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3. Un’analisi dei rischi idrici ad Arborea: complessità intrinseche che emergono nel sistema

3.8 Altre intrinseche conflittualità nei rischi

Vi sono poi situazioni in cui il rischio di una determinata azione è percepito come alto per alcuni attori sociali e nullo o ininfluente per altri. Questo perché differenti attori sociali portano differenti posizionamenti attorno ad una determinata questione. È un caso lampante quello del Progetto Eleonora, dove il rischio aumentato per i cittadini arborensi sotto molteplici punti di vista (come abbiamo visto e come vedremo) viaggia in parallelo con rischi percepiti come bassi dalla S.p.A. Saras. In questo caso, il mancato avvio del Progetto Elonora è un aumento del rischio per l’azienda, un rischio economico in termini di minori introiti, ma a mio avviso anche un forte rischio di danno all’immagine. Saras, difatti, presenta se stessa e le proprie attività come leader della raffinazione in Europa, il cui fiore all’occhiello sono la “mission: essere un elemento fondamentale di sviluppo”, la “vision: progredire nel rispetto

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della sicurezza e dell’ambiente”, prefiggendosi di perseguire valori come onestà, rispetto, eccellenza, responsabilità delle proprie azioni e promuovendo «un utilizzo consapevole delle risorse energetiche, al fine di preservare, a vantaggio delle future generazioni, uno sviluppo sostenibile»40.

Nel momento in cui il Progetto Eleonora non solo è respinto, dunque, ma è anche promosso al pubblico come un progetto ritenuto fortemente rischioso per la salute e l’ambiente locali, elementi che sono esattamente all’opposto da ciò che la S.p.A. propone, il rischio per la Saras di conseguenza aumenta fortemente41.

Vi sono poi i rischi che sono poco percepiti a livello locale oppure le dinamiche che ruotano attorno ad essi sono considerate di un’ambiguità tale da annullare gli effetti benefici precauzionali impiegati allo scopo di limitare i rischi stessi. Senza entrare nel dettaglio, posso tuttavia citare ad esempio le rimostranze espresse da molti collaboratori arborensi in merito alle limitazioni presentate circa gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM).

Gli imprenditori agricoli, infatti, non condividono questa politica poiché, sostengono, il fatto che essi siano proibiti in Italia non significa che essi lo siano in altri paesi, come Argentina, Francia, ecc., dai quali gli allevatori acquistano le farine utilizzate come mangime integrativo per i propri animali. L’aspetto interessante della questione, a mio avviso, non è tanto la percezione alta o bassa del rischio, quanto la percezione dell’efficacia o dell’utilità di una determinata gestione o prevenzione del rischio stesso. La contraddizione intrinseca percepita dagli imprenditori agricoli fa dunque percepire i rischi legati agli OGM come decisamente bassi e, di conseguenza, fa apparire ai loro occhi la loro limitazione legale come

40 Si veda il sito www.saras.it, ultima consultazione 28/01/2016. 41

Non ho intenzione di dilungarmi ora sulla questione del Progetto Eleonora e dei rischi ad esso collegati, poiché questo argomento sarà trattato in maniera più approfondita nel paragrafo. In questa sede, mi premeva solamente portare un esempio etnografico circa la caratteristica “inversa proporzionalità”, se così vogliamo chiamarla, nelle percezioni di determinati rischi.

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una norma poco utile alla tutela della salute e, certamente, comportante maggiori costi per l’economia locale.

Come abbiamo avuto modo di vedere in esempi concreti, dunque, la percezione di un determinato rischio non è mai oggettivamente data ma è sempre interpretata in base a posizionamenti individuali, sociali, fattori percepiti come interni o esterni al sistema e, soprattutto, i posizionamenti dei soggetti possono cambiare in base alla situazione in cui si trovano, oppure in base alle mutate condizioni che li portano a mutare pensiero. Ciò che è dunque importante tenere ben presente per comprendere le logiche emiche è il fatto che gli attori sociali, nei loro discorsi, definiscono e ridefiniscono i confini delle proprie priorità, che possono cambiare a seconda del contesto situazionale e temporale.

Tutti questi esempi sono dimostrazioni concrete dei legami e delle reciproche influenze che intercorrono tra l’ambiente, la politica e le dinamiche economiche e di come le loro reciproche influenze e interazioni portino alla tensione dinamica nella definizione e percezioni dei rischi. Come abbiamo avuto modo di vedere nel capitolo due, Lai (2000) sostiene che le politiche europee e le tendenze del mercato hanno spinto gli allevatori/agricoltori a divenire imprenditori agricoli, promuovendo una logica di profitto che ha portato ad un’intensificazione delle produzioni anche nel settore primario. L’adesione al libero mercato rende il professionista libero, appunto di scegliere le proprie strategie ma, allo stesso tempo, aumenta la percezione di vulnerabilità (Douglas p.32). L’imprenditore, infatti, si sente intrappolato in una rete di dinamiche non del tutto assoggettabili al suo controllo, dove rischi di varia natura rappresentano una minaccia concreta all’esistenza dell’individuo e della sua comunità.

Il concetto di rischio viene dunque in aiuto all’attore sociale, fornendo uno strumento epistemologico con il quale orientarsi in questo mare di vulnerabilità, preoccupazioni e

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variabili da considerare. Questo è possibile grazie alla percepita “scientificità” dell’idea stessa di rischio; le sue terminologie universalizzanti, il carattere astratto, la forza di sintesi forniscono al rischio una dimensione oggettiva (p.33) che rassicura ed allo stesso tempo conferisce autorevolezza al discorso e, di conseguenza, all’attore sociale che lo elabora.

3.9 Rischi naturali: il cambiamento climatico

Come abbiamo avuto modo di vedere, di fronte alla percezione di determinati rischi gli attori sociali tendono a dare forma alle proprie idee, ansie, preoccupazioni andando a sviluppare veri e propri posizionamenti. Questi sono sempre negoziati, sia contestualmente che socialmente e manifestano dunque una natura fluida, dinamica. Tali posizionamenti sono elaborati dagli individui, che si basano sulla propria esperienza pratica, quotidiana, concreta, incorporata e sulle informazioni che ottengono da parte di soggetti che essi ritengono particolarmente affidabili o esperti, come ad esempio gli scienziati.

Come abbiamo detto e approfondiremo in seguito nel capitolo 4, gli attori sentono il bisogno di attribuire responsabilità per la gestione di un rischio percepito, responsabilità legate all’eventuale venuta in essere del pericolo ma, soprattutto, legate alla gestione delle sue conseguenze. Vi è tuttavia una categoria di rischi per i quali non è così automatico attribuire colpe all’interno della società, poiché i pericoli ad essi associati sono apertamente riconosciuti come indipendenti al controllo dell’azione umana. Questi rischi sono quelli che noi tendenzialmente classifichiamo come naturali. Come abbiamo avuto modo di analizzare precedentemente, i rischi naturali possono in realtà essere non di rado ricondotti ad un’azione umana: una mancata o cattiva gestione dei canali adduttori può essere riconosciuta, ad esempio, come una delle cause primarie del verificarsi di un’alluvione, oppure

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dell’inquinamento delle acque marine. Anche nel caso di fenomeni percepiti come più marcatamente naturali però, come ad esempio la siccità, la necessità di attribuire colpe o responsabilità nella gestione dell’emergenza si manifestano all’interno dei sistemi sociali. In tutti questi casi tenderanno ad affiorare nei discorsi emici le inefficienze percepite all’interno delle strutture istituzionali o di quelle che detengono l’autorità e il potere. Allo stesso tempo, i sistemi sociali avranno l’opportunità di dimostrare la propria resilienza, limitare le vulnerabilità e le debolezze interne e organizzarsi in maniere inaspettate. In sostanza dunque, la percezione di un rischio ruota non solamente attorno alla prevedibilità del pericolo stesso, ma anche e soprattutto alla gestione delle sue conseguenze.

Il concetto di prevedibilità è fortemente collegato alla conoscenza esperta di cui ho parlato all’inizio del capitolo. A seconda di quali siano gli attori sociali considerati dalla comunità come esperti e adatti a valutare il rischio, la competenza può essere misurata in base al sapere tecnico-scientifico, oppure al sapere pratico di chi si interfaccia quotidianamente con il proprio taskscape per mezzo pratiche esperte ed esperite. Cosa avviene, tuttavia, se tali competenze non sono più ritenute sufficienti a garantire una adeguata prevedibilità? Come reagiscono gli attori sociali di fronte ad un rischio ritenuto imprevedibile oppure che, proprio in ragione della sua imprevedibilità, mette in discussione i saperi generalmente accettati come esperti? Un ottimo esempio di una simile circostanze è, a mio avviso, il cambiamento climatico.

Il cambiamento climatico è uno dei temi che stanno ricevendo maggiore attenzione a livello mondiale da parte delle più disparate categorie di attori sociali, dagli scienziati agli agricoltori, dai politici agli ambientalisti. La questione del cambiamento climatico presenta, a mio avviso, un’ambiguità, intrinseca. Da una parte, infatti, gli esseri umani sono oramai pienamente consapevoli della propria agency e delle proprie responsabilità nel contribuire, se

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non al cambiamento climatico in sé, quantomeno alla sua accelerazione ed all’inasprimento dei suoi effetti disastrosi. D’altro canto tuttavia, esso è percepito come un fenomeno propriamente naturale: manifestandosi per mezzo di fenomeni atmosferici e, per l’appunto, climatici, gli individui sociali percepiscono la propria agency come limitata e il contrasto alle forze della natura come qualcosa che trascende le possibilità umane. Risulta chiara dunque la differenza del rischio percepito nei confronti del cambiamento climatico rispetto a quello di disastri ambientali come, ad esempio, una frana o un’alluvione, poiché in questi casi la causa primaria dell’evento estremo è più facilmente riconducibile a vere e proprie negligenze umane. Nell’approccio al cambiamento climatico, al contrario, l’uomo si trova spiazzato non solo in ragione della sua imprevedibilità, ma soprattutto per via della sua apparente ingestibilità.

Come precedentemente anticipato, questo tema riceve ai giorni nostri un interesse diffuso, che coinvolge la scala locale tanto quanto quella globale. Tra i tanti esempi che si possono citare, ritengo rilevante menzionare ad esempio il fatto che, a partire da gennaio 2016, sono entrati in vigore i Sustainable Development Goals (SDGs)42, tra i quali figura un obiettivo proprio sul cambiamento climatico:

Goal 13: Climate action

Take urgent action to combat climate change and its impacts43.

I governi internazionali stanno dunque cercando di far fronte a questo rischio percepito come grave e globale per mezzo di una serie di azioni volte a mettere in atto strategie di

42 Gli SDGs sono 17 obiettivi di sviluppo sostenibile che gli stati facenti parti delle Nazioni Unite si sono prefissi

di raggiungere nel periodo che va dal 2016 al 2030, a seguito del termine dei Millennium Development Goals (MDGs), in atto nel quindicennio 2000-2015.

43 Fonte: sito delle Nazioni Unite, http://www.undp.org/content/undp/en/home/sdgoverview/, ultima

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mitigazione, nel tentativo di diminuire gli impatti negativi che tali cambiamenti hanno sugli ecosistemi terrestri e, ovviamente sulle società umane. Allo stesso tempo però, vengono implementate anche strategie di resilienza, nel tentativo di stimolare pratiche per mezzo delle quali i sistemi ambientali e quelli sociali (i taskscape, in buona sostanza), siano in grado di reagire e affrontare in maniera adeguata i cambiamenti climatici, adottando una prospettiva di adattamento e adeguamento al cambiamento, oltre che “arginare” il problema.

Anche la comunità scientifica è entrata in maniera decisa all’interno del dibattito sul cambiamento climatico. In questo frangente diviene a mio avviso molto più evidente, rispetto ad altre tematiche, come gli scienziati siano oramai divenuti consapevoli della propria responsabilità politica. Nei discorsi su questo argomento, infatti, non è possibile per nessun attore sociale fare a meno di prendere un chiaro posizionamento: il cambiamento climatico si sta verificando oppure no; è aggravato dalle azioni umane, oppure no.

È interessante però notare come, ancora una volta, la comunità scientifica sia tutt’altro che compatta nei propri posizionamenti e come i pareri degli “esperti” non siano caratterizzati da un’opposizione di tipo binario tra coloro che sostengono la veridicità del cambiamento e coloro che lo negano. Emergono invece innumerevoli sfaccettature che rivelano nuovamente la complessità intrinseca della questione. Anzi, è proprio la pluralità di questi posizionamenti a rivelare in maniera ancor più evidente la natura essenzialmente politica della questione, una questione soggetta ad interpretazioni non solamente basate sull’analisi di dati “scientifici” e “oggettivi”. Al contrario, nel dibattito sul cambiamento climatico diviene manifesto come ogni individuo, a prescindere dalle competenze professionali, proietti nel dibattito le proprie aspirazioni, rappresentazioni, addirittura credenze se vogliamo. Queste interpretazioni, inoltre, vengono associate non solamente alla veridicità ontologica del cambiamento climatico, ma

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anche e soprattutto alle possibilità e modalità di intervento per prevenire catastrofi e disastri ad esso correlati.

Sebbene la maggior parte della comunità scientifica sia oggigiorno piuttosto unita nell’accettare che il cambiamento climatico sta effettivamente avvenendo, non mancano opinioni dissidenti che portano quelle stesse argomentazioni scientifiche a confutare il posizionamento generale44. Se andiamo ad osservare, poi, i dibattiti circa la possibilità di ottenere, nel concreto, risultati efficaci a contrastare gli effetti negativi che derivano dal cambiamento climatico, la variabilità delle posizioni si amplia e complica in maniera esponenziale. Alcuni individui si rivelano tenaci sostenitori dello sviluppo tecnologico e fiduciosi nella possibilità dell’uomo di trovare soluzioni pratiche e tecniche atte a contrastare i disastri del futuro. Altri sono inguaribili pessimisti, convinti che la possibilità di agency che gli esseri umani hanno per evitare la distruzione di interi ecosistemi sia oramai pressoché nulla. Vi sono poi posizioni intermedie: alcuni individui sono convinti che l’uomo abbia ancora la facoltà di frenare il riscaldamento globale, o quantomeno che esistano margini di miglioramento e possibilità di limitare i danni. Altri sono dell’idea che la soluzione al problema del cambiamento climatico non possa e non debba essere ricercata solamente nello sviluppo tecnologico, ma che piuttosto gli sforzi dovrebbero essere orientati a incrementare la resilienza delle popolazioni, in particolare quelle maggiormente vulnerabili, potenziando le loro capacità di reazione di fronte ai cambiamenti imprevedibili, che ci si aspetta accadere in maniera sempre più frequentemente in futuro45.

44 Questi individui sono definiti dalla comunità scientifica climate sceptics e, sebbene siano una componente

minoritaria è importante tenere in considerazione il fatto che il dibattito circa la veridicità o meno del cambiamento climatico ad opera dell’azione umana non è ancora completamente sopito nemmeno tra coloro che sono riconosciuti come esperti dalla società.

45 Su questa tematica della dialettica tra vulnerabilità e resilienza tornerò in maniera più approfondita nel

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In ogni caso, come visto la comunità scientifica è considerata come “esperta” e dunque adatta ad affrontare simili dibattiti. Al contrario i cittadini “comuni” sono tendenzialmente visti come “profani”. Ciò non li esime, tuttavia, dall’elaborare proprie interpretazioni e dal maturare personali giudizi sul cambiamento climatico. Questi posizionamenti sono basati su conoscenze prettamente individuali e dunque non scientifiche che comunque però poggiano le proprie basi sull’esperienza di vita quotidiana che ogni soggetto matura. Ne sono un esempio i pensieri espressi da alcuni cittadini sassaresi, raccolti in un video realizzato dai ricercatori dell’NRD46

. A questi individui sono state poste domande concernenti il cambiamento climatico, alle quali hanno così risposto:

In passato io ricordo tanti anni fa per esempio c’eran delle quantità enormi di mesi di grossa siccità.

In passato era molto più piovoso, molto più umido ovviamente con le piogge, molto più piovoso, più che altro non faceva temperature rigide come ci hanno abituati in questi ultimi cinque sei anni.

Sono questi studiosi che devono cambiare il clima. Che devono studiare. E da dire: guardate, così non sta bene!

Io mi aspetto che la scienza non ci metta piede. Perché è una cosa naturale […]. L’ambiente è intoccabile, è inviolabile, perciò la scienza non ci fa niente. Perché

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quando si parla di scienza, almeno da ignorante che sono io, si parla di roba chimica. E io queste cose qui, mi dispiace…47

Queste estemporanee opinioni raccolte tra i passanti sono il riflesso della varietà dei posizionamenti cosiddetti “profani” e delle contraddizioni intrinseche a questa tematica che è forse percepita come fumosa e solleva dunque molti dubbi e incertezze. Ritengo particolarmente interessanti gli ultimi due interventi, i quali rispecchiano a mio avviso l’atteggiamento ambivalente nei confronti non solamente del sapere scientifico in sé, ma del ruolo che esso può e dovrebbe rivestire nel far fronte ai problemi di natura climatica.

In questo dibattito circa le responsabilità e le modalità di intervento, l’antropologia può assumere un ruolo rilevante nella comprensione di come i fenomeni climatici e i rischi a essi correlati sono interpretati da parte di diversi attori sociali. A questo proposito, ho trovato particolarmente illuminante il contributo di Rudiak-Gould (2011). L’autore sostiene che il contributo che gli antropologi forniscono al sapere circa le società umane sta ampliando le conoscenze sulle modalità con le quali le comunità osservano, interpretano, rispondono agli impatti dei cambiamenti climatici, e concorrono dunque ad affinare le teorie sociali e le prospettive interculturali.

Tuttavia, sostiene l’antropologo, gli studi all’interno della nostra disciplina si sono tendenzialmente focalizzati sulla percezione locale, sull’interpretazione emica di “prima mano” degli eventi atmosferici, delle loro anomalie, del cambiamento climatico, del riscaldamento globale. Per Rudiak-Gould questi tipi di ricerca possono essere definite “studi di osservazione”(observation studies). Egli, tuttavia, ritiene che vi sia la necessità di compiere anche degli “studi di ricezione” (reception studies). Tali studi si occupano di comprendere

47Fonte: video prodotto dall’NRD di Sassari, filmato da Cinearena, consultabile al sito di MACSUR,

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come le informazioni divulgate dal sapere scientifico in merito, per l’appunto, al cambiamento climatico, siano recepite, interpretate, comprese, adottate, rifiutate, ed utilizzate nei discorsi e nelle pratiche emiche. Questo tipo di indagine, a detta dell’autore, è una pista poco percorsa all’interno dell’antropologia che si occupa di cambiamento climatico; anzi, paradossalmente, la maggior parte delle ricerche di questo tipo sono state condotte all’interno di altre discipline quali la geografia, le scienze politiche, la psicologia, la sociologia. Nella nostra disciplina,

brought up on a steady diet of classic ethnographies of relatively isolated peoples, we are sometimes tempted to search for the ‘traditional’ in even the most global and contemporary of subjects, such as climate change.

To exclude the scientific idea of climate change from our studies, on the grounds that the idea is ‘foreign’, would be to commit the same kind of mistake as that once made by anthropologists of religion: to ignore Christianity on the grounds that it is not truly ‘local’ or traditional. (Rudiak-Gould, 2011: 12)

Poiché il cambiamento climatico è una tematica che tocca la realtà di Arborea in maniera importante, le parole di Rudiak-Gould sono non solo un’importante monito a non cadere negli errori di stereotipizzazione tipici del passato – errori peraltro facilmente ripetibili in un contesto così antropologicamente isolabile come Arborea. Ciò che l’autore ricorda emerge in maniera molto evidente nei dati etnografici da me raccolti. La formulazione di pareri esperti da parte degli imprenditori agricoli locali, difatti, non esulano mai dall’integrazione tra la propria esperienza pratica (spesso di lunga data) e le conoscenze di

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tipo scientifico che essi assimilano nelle proprie pratiche quotidiane entrando in contatto in maniera regolare con i tecnici e con le informazioni diffuse dai media.

Per analizzare dunque come gli abitanti di Arborea interpretano il cambiamento climatico, come integrano le varie tipologie di conoscenze che essi posseggono per elaborare una “lettura esperta” del clima e come essi percepiscano le variazioni climatiche più o meno imprevedibili in relazione alla loro vita è importante, innanzitutto, andare a comprendere quale siano le attività routinarie48 di un imprenditore che si occupa di agricoltura e di allevamento. Compresi questi aspetti è possibile approfondire come le imprevedibilità legate ai fenomeni climatici vanno a inserirsi in questa quotidianità tanto che essi sono costantemente tenuti in considerazione, valutati, esaminati e diventano il centro di vere e proprie pratiche della gestione del rischio climatico.

Le coltivazioni per l’allevamento

Partiamo da alcuni esempi legati all’agricoltura e, in particolar modo alle coltivazioni che vengono praticate allo scopo di produrre nutrimento per i bovini. Il ciclo delle coltivazioni che vengono eseguite è rimasto più o meno costante per generazioni. Salvo variazioni nella qualità delle sementi acquistate e nella decisione di quale tipo di raccolto49

48 Non è possibile, in questa sede, entrare nel dettaglio di tutte le pratiche colturali che vengono esercitate ad

Arborea. Innanzitutto, la mia permanenza solamente nei mesi estivi mi ha permesso di osservare solo parte delle