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2. Il mestiere del sarto in Emilia-Romagna e in altre città italiane

2.6 Altri cas

Per concludere questa rassegna di studi sulle corporazioni dei sarti italiane, vorrei citarne altri piuttosto datati tutti comunque meritevoli di essere segnalati per le informazioni ivi contenute. In ordine di antichità sono quelli di Figline del 1243 contenente anche un tariffario, di Pistoia risalenti alla prima metà del Trecento673, di Udine del 1443674, de L’Aquila del 1452675.

Lasciando per ora da parte il caso di Figline che verrà analizzato nel paragrafo dedicato ai tariffari dei sarti, vorrei qui segnalare gli elementi più interessanti ricavabili dai suddetti casi che consentono di ampliare le conoscenze del mestiere e consuetudini diverse riscontrate da luogo a luogo.

Lo statuto dei sarti di Pistoia vietava a chi lavorava a metà con un maestro di separarsi nei mesi di massimo lavoro e cioè da metà gennaio fino a metà marzo e da metà luglio a metà settembre676. Tale norma dunque non ricorre come si è visto più sopra a festività religiose per definire i due periodi costituiti da due mesi ciascuno corrispondenti ai mesi invernali e ai mesi estivi. Questi coincidono più degli altri fino a qui esaminati con le attuali stagioni definite dal mondo dell’industria della moda per definire le collezioni autunno inverno e primavera estate. Naturalmente è impossibile paragonare il sistema moda attuale con la confezione di capi di abbigliamento del Medioevo, tuttavia è presumibile pensare che allora come oggi nelle sartorie artigianali nei mesi invernali gennaio-marzo si predisponessero i guardaroba primaverili ed estivi ed in quelli estivi i guardaroba invernali. Il periodo di apprendistato a Pistoia durava due anni dopo i quali, su licenza (parabola) del maestro il discepolo poteva diventare lavorante e lavorare anche a metà. Questi non poteva separarsi dal proprio maestro ed essere assunto da altro se fosse stato debitore nei confronti del primo677. Questo caso è analogo a quanto si è visto frequentemente.

672 Ivi, pp. 224-226. 673

E. Altieri, Statuti delle Arti dei sarti, della seta e degli orefici a Pistoia nel sec. XIV, in Bullettino Storico Pistoiese, Anno LXXIII (1971), fasc. 2, pp. 131-140.

674 N. Mantica, Statuto della fraternità dei sartori in Udine. 1443, Statuti Friulani, Nozze, Schiavi-Bressanutti, 9 dicembre 1884, Tipografia del Patronato, Udine 1884.

675

F. Visca, Gli antichi statuti dell’antica arte aquilana dei sarti, in Bollettino della Società di Storia Patria Anton Ludovico Antinori negli Abruzzi, Anno V, 15 luglio, puntata X, Santini Simeone Editore, Aquila, 1893, pp. 208-220. 676 E. Altieri, Statuti delle Arti dei sarti, della seta e degli orefici a Pistoia nel sec. XIV, cit., pp. 133, 137.

128 Verosimilmente il discepolo poteva essere debitore per le spese della quota di ingresso nell’arte. Come a Pisa i sarti pistoiesi non potevano tagliare tessuti per la confezione di abiti se questi non fossero stati cuciti presso la bottega ad eccezioni per i vestiti dei bambini di età inferiore a 8 anni678. Gli statuti di Udine del 1443 constano di 10 capitoli ai quali ne furono aggiunti 9 nel 1468. Tra le norme che trattano argomenti comuni a tutte le arti finora esaminate, ne emergono alcune più interessanti che attestano consuetudini diverse da una città all’altra. Alla fradaglia di Santa Lucia, così era chiamata la corporazione dei sarti udinese, facevano parte strazzaroli, sarti, cimatori e battitori di cotone. Più volte infatti è stata riscontrata la collaborazione tra queste professioni che ne rendeva dunque utile l’associazione non soltanto per controllare e limitare le invasioni di campo reciproche ma anche per aiutarsi a vicenda dato che il lavoro di ciascuna di queste arti sorreggeva quello dell’altra. A proposito delle festività da rispettare tenendo chiusa la bottega, numerose quanto quelle bolognesi, i sarti udinesi stabilivano che se le principali feste fossero cadute di sabato o di domenica, giorni di mercato, i soci avrebbero potuto svolgere il proprio lavoro senza incorrere in alcuna pena679. La legislazione imponeva tuttavia ai sarti di non lavorare di notte al lume di candela dopo la mezzanotte del sabato680. Ciò attesta l’abitudine da parte dei sarti di lavorare anche alla luce artificiale. In nessuno degli statuti esaminati, se si escludono noi capitoli dei farsettai veneziani che battevano il cotone, era vietato ai sarti il lavoro notturno. Certamente lavorare al lume di candela avrebbe potuto compromettere la qualità del manufatto, tuttavia questa prassi era tollerata poiché l’attività del sarto non era rumorosa e non disturbava i vicini681. Avevano inoltre stabilito che tutti i trasgressori degli statuti avrebbero dovuto offrire garanzie con i pegni, ritirati dagli ufficiali del comune ai quali si chiedeva la collaborazione682. Le addizioni del 1468 regolamentavano i rapporti tra discepoli, lavoranti e maestri senza apportare nessuna novità rispetto a quanto stabilito anche altrove. Nelle disposizioni udinesi lavorante è sinonimo anche di fante che in realtà dovrebbe indicare più un servitore a dimostrazione della promiscuità delle funzioni svolte dai collaboratori dipendenti all’interno delle botteghe683. I maestri erano tenuti a denunciare i propri lavoranti presso gli ufficiali dell’arte e chi desiderava aprire una propria bottega doveva essere

678

Ivi, p. 133, 136.

679 N. Mantica, Statuto della fraternità dei sartori in Udine. 1443, cit., pp. 13-14. 680 Ivi, p. 13.

681 Su questo tema cfr. D. Degrassi, Tra vincoli corporativi e libertà d’azione: le corporazioni e l’organizzazione della bottega artigiana, in Tra economia e politica: le corporazioni nell’Europa medievale, cit., pp. 359-384, in part. pp. 375- 376.

682 N. Mantica, Statuto della fraternità dei sartori in Udine. 1443, cit., p. 16. 683 Cfr. F. Franceschi, I salariati, cit.

129 esaminato e pagare la quota associativa fissata in 6 lire da pagarsi entro sei mesi684. Ai forestieri non era consentito aprir bottega e nemmeno lavorare presso la casa di qualcuno se prima non fossero diventati cittadini di Udine685.

Alcuni dei 34 capitoli degli statuti dei sarti de L’Aquila del 1452 sono tra i più interessanti finora rintracciati poiché offrono rare informazioni tecniche sul lavoro del sarto che qui mi limito a riportare. I due consoli dell’arte, principali funzionari della corporazione insieme a un sindaco, eletti con un grande ricambio ogni 4 mesi, avevano il compito di acquistare e lavorare (operare) la bambace da rivendere a tutti sarti della società (giuranda) ai quali era vietato prenderla altrove686. Evidentemente si voleva garantire la qualità di questo materiale che serviva a confezionare i farsetti, come si è già visto anche nel caso di Venezia a proposito dei farsettai. I sarti aquilani ponevano molta attenzione nella confezione dei loro farsetti, verosimilmente uno dei capi più richiesti dalla loro clientela. Un capitolo degli statuti fissava il prezzo dei fornimenti per farsetti (ioppitti) e cioè 16 soldi per gli accessori quali refe, magliecte et seta per li occhitti687. Si trattava rispettivamente di filo cucirino, occhielli metallici entro cui dovevano passare le stringhe che servivano per chiudere l’indumento nella parte anteriore, regolare l’ampiezza delle maniche e fissare le calze nelle falde inferiori dello stesso. Il filo di seta serviva per rivestire le magliette che assumevano la funzione di occhielli vale a dire asole. Questi appena elencati e descritti erano gli accessori utilizzati nella confezione del farsetto più comune che non prevedeva allacciature con bottoni come si vedrà nel quarto capitolo.

Interessanti sono pure le istruzioni per fare una giornea contenute in un’altra rubrica statutaria dal titolo De quanta misura, et come se debiano fare le giornee. In genere queste informazioni le si ricavano in negativo nelle leggi suntuarie, dove apprendiamo le caratteristiche degli abiti alla moda leggendo ciò che si voleva proibire. Anche questa rubrica poteva avere una finalità suntuaria poiché si stabiliscono le misure e cioè la quantità di stoffa massima da utilizzarsi, tuttavia è interessante che non contenga proemio di tipo moralistico e dica ai sarti come fare per non incorrere in una multa pecuniaria. La giornea doveva essere de misura delongheza de braccio uno et mezo quarto, che non habia largeza ad pedi al mino palmi dudici de iusta misura, et che non visse possa fare né far fare più che octo righe per quarto de essa giornea. Et da questa misura in socto, ogne uno la

684

N. Mantica, Statuto della fraternità dei sartori in Udine. 1443, cit., pp. 17-18. 685 Ivi, p. 18.

686 F. Visca, Gli antichi statuti dell’antica arte aquilana dei sarti, cit., pp. 210, 214-215. 687 Ivi, p. 218.

130 possa fare et far fare al modo li piacerà688. Difficile comprendere cosa si intenda per righe potrebbe trattarsi di gheroni, cioè inserti triangolari che consentivano di aumentare l’ampiezza degli indumenti. Certamente 8 gheroni per quarto per un totale di 32 gheroni costituiva una grande quantità di tessuto che, d’altronde la giornea richiedeva in questo periodo essendo anche caratterizzata da una particolare lavorazione all’altezza della vita che ne aumentava ulteriormente il volume. Le caratteristiche delle giornee sono facilmente visibili nella maggior parte delle opere pittoriche raffiguranti ambienti cortesi della metà del Quattrocento.

I sarti aquilani si occupavano dunque di farsetti, giornee, inoltre di calze lunghe e corte (pedali), e cappelli (cappella), tipologie che non era possibile vendere durante le feste comandate689. Era loro vietato commerciare farsetti e calze forestiere690 e nemmeno confezionare indumenti con tessuti tinti di verzino che avessero un valore inferiore ad una certa cifra691. Evidentemente si voleva garantire la qualità del prodotto che il verzino o brasile dal quale si otteneva una tintura rossa più scadente rispetto all’uso del chermes, non offriva692. I tessuti che havissono ad oscire fore dalla bottega e cioè i ritagli o scampoli avanzati dalla confezione non potevano essere riusati se non per fare pedali, cioè calze corte e piccole maniche (manichitti) da donna693.

Così come altrove, anche a L’Aquila i sarti bagnavano i panni prima di tagliarli e anzi una rubrica stabiliva che il tessuto destinato ad un indumento dovesse essere iustamente et congruamente bagnato et zimmato. I funzionari dell’arte garantivano al cimatore e al proprietario del panno che i tessuti fossero stati adeguatamente bagnati694. Era lecito da parte dei clienti lamentarsi nei confronti di un sarto per un taglio o una cucitura malfatti e tali cause e sentenze erano gestite dal sindaco che poteva obbligare il sarto al risarcimento del danno subito695.

I discepoli potevano diventare maestri dopo aver superato un esame dopo il quale poteva pagare la quota associativa; era ammesso all’arte anche il forestiere purché avesse superato l’esame e avesse pagato una quota associativa più alta. Come altrove anche qui i lavoranti non potevano tagliare vesti se non autorizzati dai propri maestri696.

688 Ibid. 689 Ivi, p. 219. 690 Ivi, p. 218, 219. 691 Ivi, p. 217.

692 Sulle tinture si veda M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale, cit., p. 157. 693

F. Visca, Gli antichi statuti dell’antica arte aquilana dei sarti, cit., p. 219. 694 Ivi, p. 215.

695 Ibid. 696 Ivi, p. 216.

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