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LE AMBIGIUTA’ DEL CODICE DEL 1988:

DIRITTO AL SILENZIO TRA “LEGISLAZIONE

2.2. LA CRISI DELLA GARANZIA DEL DIRITTO AL SILENZIO NEL PROCESSO DELL’EPOCA POST-ACCUSATORIA:

2.2.1. LE AMBIGIUTA’ DEL CODICE DEL 1988:

Se ad un’analisi superficiale si può ammettere che il codice di procedura penale del 1988 ha effettivamente circondato il ruolo dell’indagato e/o dell’imputato di una serie di norme di garanzia, non appena si considerino alcuni peculiari momenti della disciplina bisogna convenire che la costruzione “mostra qualche crepa”77.

In armonia con la prima chiave di lettura va sottolineato come il legislatore abbia creato un vero e proprio “cordone sanitario” che viene a circondare l’imputato: il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni rese (art. 62 c.p.p.) , il diritto all’avvertimento circa il rischio di dichiarazioni auto incriminanti e correlativo divieto di utilizzazione in caso di mancato avvertimento (art. 63 c.p.p.) , l’esplicito riconoscimento della facoltà di non rispondere (art. 64 c.p.p.) , l’incompatibilità con l’ufficio di testimone da parte di chi assume la qualità di indagato (art. 197 c.p.p.) ; successivamente, nel dibattimento, la struttura dialettica del processo si riflette in quella vera e propria sfida che è l’esame delle parti (artt. 208-210 c.p.p.) .

In diversificata prospettiva, va osservato che la presunta chiarezza di simile quadro di riferimento si offusca non appena si considerino vari istituti difficili da spiegare altrimenti che con una permanenza di radici

77 Cit. A. Bernasconi, “La collaborazione processuale”, Giuffrè editore,

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inquisitorie per quanto riguarda l’interrogatorio: l’accompagnamento coattivo dell’imputato (art. 132 c.p.p.) , l’eventualità, non esclusa a livello normativo ed ampiamente sfruttata nella prassi, di un interrogatorio tenuto dal pubblico ministero nei confronti della persona sottoposta a custodia cautelare prima ancora dell’intervento del giudice (artt. 364 e 388 c.p.p.) , la configurazione dell’interrogatorio del giudice per le indagini preliminari quale presupposto necessario per la reiterazione di misura cautelare in precedenza caducata (art. 302 c.p.p.); istituti che vengono ad accentuare il carattere autoritario dell’interrogatorio, quale atto tipico di indagine, completamente sussunto nell’orbita finalistica della fase investigativa78. Sempre in quest’ottica, e per quanto riguarda l’esame dibattimentale, il codice del 1988 risulta venato da umori inquisitoriali; infatti, concepito nel Progetto preliminare del 1978 come mezzo spiccatamente difensivo attuabile a richiesta della sola parte privata interessata a prestarlo, il sistema del 1988 prevede la possibile effettuazione dell’interrogatorio anche su richiesta del pubblico ministero. Inoltre il disposto dell’art. 513 comma 1 c.p.p. consente la lettura delle dichiarazioni, rese dall’imputato al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini o dell’udienza preliminare, nell’ipotesi di contumacia, assenza ma anche nel caso di rifiuto di sottoporsi all’esame.

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Lo ius tacendi, quale particolare risvolto dell’esercizio del diritto di difesa, viene obliterato e la stessa libertà di autodeterminazione dell’imputato è messa in crisi: viene collocata sul terreno dell’irripetibilità probatoria una situazione riconducibile, invece, al nucleo – intangibile - dei diritti costituzionali79. E questo in quanto con tale norma si consente la lettura delle dichiarazioni rese anche senza la presenza del difensore dell’imputato (con possibilità di inserimento nel fascicolo del dibattimento di atti formati nelle indagini) con un uso illimitato del materiale probatorio vietato dalle norme 403 c.p.p. e 431 lett. d) c.p.p. (che sanciscono il regime di utilizzabilità nel dibattimento delle prove assunte con incidente probatorio) e dalla tassatività dei casi di lettura di cui all’art. 514 c.p.p. che avrebbe appunto richiesto una interpretazione restrittiva del concetto (pericolosamente indefinito) di irripetibilità degli atti 80.

2.2.2. UN PERCORSO ESEMPLARE: L’IMPUTATO IN

PROCEDIMENTO CONNESSO QUALE DEPOSITARIO DELLA VERITÀ (DAL CODICE DEL 1988 AGLI INTERVENTI DELLA CORTE COSTITUZIONALE E DEL LEGISLATORE) :

Di una scelta dotata di scarsa coerenza sistematica si deve parlare per quanto riguarda l’assunzione del sapere probatorio di colui che è

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Cit. A. Bernasconi, “La collaborazione processuale”, Giuffrè editore, Milano, 1995, p. 303-304.

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processato per il medesimo reato o connesso o “collegato” (ai sensi dell’art. 12 comma 1lett. a e c e art. 371, comma 2, lett. b) rispetto al quale il legislatore dell’88 adotta soluzioni sostanzialmente analoghe a quelle del legislatore del 1977, che nel codice del 1930 aveva inserito l’art. 348 bis c.p.p. abr., prevedendo lo sbarramento costruito per mezzo dell’incompatibilità a testimoniare ex art. 197 lett. a e b c.p.p. e dell’esame dell’imputato ex art. 210 cui si estendevano a pieno titolo le garanzie dell’imputato del diritto all’assistenza del difensore e della facoltà di non rispondere. L’ibridismo della figura dell’imputato «connesso» (i cui tratti coincidono sovente con quelli del collaboratore di giustizia) risulta sintomo dell’imbarazzo di un legislatore orientato a privilegiare l’ingresso nel processo del contributo conoscitivo di tale soggetto (laddove lo stesso non si avvalga della facoltà di non rispondere e per mezzo dell’interrogatorio libero) e, al tempo stesso, frenato dalla consapevolezza dell’«impurità» della fonte di prova (art. 192 c.p.p.) 81.

Per mezzo di alcune sentenze della Corte Costituzionale del 1992 è stato sconvolto il sistema probatorio quale emergeva dalla riforma del 1988, tanto da poter parlare non a torto di “restaurazione del rito inquisitorio”82. Per quel che qui interessa la sentenza 3 giugno 1992 n. 254 ha dichiarato la illegittimità dell’art. 513 comma 2 c.p.p.

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Cit. A. Bernasconi, “La collaborazione processuale”, Giuffrè editore, Milano, 1995, p. 307.

82 Cfr S. Moccia, “La perenne emergenza”, Edizioni scientifiche italiane,

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ammettendo la lettura in sede di dibattimento delle dichiarazioni rese dal coimputato in un procedimento connesso(al pubblico ministero o al giudice nelle indagini preliminari o nell’udienza preliminare), qualora questi sia comparso nel procedimento in corso e si sia avvalso della facoltà di non rispondere (laddove il previgente comma 2 la prevedeva soltanto nel caso di impossibilità di natura oggettiva).

La pronuncia della Corte fa proprie argomentazioni tese ad evidenziare ora l’improponibilità di una differenziazione tra la posizione dell’imputato e quelle delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. basata su circostanze meramente fortuite quali sarebbero la separazione anziché la riunione dei procedimenti, ora l’improrogabile esigenza di assicurare, attraverso l’assimilazione delle rispettive posizioni processuali, il recupero di preziose dichiarazioni e soprattutto l’omogeneità del loro valore probatorio. Ne consegue che affermazioni fatte nel segreto della procedura preliminare si ritorcono contro il destinatario dell’addebito di correità, per di più impossibilitato ad esercitare il diritto a confrontarsi nel dibattimento con il proprio accusatore ed infatti, se risultava censurabile l’effetto pregiudizievole della disposizione (art. 513 comma 1 c.p.p.) che consentiva il recupero e l’utilizzo contra se delle dichiarazioni rese dall’imputato che rifiutasse l’esame, a fortiori queste avrebbero dovute essere

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considerate inammissibili nel momento in cui riguardassero anche il fatto altrui83.

Inoltre poco tempo dopo, la legge 7 agosto 1992 n. 356 di conversione del decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306 (recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità organizzata”) viene ad apportare altre significative modifiche, sempre in un ottica “involutiva”.

Tale legge viene a riformare anche l’art. 238 comma 1 c.p.p. che, nella versione originaria del codice consentiva “l’acquisizione di verbali di prove di altro procedimento penale, se le parti vi consentono e si tratta di prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento ovvero di verbali di cui è stata data la lettura durante lo stesso”, tale acquisizione era quindi condizionata al consenso delle parti che il legislatore del ‘92 viene per l’appunto ad abolire. L’abolizione del requisito del consenso avviene adducendo a giustificazione un duplice ordine di presunzioni: da un lato, l’usura cui andrebbero incontro i collaboratori «irragionevolmente» costretti a ribadire in più sedi il medesimo racconto, dall’altro, l’inutilità di «provare nuovamente» in un certo

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Cit. A. Bernasconi, “La collaborazione processuale”, Giuffrè editore, Milano, 1995, p. 314.

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processo ciò che sarebbe già stato dimostrato in un altro84. Il consenso diventa sinonimo di ostacolo all’accertamento della verità.

Sempre il legislatore del 1992 viene ad introdurre in questo contesto una norma emblematica: l’art. 190 bis c.p.p. che afferma che “nei procedimenti per taluno dei delitti indicati nell’art. 51 comma 3 bis, quando è richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. e queste hanno già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti a norma dell’art. 238 c.p.p., l’esame è ammesso solo se il giudice lo ritiene strettamente necessario”. Disposizione che viene a configurare un congegno asservito al recupero e al congelamento del sapere del collaboratore di giustizia sottraendo i soggetti richiamati dall’art. 210 c.p.p. al contraddittorio con il chiamato in correità.

Per concludere, quindi, si sottolinea che potrà accadere che il collaboratore di giustizia, sentito come coimputato nel procedimento cumulativo o ascoltato nel medesimo con le forme riservate alle persone di cui all’art. 210 c.p.p., potrà rilasciare dichiarazioni nella fase preliminare, decidere di non sottoporsi all’esame dibattimentale (art. 513 comma 1 c.p.p.) o avvalersi della facoltà di non rispondere (art. 513 comma 2 c.p.p.) , rendendo così possibile la lettura e l’acquisizione del materiale preformato: la difesa dell’accusato rimane