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LA DISCIPLINA DELLA “TESTIMONIANZA ASSISTITA” EX ART.197 BIS C.P.P.:

COSTITUZIONE E NUOVA DISCIPLINA DEL DIRITTO AL SILENZIO:

3.6. LA DISCIPLINA DELLA “TESTIMONIANZA ASSISTITA” EX ART.197 BIS C.P.P.:

Una volta ridefinita la sfera dell’incompatibilità a testimoniare e quindi il perimetro operativo dello ius tacendi in senso strettamente funzionale alla protezione del privilege against self incrimination, la legge n.63 del 2001 si è preoccupata di predisporre un congegno di tutela in favore del dichiarante erga alios, che, trovandosi gravato, a seguito dell’assunzione della qualifica di testimone, dell’obbligo di rispondere secondo verità, proprio dalla verità potrebbe subire pregiudizio.

L’istituto della “testimonianza assistita” previsto dall’art.197 bis c.p.p. è ispirato ad una logica volta a soddisfare l’esigenza di raccordare l’assunzione dell’ufficio di testimone -con il consequenziale obbligo di rispondere secondo verità- con la consueta tutela della posizione processuale dell’imputato contro il rischio dell’autoincriminazione. Il legislatore, quindi, è intervenuto a tutelare un dichiarante dalla natura innegabilmente “anfibia” 229 secondo una logica di parificazione del dichiarante sul fatto altrui con il testimone ordinario, laddove ovviamente non sia configurabile una situazione di incompatibilità, predisponendo al contempo meccanismi di garanzia mirati ad evitare

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ripercussioni pregiudizievoli sull’effettività della garanzia del diritto al silenzio sul fatto proprio.

Tali meccanismi sarebbero proiettati a dare attuazione al principio del contraddittorio, principalmente nella sua connotazione positiva, per quanto la scelta di agevolare la controesaminabilità di chi rende dichiarazioni a carico non garantisca implicitamente la possibilità di ottenere risposte alle domande rivolte. Senza dubbio, infatti, in base all’art.111 Cost. comma 3 Cost. l’imputato ha «la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico». Ma considerato nel suo nucleo essenziale, il diritto al confronto integra unicamente la possibilità di convocare il dichiarante e rivolgergli le domande, e non anche quella di ottenere le risposte ed anzi dalla seconda frase del comma 4 dell’art.111 Cost. emerge la consapevolezza, da parte del costituente, della possibilità che il soggetto si sottragga all’esame230.

Condizione essenziale per l’operatività della disciplina della testimonianza assistita è l’assunzione della qualità di teste in capo al dichiarante ed in questo senso i commi 1 e 2 dell’art.197 bis c.p.p. ricalcano i meccanismi predisposti dagli art.197 e 64 c.p.p. riformati. Come abbiamo, visto nel primo caso l’estensione dell’obbligo è legato al fatto che l’imputato è “uscito” dal procedimento a suo carico in

230 M.Daniele, “La testimonianza “assistita” e l’esame degli imputati”,in “Il

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quanto giudicato con sentenza irrevocabile (art.197 comma 1 lett.a e 197 bis comma 1 c.p.p.), nel secondo caso dipende dalla condotta dell’imputato “all’interno” del proprio procedimento a suo carico: più precisamente, dalla circostanza di aver reso «dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri» (art.64 comma 3 lett.c e art. 197

bis comma 2 c.p.p.) e limitatamente ai casi di legame c.d. debole tra

posizioni processuali (art.12 comma 1 lett.c e art.371 comma 2 lett.b c.p.p.).

Si profila l’esistenza di un soggetto la cui principale peculiarità è quella di venire sottoposto ad una duplice regolamentazione. Da un lato, questi viene ad essere soggetto alla disciplina del testimone, la cui espressa qualifica si ricava peraltro in modo esplicito dall’art.197 bis comma 1 c.p.p. (il dichiarante «può sempre essere sentito come testimone») e dall’art.64 comma 3 lett c c.p.p. («assumerà l’ufficio di testimone»); dall’altro vengono predisposte, a tutela del suo interesse autodifensivo, le disposizioni speciali stabilite nell’art.197 bis commi 3,4,5, c.p.p. modulate sostanzialmente su tre opzioni di fondo: il riconoscimento del diritto all’assistenza del difensore, della facoltà di non rispondere a domande suscettibili di coinvolgere proprie responsabilità ed infine la previsione d’inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni rese. Infatti in tutte le ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 197

bis c.p.p., gli imputati in un procedimento connesso o di reato

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non è del tutto equiparata a quella del testimone essendo loro comunque riconosciute determinate garanzie “come se le due anime dell’incompatibilità a testimoniare abbiano subito una sorta di mutazione genetica e sono riemerse sotto forma di garanzie e criteri speciali previsti dall’art. 197 bis in relazione alla testimonianza delle persone incompatibili”231.

L’applicazione al testimone assistito delle regole generali in materia di testimonianza avviene sin dal momento delle indagini preliminari poiché tale soggetto può essere sentito dal pubblico ministero ai sensi dell’art.362 c.p.p. (che espressamente prevede l’applicabilità dell’art.197 bis c.p.p.) e dalla polizia giudiziaria ex art.351 c.p.p. (che contiene un rinvio all’art.362 c.p.p.) per quanto la sede elettivamente destinata alla loro applicazione resti comunque il dibattimento, in cui operano le consuete regole di ammissione (artt. 468,493 e 495 c.p.p.) ed assunzione (artt. 497,498,499,502,504,506 c.p.p.).

Inoltre il dichiarante assume l’obbligo «di presentarsi al giudice e di attenersi alle prescrizioni date dal medesimo per esigenze processuali» e quello di «rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte» (art.198 comma 1 c.p.p.). Inoltre tale soggetto, se è stato regolarmente citato o convocato ex art.377 c.p.p. ed omette «senza un legittimo impedimento di comparire nel luogo,giorno e ora stabiliti, il giudice può ordinare l’accompagnamento coattivo e può altresì

231 C.Conti, “L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio ed

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condannarlo, con ordinanza, al pagamento di una somma» (art.133 comma 1 c.p.p.). Soprattutto tale soggetto va incontro a responsabilità penale per falsa testimonianza di cui all’art.372 c.p. in base al quale «chiunque, deponendo come testimone innanzi all’autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due a sei anni» e per false informazioni al pubblico ministero di cui all’art.371 bis c.p. in base al quale «chiunque, nel corso del procedimento penale, richiesto al pubblico ministero di fornire informazioni ai fini delle indagini, rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, è punito con la reclusione fino a quattro anni».

Sul versante, invece, delle particolari tutele predisposte a favore di questo soggetto: innanzitutto il comma 3 dell’art.197 bis c.p.p. prevede che lo stesso debba essere «assistito da un difensore. In mancanza di difensore di fiducia è designato un difensore di ufficio»,da qui la locuzione testimonianza “assistita”.

La previsione della nomina d’ufficio del difensore sta a dimostrare che si tratta di una garanzia dalla natura indisponibile, ed in questo senso è del tutto simile a quella prevista per il comune imputato, che risponde alla necessità di poter contare sull’apporto di un soggetto fornito tanto della competenza tecnica quanto della lucidità psicologica che servono per affrontare il processo. Esigenza che si pone anche per questo

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soggetto dalla natura ibrida e che rischia in ogni momento dell’esame di compromettere la propria posizione.

Tale scelta normativa deve essere letta nel senso di voler evitare un pregiudizio al dichiarante e quindi nel senso di ritenere inibita al difensore una partecipazione “attiva”all’esame dell’imputato : privato di qualsiasi potere di domanda, questi non ha modo di influire sulla formazione della prova e quindi sulla ricostruzione degli avvenimenti storici. Tale figura si deve quindi limitare ad assicurare, con la propria presenza, a segnalare al proprio assistito le domande insidiose,in relazione alle quali sarà opportuno invocare i privilegi di cui all’art.197

bis comma 4 c.p.p., avvalersi del potere di opposizione ex art.504

c.p.p. in modo che il giudice vieti di rivolgergli domande di tale genere ed infine il diritto di formulare in sede di esame (nonché di audizione di cui all’art.362 e 351 c.p.p.) richieste, osservazioni e riserve ad esclusiva tutela della posizione e delle prerogative del suo assistito. Dopo aver imposto la presenza del difensore, il legislatore procede alla delimitazione dell’area di necessaria tutela del diritto al silenzio, essendo principalmente mosso dalla preoccupazione di modulare il canone del nemo tenetur se detegere sulle esigenze connesse a una garanzia autodifensiva effettivamente funzionale a prevenire pregiudizi

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nei primi due commi dell’art. 197 bis c.p.p., abbia assunto l’ufficio di testimone232.

Infatti laddove il coimputato sia assunto come teste dopo la pronuncia di una sentenza irrevocabile, il comma 4 (prima parte) dell’art.197 bis prevede che «[…] il testimone non può essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione».

A parte i profili problematici legati all’interpretazione delle formule vaghe e per certi aspetti ambigue di «negare la propria responsabilità» e di «non rendere alcuna dichiarazione» di cui a breve si parlerà, giova innanzitutto sottolineare che la clausola di esonero risulti esplicitamente condizionata ad una decisione di “condanna” emessa in “giudizio”. Questo perché il legislatore del 2001 sembrerebbe aver voluto limitare tale privilegio esclusivamente a situazioni di epilogo processuale non dotato della irrevocabilità assoluta e rispetto alle quali sarebbe stato configurabile il rischio che il dichiarante, testimoniando, potesse pregiudicare le proprie possibilità di ottenere la revisione del proprio processo oppure potesse tentare di precostituirsi le condizioni per ottenerla. A parte la criticabile scelta di limitare una simile garanzia soltanto rispetto alla possibilità di revisione della sentenza,

232 L.Bresciani, “Commento all’art.6 l. 1.3.2001,n.63- Modifiche al codice

penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e

valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art.111 della Costituzione”,Leg.pen.,p.213.

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domanda peraltro “soggetta a una previa delibazione, idonea a stroncare simili eventualità, del resto assai remote”233, si deve tener conto che con la l. 134 del 2003 l’art.629 c.p.p. ha esteso la possibilità di impugnazione straordinaria, che comunque rimane preclusa alle sentenze di assoluzione, anche alle “sentenze emesse ai sensi dell’art.444, comma 2” e quindi risulterebbe necessario un aggiornamento della normativa.

Resterebbe fuori da tale copertura infatti la necessità di tutelare la dignità dell’assolto o del condannato a pena patteggiata nel caso che questi mutino la propria versione.

Quanto all’ espressione «negare la propria responsabilità», parte della dottrina ne riconduce l’esatta portata al fatto che “nell’altro processo il dichiarante abbia negato l’addebito nella sua componente sia oggettiva sia soggettiva (condotta, nesso causale,elemento soggettivo)”234, per altri sarebbe maggiormente accreditabile una interpretazione restrittiva che ne circoscriva la portata al solo fatto storico235. Sembrerebbe che una proponibile chiave di lettura della ratio sottesa alla disposizione in questione sarebbe quella “di non costringere il condannato (a pena non patteggiata) a rendere come testimone una versione diversa da quella

233L.Bresciani,cit.,p.215.

234 V.Patanè,Op.cit.,p.234.

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V.Grevi, “Prove”, in G.Conso-V.Grevi (a cura di), Compendio di

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resa come imputato, ma di obbligarlo comunque a deporre almeno nei limiti della ammissione della proprie responsabilità”236.

Tuttavia rimarrebbero non pochi interrogativi alla luce delle esperienze quotidiane ad esempio : “è obbligato a deporre chi abbia dapprima ammesso e poi, ritrattando, negato la propria responsabilità, nel caso in cui la ritrattazione sia stata ritenuta inattendibile nella sentenza di condanna? Si tratta a tutta evidenza, di “zone grigie” che solo l’esperienza pratica riuscirà con il tempo a richiarare”237. Sembrerebbe che l’ultraoperatività del “diritto di difesa” che è alla base del “limite”al contenuto della testimonianza di cui al comma 4 dell’art.197 bis c.p.p. induce a ritenere che esso valga in relazione a quello che è stato l’atteggiamento “finale” e definitivo dell’imputato238.

Con l’espressione «non aveva reso alcuna dichiarazione», bisogna ritenere che l’art.197 bis comma 4 c.p.p. si sia implicitamente riferito alle sole dichiarazioni erga se (che il soggetto abbia riferito nel proprio processo) e non anche a quelle erga alios.239

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M.Maddalena, “Giusto processo e funzioni dell’accusa”,in “Il Giusto processo” cit.a cura di R.E.KOSTORIS,p.362 nota 12.

237 R.Brichetti, “Le figure soggettive della legge sul giusto processo”, in

Dir.pen.proc., 2001,p.1269.

238 M.Maddalena,cit., p.362 nota 12.

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M.Daniele, “La testimonianza assistita e l’esame degli imputati in

procedimenti connessi”, in “Il Giusto processo”a cura di

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La previsione contenuta nel secondo periodo dell’art.197 bis comma 4 c.p.p. prevede che, («nel caso previsto dal comma 2” dell’art.197 bis c.p.p.) chi sia divenuto testimone nei modi dell’art.64 c.p.p.,«non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti». Guarentigia alla quale si deve aggiungere, integrandosi reciprocamente, il privilegio di cui all’art.198 comma 2 c.p.p., in base a cui «il testimone non può essere obbligato a deporre sui fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale» atteso che le modalità si assunzione ex art.197 bis c.p.p. vanno considerate come integrative, e non già sostitutive, di quelle dettate per l’ordinaria testimonianza, rispetto alla quale prescriverebbero un “surplus di garanzie”240. Infatti la garanzia di cui all’art.197 bis c.p.p. copre dichiarazioni riguardanti fatti già attribuiti alla responsabilità del dichiarante, almeno in via ipotetica se il relativo processo fosse ancora pendente, o in via definitiva nel caso di decisione già passata in giudicato (e quindi circoscritta alle regiudicande passate e presenti); invece,l’art. 198 comma 2 c.p.p. riguarda dichiarazioni che possano rivelare responsabilità nuove rispetto a quelle coperte dal giudicato o a quelle per cui si procede (e quindi addebiti ulteriori rispetto a quelli già contestati).

240 V.Patanè, Op.cit., p.235

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In questi casi di pendenza del procedimento a carico del soggetto dichiarante, che quindi abbia assunto la veste di testimone in virtù del meccanismo di cui all’art.64 comma 3 lett.c c.p.p.,“si innesca un vero e proprio contrasto logico nell’ipotesi di dichiarazioni su fatti inscindibili”241. Infatti anche nella connessione o nel collegamento tra reati diversi, e non soltanto in quelle di coimputazione nel medesimo reato, il legame tra le posizioni dei soggetti è in re ipsa242 ed è altamente probabile che la maggior parte delle risposte sul fatto altrui finisca col convergere pure sul fatto proprio. Sennonché una estensione del privilegio così concepita rischierebbe di dilatare oltre misura il novero degli accadimenti storici in ordine ai quali il dichiarante potrebbe esercitare lo ius tacendi, con un conseguente effetto paralizzante sulle acquisizioni dibattimentali243.

I privilegi, sia pure ispirati ad apprezzabili intenti garantistici, risultano caratterizzati da due tipologie di difetti che rischiano di vanificare l’obbligo in parola244: ambito applicativo eccessivamente ampio e vago. Infatti i privilegi saranno in grado di coprire non soltanto tutte le dichiarazioni relative ai fatti definibili come “principali” e quindi ipotizzati nella fattispecie penale, ma anche fatti “secondari” cioè i fatti che nell’ambito del meccanismo inferenziale servono a ricavare quelli principali. 241V.Patanè,Op.cit.,p.237. 242 M.Daniele, Op.cit.,p.207. 243V.Patanè,Op. cit., p.237. 244 M.Daniele,Op.cit.,p.206.

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Inoltre, e soprattutto, nel processo penale i termini dell’addebito non vengono fissati subito con esattezza, ma subiscono un lento processo di perfezionamento; pertanto, la definitiva cristallizzazione dei due temi di giudizio, ossia il tema storico e quello del valore giuridico, si ha soltanto al momento della decisione, dove sono identificati con precisione gli elementi costitutivi del fatto di reato. Quindi, prima di tale momento, l’oggetto dei privilegi non può essere delimitato in modo netto, ma sconta il carattere provvisorio dell’imputazione245. Si tratta di un pericolo che quindi non corre il privilegio stabilito nella prima frase dell’art.197 bis comma 4 c.p.p. che si riferisce ad un ipotesi in cui la decisione è già avvenuta e che invece sussiste nel caso del privilegio sancito dalla seconda frase dell’art.197 bis comma 4 c.p.p. (ed a maggior ragione per il privilegio di cui all’art.198 comma 2c.p.p.) perché in questo caso tutto dipende dal grado di stabilità delle accuse.

Pertanto si deve ritenere che in questi casi, fermo restando l’obbligo di deporre in capo all’imputato dichiarante ex art.64 comma 3 lett. c c.p.p., l’unica efficace e coerente forma di tutela della sua posizione risulti la garanzia apprestata dall’art.197 bis comma 5 c.p.p. che è destinata a scattare a posteriori.

L’art.197 bis comma 5, infatti, prevede che «in ogni caso le dichiarazioni […] non possono essere utilizzate contro la persona che

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le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette». Si tratta di una clausola d’inutilizzabilità soggettivamente relativa adatta a “paralizzare” ogni uso improprio e pregiudizievole dell’obbligo di deporre in capo al dichiarante che risponde all’esigenza di assicurare il privilege against self

incrimination anche laddove le cautele orientate in senso preventivo si

siano rivelate inadeguate246.

Tale regola presenta due rilevanti differenze rispetto ai privilegi di cui al comma 4. Innanzitutto essa non si rivolge al dichiarante ma ha come esclusivo destinatario il giudice del provvedimento in cui questi sia imputato e soprattutto essa, nella maggior parte dei casi, opera all’atto della decisione, ossia nell’unico momento in cui è possibile misurare con precisione la portata autoincriminante delle dichiarazioni. Il fatto oggetto del procedimento infatti è stato ormai definito in tutti i suoi elementi, e resta soltanto da verificare se sia possibile instaurare un collegamento inferenziale con quanto affermato dal soggetto.

Si tratta di una inutilizzabilità “relativa” ovvero di un vero e proprio “criterio di valutazione”: da un lato le dichiarazioni potranno essere utilizzate nei confronti di altri soggetti, dall’altro qualunque sia il loro effettivo contenuto non è permesso trarne elementi sfavorevoli in

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ordine alla posizione del dichiarante, rimanendo consentito solo un impiego in bonam partem.

La regola opera in tutte le vicende processuali in cui lo stesso soggetto sia coinvolto: nel procedimento penale a suo carico a prescindere dal grado in cui si trovi, nell’eventuale giudizio di revisione, negli eventuali giudizi civili o amministrativi in cui si controverta sullo stesso fatto ivi compreso il giudizio disciplinare. Inoltre la regola non riguarda solo il giudizio di colpevolezza in senso stretto ma proibisce qualunque tipo di uso probatorio in danno del soggetto e quindi in particolare per l’applicazione delle misure cautelari, con la conseguenza che le dichiarazioni non potranno servire a desumere il

fumus delicti o i pericula libertatis contemplati negli artt. 273 e 274

c.p.p.247. Tale operatività va invece esclusa con riguardo agli eventuali procedimenti per i reati commessi proprio per mezzo delle dichiarazioni (procedimenti per falsa testimonianza, false informazioni e calunnia).

Si deve sottolineare, tuttavia, che il criterio crea esclusivamente un immunità a carattere “relativo” (con analogie con la use immunity adoperata nel sistema federale statunitense248) ovvero un criterio di valutazione che colpisce unicamente le dichiarazioni e non anche il restante materiale probatorio reperibile nei confronti del soggetto, comprendendo quindi non soltanto gli elementi individuati

247 M. Daniele, Op.cit. p.212

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autonomamente ma anche tutte le prove scoperte grazie alle dichiarazioni. Infatti, tra gli atti di natura istruttoria non è ipotizzabile un rapporto di implicazione necessario ma solo eventuale con la conseguenza che il vizio di un atto probatorio non è in grado di proiettarsi sugli atti successivi249. Inoltre non si deve trascurare il valore “euristico” delle dichiarazioni che comunque potrebbero risultare utili nell’orientare le indagini, contribuendo magari a delineare una possibile ipotesi ricostruttiva dei fatti250.

Da più parti si è mossa la critica che “la presenza dell’art. 197 bis comma 5 c.p.p. rende inutili e addirittura dannosi” i privilegi previsti dal comma 4, tali da rivelarsi come “tante piccole bombe di precisione potenzialmente in grado di far saltare buona parte della deposizione.”251Essi infatti finirebbero “con l’essere assorbiti” dalla regola di inutilizzabilità in quanto non avrebbe senso “sancire la facoltà di non rendere una risposta che comunque sarà inutilizzabile poiché in definitiva l’unica vera protezione è quella assicurata al momento della valutazione”252. In conclusione tale disciplina, pur non in contrasto con l’art. 111 Cost. che comunque non impone l’attuazione del connotato positivo del contraddittorio, non verrebbe a

249 F. Cordero, “Prove illecite” 1961, in Id, “Tre studi sulle prove penali”,

Giuffrè, Milano, 1963 pag. 157

250V.Patanè,Op. cit.,p.241. 251 M. Daniele, Op.cit., p.214. 252 M. Daniele,Op. cit., p.214.

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realizzare “un giusto bilanciamento tra il diritto di difesa di chi accusa