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LA GARANZIA DEL DIRITTO AL SILENZIO SUL FATTO ALTRUI NEL CODICE DEL 1988 E UN ACCENNO ALLE

1.6. IL CODICE DI PROCEDURA PENALE DEL1988:

1.6.3. LA GARANZIA DEL DIRITTO AL SILENZIO SUL FATTO ALTRUI NEL CODICE DEL 1988 E UN ACCENNO ALLE

MODICHE SUCCESSIVE:

Si passa ora ad analizzare un tema centrale concernente la garanzia del principio nemo tenetur se detegere che è costituita dal discrimen tra dichiarazioni sul fatto proprio in ordine alle quali si pone l’esigenza primaria di ossequio al privilegio contro l’autoincriminazione, e l’esercizio del medesimo diritto nell’ambito delle dichiarazioni “sul fatto altrui” (o erga alios ovvero erga aliquiem) che necessita di una più attenta valutazione. Ciò soprattutto nel caso in cui il soggetto, inizialmente loquens, decide in seguito di avvalersi del diritto di tacere: una scelta sì astrattamente riconducibile al rischio per l’imputato dichiarante di edere contra se, ma che si traduce in una impossibilità

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per l’imputato accusato di verificare le dichiarazioni altrui e quindi in una frustrazione del suo diritto di difesa.

Si tratta di un problematico equilibrio a cui il legislatore del 1988 non è stato capace di dare risposta, limitandosi a garantire una generale tutela dello ius tacendi e indipendentemente dalla natura del fatto (proprio o altrui) su cui si rendono dichiarazioni. E questo, soprattutto, per l’obiettiva difficoltà, nella realtà processuale, di operare una netta distinzione tra dichiarazioni sul fatto proprio o altrui, in particolare nelle ipotesi di concorso di persone nel reato o in altre ipotesi di connessione di procedimenti. Riposa su tale distinguo il complesso itinerario novellistico intrapreso a partire dagli anni settanta e, di seguito, sviluppatosi fino alle più recenti cospicue innovazioni varate dal legislatore nel 2001.

Già da tempo si era notato come la posizione dell’imputato di dichiarante sul fatto altrui tendesse, sul piano concettuale, ad approssimarsi a quella del teste: in entrambi i casi invero il dichiarante pone in essere dichiarazioni erga alios di tipo storico-rappresentativo, solo “a valle” evidenziandosi, piuttosto, l’emergere di problemi diversi in ordine all’affidabilità della fonte, che si riverberano sul terreno della valutazione del risultato di prova; da questo ceppo, sulla scorta di sollecitazioni originate dalla giurisprudenza nacque nell’alveo del codice del 1930 la figura dell’interrogatorio libero dell’imputato di reato connesso per il quale si proceda separatamente (art. 348 bis c.p.p. abr. introdotto dall’art. 9 l. 8 agosto 1977 n. 534). Tale legge aveva

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coniato uno statuto soggettivo fortemente ibrido collocabile a metà strada tra l’imputato e il testimone (la pratica forense e giudiziaria faceva riferimento al c. d. “impumone”): il dichiarante, citato nelle forme della testimonianza per essere sentito “sul fatto altrui” aveva l’obbligo di presenziare (potendo disporsi nel caso l’accompagnamento coattivo) e la facoltà di farsi assistere dal difensore: il suo diritto al silenzio che riguardava originariamente “il fatto proprio” si estendeva altresì a tutto campo alla sfera del “fatto altrui”; a “interrogatorio libero” ormai concluso, e sempre che il dichiarante non si fosse avvalso della facoltà di non rispondere, era compito del giudice affrontare, infine il problema della valutazione del risultato di prova, apprezzando, in proposito, alla luce del proprio libero convincimento, i complessi profili di attendibilità della fonte (con i canoni valutativi della chiamata in correità elaborati dalla giurisprudenza).

A seguito della novella del 1977 il sistema mostrava dunque una triplice tipologia di dichiaranti: tra l’imputato e il testimone si collocava la figura dell’imputato di reato connesso, il cui contributo rappresentativo era veicolabile per il tramite dell’interrogatorio libero e il cui profilo soggettivo si collocava, lungi dall’equidistanza dai due più risalenti estremi, piuttosto in una posizione contigua a quella dell’imputato, con cui condivideva, a pieni ranghi la titolarità del diritto al silenzio.

Il codice del 1988 ereditava, nel suo originario, la tipologia tripartita dei dichiaranti: veniva ad accentuarsi la messa a fuoco della categoria

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intermedia, attraverso il conio della regola di valutazione della chiamata in correità (c. d. diagnosi di “impurità” della fonte) prevista dall’art. 192 comma 3 c.p.p. applicabile alle dichiarazioni sul “fatto altrui” poste in essere tanto dal coimputato nel medesimo processo che dal coimputato o coindagato di reato connesso o collegato per cui si proceda o si fosse proceduto separatamente.

La necessità di pretendere dei riscontri per le dichiarazioni del coimputato lo aveva affermato la giurisprudenza ben prima dell’emanazione del codice vigente.

La tesi, secondo cui la rilevanza probatoria delle chiamate di correo fosse subordinata alla sussistenza di riscontri obiettivi esterni (chiamata c.d. vestita), aveva infatti predominato nella prassi applicativa sin oltre la metà degli anni settanta ed era stata altresì riproposta in non poche sentenze emesse in periodo di emergenza terroristica e/ mafiosa58.

La ricerca di elementi di giudizio esterni, atti a corroborare l’attendibilità delle dichiarazioni dei correi, si giustificava tradizionalmente in base alla (ritenuta) natura intrinsecamente sospetta della confessione di colui che accusa altri in complicità del fatto proprio, stanti le variabili e molteplici ragioni di inquinamento connaturate a siffatta confessione59. Da qui la tendenza giurisprudenziale a qualificare la chiamata in correità «mero indizio»,

58 Cass. 6 marzo 1984, Rianna, Foro it., Rep., 1985, voce Prova penale,n.32;

23 gennaio 1984, Azzalin, Foro it.Rep. 1985 n.33.

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intendendosi esso come un semplice argomento che fornisca solo una semplice probabilità della sussistenza del fatto da provare, onde sminuirne il valore probatorio e sottolineare la immancabile necessità di riscontri obiettivi60.

La previsione dell’art. 192 comma 3 nel codice di procedura del 1988 secondo cui «Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità», codifica un criterio legale di valutazione (che il comma 4 estendeva anche alle dichiarazioni di imputato di reato collegato ex art. 371 comma 2 lettera b) non veniva a configurarsi, quindi, come una novità.

In giurisprudenza si ebbe a chiarire che “non può ammettersi che l’imprescindibile esigenza del riscontro sia sostituita dalla c.d. «attendibilità generale» del chiamante […] e che il riscontro può essere costituito anche da un’altra chiamata in correità o da dichiarazioni de

relato” 61. In dottrina si ebbe a sottolineare l’indispensabilità del

“riscontro estrinseco”62, affermandosi che dovesse trattarsi di “ulteriori elementi che, in concreto e cioè in relazione allo specifico fatto che al singolo incolpato, siano idonei a offrire ampie garanzie in ordine alla

60 Fiandaca, in Foro it. 1987, II,p.532, in commento alla sent. Cass.ne Sez.I, 3

giugno 1986

61 Sent.Cass. pen. 22 giugno 1992 commento di Emanuele Squarcia, in

Cass.pen.1994, 96, p.111.

62 D.Siracusano, “Le prove”, in AA.VV., Manuale di diritto processuale

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veridicità della accusa”63. Il riscontro sufficiente, poteva allora essere costituito anche da altra chiamata in correità che alla prima si aggiunga, purché di essa se ne valutasse rigorosamente la attendibilità e la si apprezzasse in senso positivo escludendosi il suo riconducimento a collusioni o a condizionamenti di qualsiasi genere tra i soggetti che la rendono64, o da dichiarazioni de relato. Tali ultime dichiarazioni dovevano presentarsi “sempre come intrinsecamente attendibili” e avessero “ovviamente una origine autonoma rispetto all’elemento per il quale si è voluta la necessità della sua verifica” e si fosse “infine, ricercata ed individuata la fonte di provenienza della notizia” e fosse “ugualmente controllata e positivamente apprezzata la sua affidabilità”65.

In ogni caso, l’estensione a pieno titolo dello ius tacendi alle aree concernenti il fatto altrui veniva tuttavia per schiacciare lo statuto giuridico della composita figura intermedia sull’asse delle garanzie difensive proprie dell’imputato chiamato a rispondere sul fatto proprio. Ai fini di un’analisi più dettagliata degli articoli del codice del 1988 si deve menzionare che, sancita l’incompatibilità testimoniale degli imputati di un reato connesso – salvo che fossero già stati prosciolti con sentenza irrevocabile (art. 197 lett. a c.p.p.) – e di un reato collegato da vincolo interprobatorio (art. 197 lett. b c.p.p.) , si era

63 E. Squarcia, Cass.pen. 1994 cit., p.112.

64 Cass. pen.Sez. II, 4 giugno 1991, Leonetti, riv.n.188163; Sez. I, 16 aprile

1991, Avitable, riv.n.187528).

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forgiato attraverso l’art. 210 c.p.p. uno strumento ad hoc per acquisire il contributo conoscitivo di tali soggetti – che non potevano rifiutarsi di sottoporsi all’esame essendo prevista la possibilità di accompagnamento coattivo – ma tutelandoli attraverso la garanzia del

nemo tenetur se detegere in maniera indiscriminata (sia sul fatto

proprio sia sul fatto altrui). Garanzia esplicantesi nel riconoscimento della facoltà di non rispondere alle varie domande in sede di esame dibattimentale come pure in ogni altra situazione in cui si fosse dovuto precedere ad esame (in sede di incidente probatorio ex art. 292 comma 1 lett d c.p.p.) ovvero ad interrogatorio nel corso delle indagini o dell’udienza preliminare (artt. 363 e 422 c.p.p.) .

La disciplina del nuovo codice si completava con l’istituto della “lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare” previste dall’art. 513 i cui due commi si rivolgevano rispettivamente all’imputato nel proprio procedimento e di procedimento connesso.

Il primo comma consentiva in caso di contumacia dell’imputato, assenza o rifiuto di sottoporsi all’esame, a richiesta di parte, la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese al pubblico ministero o al giudice delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare.

Il secondo comma disponeva la lettura dei verbali in caso di generica indisponibilità ad ottenere la presenza del dichiarante- imputato

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connesso di cui all’art. 210, non facendo però riferimento all’ipotesi del rifiuto, che veniva originariamente escluso dai presupposti legittimanti l’assunzione della prova.

Il nodo dello ius tacendi – condiviso da ogni imputato o indagato comunque richiesto di riferire “sul fatto altrui” -propiziava, tuttavia, una rimeditazione profonda del sistema, sfociata infine nel ridisegno degli statuti soggettivi posto in opera dalla novella del 2001.

Prima di tale compiuto ridisegno, tuttavia, molteplici sono stati i passaggi intermedi che caratterizzarono il nostro ordinamento e che, dopo le sentenze della Corte costituzionale (nn. 24, 254, 255) che demolirono i pilastri dell’edificio accusatorio, passarono alla l. 7 agosto 1997 n. 267 (Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione di prova) che previde una riformulazione dell’art. 513 c.p.p., (già dichiarato parzialmente incostituzionale nel 1992) nell’ottica di riaffermare il valore del contraddittorio seppur con il limite di settorialità di tale garantismo e quindi con una inevitabile incoerenza (solo in vista del silenzio del coimputato già dichiarante sul fatto altrui e disinteressandosi del regime inquisitorio prevalso sul terreno della prova testimoniale sancito dalle sentenze del 1992 che prevedeva l’efficacia probatoria delle contestazioni e la testimonianza indiretta della polizia).

La scarsa coerenza sistematica della legge fu infatti sottolineata dalla Corte costituzionale che con la sentenza n. 361 del 1998 si rifece alla

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pregressa giurisprudenza (in particolare alla sent. 254) e quindi reintrodusse il meccanismo di recupero probatorio previsto per l’esame dei testimoni.

Tale sistema, tuttavia, a seguito della riforma costituzionale del 1999 andava armonizzato con il principio del contraddittorio nella formazione della prova (art. 111, comma 4 Cost.) e con il diritto dell’accusato a “confrontarsi” con il proprio accusatore (art. 111, comma 3 Cost.) . Si rese allora improcrastinabile la necessità di una ristrutturazione della statica (oltre che della dinamica) del sistema delle fonti dichiarative, attraverso un ridisegno dei margini delle incompatibilità a testimoniare che coinvolgevano l’ambito applicativo del diritto al silenzio; ove infatti si fossero attratti taluni profili soggettivi nell’orbita gravitazionale della testimonianza si sarebbero ridotti i margini di operatività dello ius tacendi, conquistandosi così nuove aree all’obbligo di veridicità e completezza proprio dello statuto soggettivo del teste e questo è quanto prevede la l. 1 marzo 2001. Ai fini di completezza espositiva ed aggiornamento normativo si deve menzionare il recentissimo Decreto legislativo 1 luglio 2014, n. 101 di “Attuazione della Direttiva 2012/13/UE sul diritto all'informazione nei procedimenti penali”.

Dalla “Relazione Illustrativa” si evince che la normativa comunitaria in questione è stata adottata per riconoscere, oltre che ribadire mediante una sorta di “rielencazione”, i diritti “procedurali” spettanti

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ai soggetti indagati, ovvero imputati, nei procedimenti penali tra i quali spicca tra gli altri e per quel che qui interessa, il diritto al silenzio. Il legislatore comunitario ha individuato le norme minime comuni in tema di informazione da fornire ad indagati o imputati per un reato penale, e relative sia ai diritti che all’accusa, anche per soddisfare l’esigenza di uniformità nelle norme di procedura degli Stati membri. La medesima Relazione fa inoltre riferimento ai diritti costituzionali riconosciuti ai soggetti accusati di un illecito penale e ai principi del cd. “giusto processo”. Si ribadisce, oltre a ciò, il principio di effettività dei diritti individuali, così come prescritto dalle norme sovranazionali contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (in particolare gli artt.6, 47 e 48) e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo(artt. 5e 6 CEDU come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo). L’art. 2 della direttiva stabilisce l’ambito di applicazione della stessa riferendolo alle «persone (sin dal momento) che siano messe a conoscenza[…] di essere indagate o imputate per un reato, fino alla conclusione del procedimento, vale a dire fino alla decisione definitiva […] inclusi, se del caso, l’irrogazione della pena e l’esaurimento delle procedure d’impugnazione»; quindi ricomprendendo tutto l’intero iter procedurale.

Le modiche più rilevanti apportate al nostro codice procedurale mediante il summenzionato D.lgs. n.101 14 luglio 2014 hanno riguardato: l’introduzione di un nuovo adempimento in capo

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all’ufficiale, ovvero all’agente, delegato ad eseguire l’arresto e il fermo dell’indiziato (al comma 1 dell’art. 386 c.p.p.) oppure l’ordinanza di custodia cautelare all’imputato (al comma 1 dell’art.293 c.p.p.), e cioè la consegna allo stesso, oltre che della copia del provvedimento, anche di una comunicazione scritta, di cui il decreto legislativo impone la redazione in “forma chiara e precisa” (e, per colui che non conosce la lingua italiana, la traduzione in una lingua al medesimo comprensibile).

La finalità di tale comunicazione è quella di informare il soggetto dei propri diritti nonché delle facoltà, quali, oltre all’assistenza tecnica di un difensore e l’eventuale accesso al beneficio del patrocinio a spese dello stato e quello di ottenere informazioni in merito all’accusa, del “diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere”.

Tale formula evoca il c.d.“Miranda warning” ossia l'avviso dato dalla polizia americana ai rei sospetti sotto custodia di polizia (police

custody), o sotto custodia cautelare (custodial situation), prima che gli

siano rivolte domande relative al compimento di un reato.

L’obbligo di informazione viene, inoltre, rafforzato, mediante la previsione, al comma 2 dell’articolo 391 c.p.p., dell’obbligo di verifica, in capo al giudice, che all’arrestato ovvero al fermato sia stata fornita la comunicazione in commento, o che in ogni modo sia stato informato circa i diritti e le facoltà allo stesso spettanti. Nell’ipotesi in cui il giudice ravvisi una carenza di informazione, questi è onerato dal

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fornire integralmente, oppure più semplicemente a completare, la comunicazione o le informazioni prescritte dalla normativa in commento.

Il decreto legislativo n. 101 modifica, inoltre, l’art. 12 della l. 22 aprile 2005 n.69(disposizioni relative al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), inserendo l’obbligo di consegna della comunicazione scritta, redatta in forma chiara e precisa, recante informazioni sui diritti e le facoltà procedurali, ai soggetti destinatari del mandato di arresto europeo o di altro provvedimento di consegna tra paesi membri.

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CAPITOLO II: