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LA GARANZIA DEL DIRITTO AL SILENZIO SUL FATTO PROPRIO NEL CODICE DEL 1988:

1.6. IL CODICE DI PROCEDURA PENALE DEL1988:

1.6.2. LA GARANZIA DEL DIRITTO AL SILENZIO SUL FATTO PROPRIO NEL CODICE DEL 1988:

La polivalenza, sul piano semantico, del diritto al silenzio ne consente l’operatività in rapporto ad una gamma estremamente diversificata di situazioni (configurabili quali esplicazioni del principio del nemo

tenetur se detegere) : dal diritto ad essere avvisato della facoltà di non

rispondere, a quello di non essere obbligato a rendere dichiarazioni auto incriminanti con possibilità di tacere in toto o di non rispondere a singole domande ed addirittura, entro determinati limiti, della possibilità di fornire risposte mendaci.

46 Cfr. M. Nobili, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Clueb,

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Con la previsione di cui all’art. 64 comma 3 (nella versione antecedente alla riforma attuativa del “giusto processo”di cui si parlerà oltre) il diritto al silenzio appare sancito in termini sostanzialmente analoghi a quelli di cui all’art. 78 comma 3c.p.p. abr., riconoscendo all’imputato, oltreché alla persona sottoposta alle indagini preliminari (cui l’art. 61 c.p.p. estende i diritti e le garanzie spettanti al primo), la facoltà di non rispondere all’autorità procedente, della cui sussistenza lo stesso deve essere informato, salva l’ulteriore precisazione che, in ogni caso, il procedimento seguirà il suo corso. L’esigenza di una tutela effettiva del diritto implica, inoltre, che l’avvertimento circa la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere debba essere rivolto all’interessato in relazione ad ogni interrogatorio od atto assimilato tanto che lo stesso legislatore delegato ha chiarito che tale garanzia debba ritenersi operante in rapporto “ad ogni atto…che, per quanto non tecnicamente denominabile interrogatorio, comporti domande 47”. Si parla a tal proposito della c. d. “portata pan processuale”48 del diritto al silenzio per indicare l’operatività delle regole dettate dall’art. 64 c.p.p. oltre che nell’ipotesi di sommarie informazioni di garanzia di cui all’art. 350 c.p.p., anche ad ogni specie di interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e, successivamente dell’imputato: sia di fronte al pubblico ministero (art.

47 Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit. p.

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48 V. Patanè Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli Editore2006, p.

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370 c.p.p. e 388c.p.p.) , sia di fronte al giudice per le indagini preliminari, sia in sede di udienza preliminare. Inoltre tale garanzia è riconosciuta anche all’imputato nel corso dell’esame dibattimentale- effettuabile solo dietro sua richiesta o consenso- sia nell’accezione di diritto a non essere interrogato, proprio in ragione della volontarietà dell’atto, sia nell’accezione di diritto al silenzio, per quanto “parziale” (art. 209 comma 2 c.p.p.) , essendo prevista la possibilità che, una volta consentito o richiesto l’esame, l’imputato possa non rispondere ad una o più domande, seppur debba esserne fatta menzione nel verbale. Tale garanzia di c. d. silenzio “parziale” (negando la necessità di un suo esercizio in toto) si ricollega ad una maggiore libertà di scelta della strategia difensiva, in base alla quale può ritenersi utile selezionare soltanto alcune informazioni (e non altre) da veicolare nel processo rifiutando di rispondere a determinate domande.

Inoltre, sempre nell’ottica di estendere la portata della garanzia, il diritto di non rendere dichiarazioni auto incriminanti viene così garantito a prescindere dall’instaurazione delle indagini preliminari in senso proprio nei confronti di un determinato soggetto(che quindi non abbia ancora formalmente assunto la qualità di imputato né di persona sottoposta alle indagini), prevedendosi all’art. 63 comma1 “Se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergano indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a

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seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese” con una formula sostanzialmente analoga a quella contenuta nell’art. 304 commi 3 e 4 c.p.p. abr.

Questo obbligo in capo alle autorità procedenti e la regola dell’inutilizzabilità sono sintomatiche di un chiaro intento legislativo di precludere qualunque tentativo di aggiramento della garanzia in parola da parte della polizia e magistratura e che mira ad impedire ogni svolgimento o prosecuzione di indagini informali nei confronti di un soggetto raggiunto da indizi di reità, di per sé idonei a far scattare l’attribuzione della qualifica di cui all’art. 61 c.p.p. ma più o meno artatamente ignorati49. Infatti “la tutela aprrestata dall’art. 24comma 2 Cost. sarebbe vanificata da una disposizione di legge che prescrivesse a taluno di rendere, prima dell’inizio del processo penale, una confessione di reato poi utilizzabile come prova di reato a suo carico nel processo, nel quale gli fosse riconosciuto, siccome indiziato o imputato, il diritto al silenzio50”. Inoltre l’art. 63 comma 2 afferma”Se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate” sancendo la assoluta inutilizzabilità delle

49 Cfr. R. E. Kastoris, Commento all’art. 63c.p.p., in M. Chiavario

(coordinato da), Commento al codice di procedura penale, vol. I, cit., p. 321ss.

50 Cfr. Scaparone, Elementi di procedura penale, Giuffrè, Milano, 1999, p.

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dichiarazioni rese (mentre nel comma 1 esse sono inutilizzabili contro chi le ha rese, ma sono utilizzabili nei confronti di terzi). La interpretazione di tale comma è stata inizialmente controversa in quanto la giurisprudenza più risalente tendeva ad operare una

interpretatio abrogans del comma in esame, ritenendo, nonostante la littera legis, che anche nell’ipotesi contemplata dall’art. 63, co. 2

c.p.p., l’esclusione probatoria dovesse valere soltanto contra se51

. Tale

impostazione privava di qualsivoglia significato la norma in parola configurando la ipotesi de qua come completamente assorbita dal comma precedente, ragione per cui finalmente le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno riconosciuto che la regola di esclusione probatoria dell’art. 63, co. 2, c.p.p. ha valore erga alios52

. Lo scopo

precipuo della norma sarebbe, quindi, quello di “moralizzare” l’autorità giudiziaria e la polizia giudiziaria, sottraendo loro la tentazione di sentire informalmente soggetti già sospettati, al fine di ottenere dichiarazioni sul fatto altrui facendo leva la giurisprudenza sullo stato di soggezione psicologica dell’esaminando che ha ricadute pericolose sul piano dell’attendibilità di quanto dichiarato53. La norma avrebbe quindi anche una utilità “oggettiva”, ovvero costituirebbe una garanzia di attendibilità dell’accertamento, poiché eserciterebbe un

51 Cass., Sez. VI, 23 maggio 1995, Gatto, in Arch. n. proc. pen., 1996, 141. 52 Cass. Sez. Un., 13 febbraio 1997, Carpanelli e altri, in Dir. proc. pen.,

1997, 602.

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filtro sulle fonti decisorie, espungendo gli elementi verosimilmente “compiacenti o negoziati” e quindi inquinanti54.

Se la ratio dell’art. 63, co. 2 c.p.p. è quella di fronte avanzato di tutela delle incompatibilità a testimoniare, sembra chiaro che la stessa non debba operare nei confronti di quei soggetti che incompatibili non sono.

Quindi, qualora l’escusso sia sentito nell’ambito di un procedimento dal quale è totalmente estraneo, il dovere di collaborazione riemerge, essendo espressione del dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., facendo sì che non possa sottrarsi all’obbligo di deporre, ferma la garanzia dell’art. 198, comma 2, c.p.p.

In una prospettiva di tutela anticipatoria del principio del “nemo

tenetur se detegere”, può collocarsi, infatti, la previsione contenuta

nell’art. 198 comma 2c.p.p. che riconosce a chi venga invitato a rendere dichiarazioni in veste di testimone (e quindi soggette all’obbligo di verità), la garanzia a non poter essere obbligato a deporre “su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale”. La previsione, pur sembrando indirizzata principalmente al giudice, ha una portata precettiva che si estende a chiunque proceda ad un esame o ad un atto di assunzione di informazioni nei confronti di un potenziale testimone(art. 351 comma 1 e 362 c.p.p.) . Per poter legittimamente avvalersi della “clausola di esonero” dall’obbligo di

54 Cfr. Sanna, Ristretto l’uso delle dichiarazioni auto indizianti, in Dir. .

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deporre occorre che il soggetto dichiarante sia in grado di rappresentare al giudice quanto necessario e sufficiente per rendere obiettivamente ragionevole- alla luce delle circostanze ricavabili altrove –l’eventualità di una propria compromissione in fatti di reato e sul piano delle conseguenze applicabili in caso di inosservanza del divieto si prevede la sanzione dell’inutilizzabilità (delle dichiarazioni eventualmente rese) ex art. 191 comma 1 c.p.p.

Per quanto riguarda le regole dell’interrogatorio sul “merito” sono contenute nell’art. 65 del codice che recita «L’autorità giudiziaria contesta alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito, le rende noti gli elementi di prova esistenti contro di lei e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, gliene comunica le fonti».

Invita, quindi, la persona ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa e le pone direttamente le domande”.

A questo punto tre sono le possibilità che si presentano a quest’ultimo: a) innanzitutto l’indagato può rifiutare di rispondere a tutte le domande o ad alcune soltanto di esse ed in tal caso l’autorità procedente ai sensi del comma 3 dell’art. 65 “ne fa menzione nel verbale”; b)l’indagato può rispondere dicendo il vero (e se i fatti che egli ammette sono a lui sfavorevoli si ha una “confessione”); c) l’indagato può rispondere dicendo il falso.

Occorre a questo punto procedere ad una delucidazione circa la facoltà di mentire dell’imputato che se deve ritenersi logicamente vigente nel

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nostro ordinamento dalla adozione nostra Carta Costituzionale e per la copertura che a questa attribuisce il nostro diritto penale sostanziale; la dottrina e giurisprudenza ne hanno a più riprese ribadito e circoscritto la sussistenza negli ultimi anni.

La sussistenza di un vero e proprio diritto al mendacio dell’interrogato si colloca nell’ambito delle possibili estrinsecazioni della c. d. autodifesa sotto il profilo “attivo” (che si distingue dalla “pacifica” mera possibilità di non rispondere c. d. autodifesa passiva) e si tratta di una scelta di rilievo politico e sistematico coerente con una visione del processo quale strumento di libertà: “il processo deve servire[…]soprattutto all’imputato, alle sue ragioni, e alla sua causa. Non è immaginabile una condotta processuale dell’imputato in termini di doverosità; non è concepibile[…] scolorire la distinzione tra imputato e testimonio: solo a quest’ultimo inerisce il dovere di parlare e di dire la verità[…] Nel che è tutta la valenza del principio nemo

tenetur se detegere, che, prima di ogni cosa, consacra la inesistenza di

qualunque dovere di collaborazione da parte dell’inquisito: nel che è la spia luminosa della effettività della difesa e della presunzione di non colpevolezza dell’imputato55”. Si sarebbe fatta derivare questa facoltà di mentire dai principi costituzionali sanciti in particolare negli artt. 13 comma 4, 24 comma 2 e 27 comma 2 ed in generale dall’impianto c. d. personalistico del nostro ordinamento (come corollario del più ampio diritto costituzionale di difesa) con la sola riserva dell’obbligo di

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fornire le corrette generalità (ex art. 66 c.p.p. vedi infra) e seppur nei limiti della perseguibilità del reato di “simulazione di reato”(art. 367 c.p.) e del “reato di calunnia” e “autocalunnia”(art. 368 e 369 c.p.) . Appurato che il mendacio dell’interrogato ricava una copertura costituzionale nei limiti in cui è strumentale all’esercizio dell’autodifesa attiva, si pone il problema di delinearne il rapporto con le norme incriminatrici che a vario titolo puniscono dichiarazioni non veritiere. La soluzione passa necessariamente attraverso la verifica, caso per caso, delle motivazioni sottostanti l’esercizio della facoltà di mentire ossia quando si ritenga sussistente una relazione diretta tra l’oggetto del mendacio e il contenuto effettivo o possibile dell’accusa in modo da poter ritenere sussistente la causa di giustificazione ex art. 51 c.p. dell’esercizio di un diritto (nella specie costituzionale). In particolare sempre sul piano del diritto sostanziale, l’indagato è protetto nella deposizione di dichiarazioni mendaci, anche dalla causa di non punibilità prevista dall’art. 384 comma 1 c.p., che stabilisce una scusante in favore di colui che ha commesso determinati delitti contro l’amministrazione della Giustizia per esservi stato costretto dalla necessità di salvarsi da un grave e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell’onore. A fronte di questa copertura del diritto sostanziale si prevede tuttavia la perseguibilità ex art. 367 c.p. della cosiddetta “simulazione di reato” e cioè qualora l’imputato affermi falsamente che è avvenuto un reato che nessuno ha commesso, e per il reato di “calunnia” e “autocalunnia” ex art. 368 c.p. e art. 369 c.p. ovvero

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qualora lo stesso incolpi se stesso di un reato che egli sa non avvenuto o incolpi di un reato taluno che egli sa essere innocente. In questi casi di espresse previsioni di diritto sostanziale non sembra appagante una soluzione che individui (in dette norme sostanziali) un limite sempre e indistintamente operante nei confronti della facoltà di mentire dell’interrogato. Ci troviamo di fronte alla necessità di un bilanciamento tra istanze costituzionali contrapposte in particolare il diritto di difesa del dichiarante e l’interesse, di pari rango costituzionale, alla corretta amministrazione della giustizia e al celere svolgimento della giurisdizione penale in cui il primo verrebbe comunque a prevalere essendo un diritto espressamente definito inviolabile dalla stessa norma costituzionale e pertanto collocato in una posizione di rilievo nella gerarchia dei valori costituzionalmente tutelati. Pertanto le condotte astrattamente punibili (ex art. 367 c.p., 368 c.p., 369 c.p.) devono considerarsi scriminate nella misura in cui risultino strettamente correlate all’esigenza di difendersi dall’imputazione e quindi come “una conseguenza non voluta e soltanto indiretta dell’atteggiamento difensivo del reo, il cui animus

defendendi esclude la punibilità del reato56”. È evidente comunque che

la non perseguibilità penale della dichiarazione falsa deve essere strettamente funzionale al diritto di difesa del soggetto interessato

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(infatti si prevederà, con la l. n. 63 del 2001, l’inserimento dell’art. 377

bis c.p. il quale prevederà che se qualcuno mediante violenza,

minaccia, promessa o offerta di denaro o di altra utilità, dovesse indurre a tacere o a rendere dichiarazioni mendaci il soggetto titolare della facoltà suddetta, sviandola dalla sua naturale funzione, l’ordinamento reagisce prevedendo la punibilità di chi attraverso mezzi illeciti induce la persona titolare dello ius tacendi ad avvalersene o a dichiarare cose non vere57.)

In conclusione all’analisi degli articoli del codice in merito all’interrogatorio dell’indagato l’art. 66 comma 1 c.p.p. afferma «nel primo atto cui è presente l’imputato, l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant’altro può valere ad identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dia false». Si tratta in questo caso di accertamento della identità fisica dell’indagato e quindi di stabilire se la persona, che di fatto si trova di fronte agli inquirenti, coincide con quella contro cui si sta procedendo ed è bene chiarire che in questo caso non esiste un diritto dell’indagato a non essere identificato ed al massimo lo stesso potrà scegliere di non collaborare con l’autorità inquirente nella raccolta delle prove che comportano la sua identificazione. In tale sede l’indagato non è “soggetto” di prova, bensì “oggetto”di prova e deve sopportare il compimento di accertamenti (quali ad es. la ricognizione personale) purché questi non

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risultino lesivi della propria integrità personale o contrari alla dignità umana. Per quanto riguarda l’accertamento della identità anagrafica dell’indagato il principale strumento a ciò deputato risulta essere l’interrogatorio in cui vige l’obbligo dell’indagato (od imputato) di rispondere secondo verità (eccezione della facoltà di tacere). Infatti è sanzionato penalmente il rifiuto di dare indicazioni sulla propria identità personale (art. 651 c.p.) e il dichiarare false identità (art. 495 c.p.) .

1.6.3. LA GARANZIA DEL DIRITTO AL SILENZIO SUL FATTO