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Qualifiche professionali e ipotesi sull’ubicazione dei luoghi di lavoro

1.5 Gli estimi del comune di Bologna

1.5.3 Qualifiche professionali e ipotesi sull’ubicazione dei luoghi di lavoro

Le informazioni contenute nell’estimo qui preso in esame non chiariscono il rapporto tra abitazione e luogo di lavoro di sarti e membri dell’arte. Così come indicato nelle norme che disciplinavano le operazioni del censimento fiscale, l’estimato poteva risiedere in una cappella ma voler essere estimato altrove. Ventuno sarti e 5 membri dichiararono di aver estimato in una cappella diversa in epoca precedente, ma questo non sempre poteva comportare una variazione della residenza oppure del luogo di lavoro come dimostra il caso di un farsettaio, che dichiarò un domicilio fiscale diverso da quello della propria abitazione. Michele di Samuele Raineri, abitante nella cappella di Santa

416 Appendice, Estimo 1296-97-Sarti, E62. 417

Appendice, Estimo 1296-97-Sarti, E65. 418 Appendice, Estimo 1296-97-Sarti, E43.

419 Cfr. R. Smurra, Città, cittadini e imposta diretta a Bologna alla fine del Duecento, cit. 420 Appendice, Estimo 1296-97-Membri, M11.

80 Cristina, scelse infatti di voler essere estimato a San Felice421. È ipotizzabile pensare che Michele avesse la bottega separata dall’abitazione e che volesse pertanto essere stimato dove aveva la propria attività produttiva. Nella sua cedola il farsettaio dichiara esclusivamente il capitale investito nella sua arte e cioè 20 lire, pertanto, in mancanza di ulteriori informazioni si può pensare che Michele avesse una casa in affitto nella cappella di Santa Cristina e che lavorasse presso una bottega, anch’essa in affitto, a San Felice. In questo, come in altri casi, l’assenza di ulteriori dati comporta la formulazione di ipotesi sulla base di quelli disponibili.

Incrociando tutte le informazioni ricavabili dall’estimo, ubicazione beni immobili, causa degli investimenti e dei debiti dichiarati dagli artigiani, si possono fare alcune ipotesi sui luoghi di lavoro dei sarti, così come sul livello di formazione degli artigiani censiti e cioè se fossero maestri, obbedienti o salariati.

Gli elenchi finora considerati, estimi e libri delle matricole, non distinguono tra maestri e obbedienti che pure dovevano essere iscritti alla società, dunque risulta difficile comprendere immediatamente la composizione dei livelli professionali e dei rispettivi rapporti quantitativi degli artigiani per i quali conosciamo il nome. Soltanto in un caso, quello del farsettaio Andrea Columbi, accanto al nome dell’artigiano è presente la qualifica di magister422, in tutti gli altri casi infatti ciò non è specificato.

Gli statuti del 1322, confermati da quelli del 1332-34, stabilivano che i discepoli che avessero compiuto 18 anni avrebbero dovuto iscriversi alla matricola dell’arte fornendo idonee garanzie ai ministrali. Si può dunque ipotizzare che tali discepoli, dopo un certo numero di anni di apprendistato assumessero lo stato di salariati o lavoranti percependo dal proprio maestro la metà del ricavo del lavoro ad essi affidato. In un secondo momento, una volta fornite le garanzie all’arte, sarebbero diventati obbedienti. Su come e quando questi ultimi avrebbero raggiunto lo status di «veri maestri» le regole dell’arte non informano, verosimilmente era il corporale a decidere. Dalle redazioni statutarie della prima metà del Trecento, sappiamo che la peculiarità del maestro era quella di avere almeno 18 anni e di possedere o avere in affitto un luogo di lavoro, vale a dire un banco o una bottega. Questi erano infatti i requisiti dei soci ammessi ad essere eletti ministrali della società423. Gli stessi statuti precisavano che potessero prendere con sé discepoli soltanto i maestri con bottega, a conferma dunque che il requisito per essere maestro fosse la gestione di un proprio

421 Cfr. Appendice, Estimo 1296-97-Membri, M35. 422 Appendice, Estimo 1296-97-Membri, M24. 423 Statuti 1322, rub. 2, 85; 1322a; 1332-34, rub. 2.

81 luogo di lavoro424: essere sostanzialmente un imprenditore. Anche agli obbedienti era concesso avere discepoli, ma da varie rubriche statutarie si apprende che continuassero ad essere dipendenti del proprio maestro425. Nel 1332-34 anche ai salariati fu concesso tenere fino a due discepoli di età compresa tra gli 8 e i 12 anni purché tuttavia il loro «vero maestro» li avesse messi in regola stipulando i patti di locazione426. Da queste ed altre norme statuarie per le quali si rimanda ai paragrafi in cui il tema viene trattato, si evincono le gerarchie all’interno dell’arte e la dipendenza di discepoli, lavoranti e obbedienti da un maestro. In mancanza di altre indicazioni specifiche da parte degli statuti è ragionevole pensare che gli obbedienti non possedessero un luogo di lavoro e che continuassero ad esercitare la professione accanto ad un maestro finché la società dei sarti non avesse approvato la loro autonomia, vale a dire la possibilità di mettersi in proprio. Dagli statuti apprendiamo dunque che, all’interno dei luoghi di lavoro gestiti dai maestri, potessero convivere insieme più gruppi di artigiani diretti dai capi bottega, ciascuno dei quali a loro volta coordinati da obbedienti e/o lavoranti più esperti che controllavano le diverse fasi di lavoro dalle più complesse alle più semplici svolte dai discepoli in formazione.

Negli estimi qui esaminati non vi sono botteghe denunciate tra i beni immobili e le uniche tracce di queste ultime si trovano tra i debiti, quando questi erano stati accesi per il mancato pagamento dei relativi canoni. Lo stesso discorso dicasi per le case in affitto, che sono una minima parte di quelle contemplate nell’estimo, dove emergono soprattutto le case di proprietà. Sarebbe ragionevole pensare che le botteghe coincidessero con l’abitazione degli artigiani, come già rilevato da altri studiosi, tuttavia da quanto finora ricavato dalle fonti non possiamo affermare che chi avesse una casa di proprietà o in affitto tenesse al suo interno una bottega. Alle considerazioni fin qui riportate occorre inoltre aggiungerne altre. La società dei sarti già nel XIII secolo prendeva in affitto una bina o fila riservata sul terreno del mercato cittadino all’interno della quale a ciascun socio veniva assegnata per sorteggio una porzione, detta forcata ma anche stacio o locus427. I sarti dunque, oltre alle botteghe presso le proprie abitazioni, potevano usufruire di banchi di lavoro allocati presso il mercato. Questi ultimi potevano non essere disponibili per tutti i maestri iscritti, determinando necessariamente una situazione mista di botteghe domestiche e banchi presso il mercato. Oltre ai soci iscritti alla matricola occorre infine aggiungere tutti coloro che - e non erano pochi come si è visto - pur esercitando l’arte della sartoria, non ne facevano parte. Si può pensare che questi ultimi,

424

Statuti 1322, rub. 27; Statuti 1322 a; Statuti 1332-34, rub. 27. 425 Cfr. per es. Statuti 1379, rub. 24.

426 Statuti 1332-34, rub. 85.

82 non potendo godere dei diritti riservati agli associati, lavorassero esclusivamente all’interno delle proprie abitazioni.

Confrontando tra loro tutte le informazioni fin qui ricavate da statuti e matricole della corporazione e dagli estimi cittadini risulta difficile comprendere esattamente dove lavorassero i sarti e i membri rintracciati. Di certo possiamo affermare, concludendo, che la residenza dichiarata può non corrispondere al luogo di lavoro, soprattutto nel caso di obbedienti iscritti alla società, che purtroppo sfuggono all’identificazione come pure i lavoranti. La normativa di supporto all’estimo del 1296-97 decretava che fossero censiti anche i figli che non si trovassero sotto la podestà di padre o madre che abitavano ancora in famiglia, esercitando tuttavia un mestiere o fossero iscritti ad un’arte. Considerata l’alta percentuale di sarti e membri estimati non iscritti nella matricola si può inoltre ipotizzare che tra gli artigiani censiti ci fossero anche i lavoranti, vale a dire ragazzi che lavoravano a metà con il proprio maestro e che non erano ancora iscritti all’arte poiché di età inferiore ai 18 anni. Dopo essere stati un certo periodo di tempo presso il maestro secondo quanto previsto dai contratti di apprendistato, questi ultimi ritornavano verosimilmente a risiedere nelle abitazioni delle proprie famiglie in attesa di rendersi definitivamente autonomi.

Sulla base delle informazioni ricavate dagli estimi di sarti e membri dell’arte della sartoria di fine Duecento si ha l’immagine di una realtà complessa di non facile lettura, dove è verosimile pensare ad una scarsa corrispondenza tra abitazione e luogo di lavoro428, almeno per la maggior parte di coloro che esercitavano l’arte non essendo maestri imprenditori. All’interno dell’elenco sono infatti compresi lavoranti e obbedienti che denunciano i propri patrimoni così come i maestri. Questi ultimi sono distinguibili dagli altri solo quando il documento riporta una cappella di residenza diversa dal domicilio fiscale, una bottega di cui vi è traccia dell’affitto tra i debiti oppure la descrizione dei capitali investiti nell’arte. Vediamo alcuni esempi.

I fratelli Martino e Simone Giacomini Anzelelli che dichiaravano di avere una casa ciascuno a Castel San Pietro con terreni, erano estimati nella cappella di S. Omobono, dove probabilmente avevano in locazione una bottega429. Stesso discorso può valere per Giovanni di Gerardo che possedeva anch’esso una casa a Castel San Pietro ma scelse come domicilio fiscale la cappella di S. Isaia430. Torniamo al caso del farsettaio Michele sopra esaminato. Egli non denuncia beni immobili ma un solo investimento nella sua arte di 20 lire, ha residenza nella cappella di S. Cristina ma

428 A questa stessa conclusione giunge Franco Franceschi a proposito di uno studio sulle botteghe fiorentine anche se riferibile al XV secolo e ricavato dai catasti: cfr. F. Franceschi, La bottega come spazio di sciabilità, in Arti Fiorentine. La grande storia dell’artigianato, vol. II/VI, Il Quattrocento, Giunti, Firenze 1999, pp. 65-83, in part. pp. 6-67.

429 Appendice, Estimo 1296-97-Sarti, E89, E90. 430 Appendice, Estimo 1296-97-Sarti, E40.

83 desidera essere estimato a S. Felice. Da questi dati possiamo dedurre che l’artigiano avesse casa e bottega separati per le quali pagava regolarmente il canone d’affitto e che fosse dunque un maestro431. Altri maestri erano Isnardo Petrizoli, che aveva un debito di 4 lire per la sua statione nei confronti di Bitino e Rolando de Sabadini suoi soci con i quali la conduceva e che tuttavia non compaiono né tra gli estimati né all’interno della matricola432. Anche Giacomo Geminiani aveva una bottega in società con altri, per la quale aveva un debito di affitto per 4 lire433. Il sarto Palmerius Giacomini possedeva una casa nella cappella di S. Marino ma desiderò essere estimato nella cappella di S. Colombano. Quest’ultima cappella doveva essere il luogo di residenza e lavoro del sarto, da lui già indicato anche nella matricola del 1294 e dove verosimilmente esercitava la sua professione all’interno di una bottega in affitto434.

Le botteghe dei sarti potevano dunque dare da vivere anche a due o tre persone e verosimilmente anche più considerati, oltre ai soci titolari, i lavoranti salariati435. Pur non richiedendo grandi spazi per gli strumenti e gli attrezzi necessari allo svolgimento del lavoro, si può presumere che le botteghe usate dai sarti fossero abbastanza grandi da poter contemplare più postazioni di lavoro. Diciannove sarti che non possedevano case dichiaravano di avere terreni (10), denaro liquido (2), bestiame (5), investimenti nell’arte (2), masserizie o beni “per honore persone sue” (6)436. Si tratta evidentemente di artigiani che lavoravano presso altri oppure avevano botteghe in affitto di cui non abbiamo tracce. Solo un membro tra i 5 che non dichiarano case di proprietà risulta essere possessore di due terreni, mentre un paio denuncia solo investimenti nell’arte e tre nessun tipo di bene di valore estimabile. Agli artigiani che non dichiarano beni immobili occorre aggiungere anche i 16 sarti e 3 farsettai nichil habentes437. Tra questi è compreso anche il farsettaio Pietro di San Giorgio in Poggiale, il quale dichiarava inoltre di avere un debito per l’affitto di casa di ben 12 lire, una cifra piuttosto consistente causata verosimilmente dall’accumulo di vari arretrati438.

I sarti Giacomino detto Mino, Tommasino detto Misino Albertini e Uguzio Nascimbeni, che non denunciano beni immobili, dichiarano di essere debitori per l’affitto di case in cui abitavano rispettivamente nelle cappelle di S. Tommaso di Strada Maggiore, S. Felice e di S. Maria

431 Appendice, Estimo, 1296-97-Membri, M35. 432

Appendice, Estimo, 1296-97-Sarti, E2. 433 Appendice, Estimo, 1296-97-Sarti, E36. 434 Appendice, Estimo 1296-97-Sarti, E99.

435 Cfr. questi dati con quelli riportati da F. Franceschi, La bottega come spazio di sciabilità, cit., pp. 67-68. 436

Cfr. Appendice, Estimo 1296-97-Sarti, E19; in questa categoria ho computato anche i sarti che non hanno fornito descrizione del bene mobile.

437 Cfr. Appendice, Estimo 1296-97-Sarti. 438 Appendice, Estimo 1296-97-Membri, M40.

84 Maggiore439. Dei 19 sarti che dichiarano almeno due case, sappiamo soltanto da Nicolò di Pietro che aveva dato in affitto quella in cui non risiedeva e per questo vantava un credito nei confronti del suo inquilino440. Da queste informazioni non siamo in grado di distinguere i maestri dai collaboratori, soltanto nei pochi casi sopra messi in rilievo e da altri due qui di seguito riportati, rintracciati incrociando i dati sugli immobili e sugli investimenti. Il farsettaio Lazzarino di Giovanni, abitante in cappella S. Felice, aveva due case, di cui una solo a metà e, dalla denuncia del capitale investito nella sua arte, ricaviamo che all’interno di una di queste aveva la sua bottega nella quale aveva investito 20 lire di bolognini441. Infine il produttore di calze (calligas) e cappellini Bonagurio di Lezzero da Mantova che aveva investito nella sua arte, compresa la bottega, 20 lire442.