiudizio radicato e di un timore diffuso) sono non prodromi del caos nella comunicazione (scientifica e non), e dell’arbitrio nelle decisioni (teoretiche e pratiche), ma presupposti necessari per la comprensione della pluralità di forme di comunicazione e/o di decisioni, e per la valutazione del grado di plausibilità dei diversi esiti che la pluralità di forme di comunicazione e/o di decisione rende possibili e plausibili […] l’apparato categoriale della logica fuzzy, in primo luogo mostra un’indubbia potenzialità euristica per un’analisi dell’applicazione giudiziale del diritto e, in secondo luogo, offre un’alternativa credibile alla contrapposizione fra sedicente razionalismo e presunto irrazionalismo normativo739

e ancora:

credo che prospettive differenti non siano necessariamente da contrapporre […] ma meritino […] un’attenta analisi in quanto, tutte, possibili momenti di uno stesso progetto: l’elaborazione di un modello esplicativo che renda pienamente conto della pluralità di articolazioni del ragionamento giudiziale e della varietà di forme del linguaggio giuridico che in esso possono intervenire, senza costringere le peculiarità delle une e delle altre entro i limiti (angusti e ad entrambe estranei) dell’apparato categoriale della logica classica bivalente740.

Come dicevamo in questa sede, ben lungi dall’entrare nel merito di tali questioni si è cercato solo di dar conto di come il costruttivismo filosofico abbia influenzato anche la riflessione giusfilosofica. Ciononostante, non ci si può esimere dal dire che, ad avviso di chi scrive, sebbene tali proposte risultino in qualche modo teoricamente affascinanti, nel campo di applicazione giuridica e giudiziaria esse sembrano avere davvero poco mordente.

738 Mazzarese 1996, p. 13. 739 Mazzarese 1996, p. 14. 740 Mazzarese 1996, p. 15.

Una prima ragione è che richiedono dei costi teorici e pratici davvero ingenti e poco remunerativi. Consideriamo i tre fondamentali benefici supposti dall’abbracciare il costruttivismo non-dicotomico e giustificazionista di cui stiamo trattando: 1) epistemologici (Villa), 2) sociali (Laudan) e 3) semantici (Dummett).

Partiamo da una considerazione preliminare e cioè che, come abbiamo visto, sia la proposta epistemologica di Villa sia (a maggior ragione) quella “sociale” di Laudan (che non è strutturata in termini esplicitamente anti-realisti), non implicano necessariamente l’accettare tale postura ma, al contrario, possono essere tranquillamente comprese e difese tramite un realismo non ingenuo. Detto ciò:

1. quanto ai benefici “epistemici” si ribadisce quanto già affermato in precedenza e cioè che il ruolo dei fattori “valutativi” nei nostri processi epistemici è ormai un dato assodato dalle epistemologie contemporanee e tradotto anche in termini di “scarto”, scostamento, errore tra rappresentazioni e realtà. Ciò mi consente di poter dire che sebbene, ovviamente, si possano produrre dei passi in più in questo senso (soprattutto relativamente alla consapevolezza e alle implicazioni di questi problemi), nell’ambito della prassi processuale questo problema sia già abbastanza compreso e valorizzato. Penso in particolar modo ai momenti in cui l’organo giudicante si confronta col sapere scientifico o comunque specialistico, momenti in cui spesso il giudice viene informato dello “scarto” dell’incertezza, appunto, perché esso è un valore già misurato in ambito scientifico. Mi sembra quindi che l’approccio non dicotomico in termini epistemici non porti sostanzialmente un grande contributo. Se è vero che si può fare di meglio nella gestione di questi aspetti, ciò può essere fatto anche rimanendo realisti.

2. Riguardo al valore “sociale”, cioè ai benefici che un approccio non dicotomico apporterebbe in termini di stigmatizzazione, controllo delle decisioni e legittimazione dell’istituzione processuale mi sembra di poter affermare che la neutralità della proposta di Laudan (essa al contrario di quella di Villa, non sembra implicare nemmeno in modo residuale una postura anti-realista) consente serenamente di raggiungere tali fini – anche in questo caso – anche rimanendo pienamente realisti. Così, in definitiva mi pare che la proposta di Laudan non porti alcun reale sostegno alla proposta costruttivista. La sua posizione sembra invece rendere palese che “non dicotomia” e “anti-realismo” non sono in alcun modo parti di un binomio necessario.

3. Relativamente al valore aggiunto che la proposta di Dummett porterebbe alla descrizione e comprensione del linguaggio processuale credo che (come nel caso della logica fuzzy di Mazzarese) esso potrebbe avere una qualche utile applicazione solo a livelli di astrazione molto alti rimanendo di assai difficile applicazione per la pratica processuale. Sebbene l’applicazione di tale impostazione potrebbe essere riferita a specifici ambiti del linguaggio credo che, come nel primo caso, tale applicazione sia oltremodo “costosa” e quindi non auspicabile. Inoltre, anche considerati quegli ambiti specifici del linguaggio processuale nei quali sembra avvertirsi l’esigenza di un uso ristretto della logica classica sembra oltremodo pretenzioso pensare di descrivere gli atti assertori delle parti processuali e quelli valutativi di chi li giudica attraverso una sospensione effettiva del principio di bivalenza (tanto più che, come si diceva, il giudice ha un obbligo perentorio di decidere che non gli permette di scegliere in senso neutrale).

Alcune delle intuizioni proposte da Dummett, tuttavia, sono degne di nota e saranno esaminate nel prosieguo anche attraverso il confronto con alcune tesi di Ferrer.