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COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA,

DIRITTO AL SILENZIO TRA “LEGISLAZIONE

84 COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA,

la formazione della prova nei processi di criminalità organizzata (relazione dell’on. N. Violante) in Cass. pen. 1992 pp. 484 e 485.

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senza possibilità di interloquire nelle due sedi. Nel caso le prove utili all’accusa siano state formate in altro procedimento, sopperirà il meccanismo di recupero predisposto dall’art. 238 c.p.p. ed anche in questa situazione il difensore del destinatario dell’addebito in correità non è presente nel dibattimento a quo: ciononostante l’imputato subirà gli effetti pregiudizievoli dell’acquisizione nel proprio processo, delle dichiarazioni altrove rilasciate. Infine l’iperbole dell’art. 190 bis c.p.p. darà al giudice la possibilità di congelare le relative acquisizioni nei procedimenti afferenti ai reati di criminalità organizzata contemplati nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p.

La norma di cui all’art. 513 c.p.p. è inoltre oggetto di discussioni, riforme e controriforme successive. Il regime tracciato dalla Corte costituzionale (nel 1992) rimane pressochè immutato fino all’emanazione della legge 7 agosto 1997 n. 267. Con tale provvedimento si viene ad incidere, innanzitutto, sulla disciplina contemplata dall’art. 513 : il comma 1 continua prevedere che in caso di contumacia o assenza dell’imputato, o di rifiuto dello stesso di sottoporsi ad esame, il giudice, a richiesta di parte, possa disporre la lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni, ma quest’ultime non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso. Al comma 2, si prevede che, ove il dichiarante si sia avvalso della facoltà di non rispondere, il giudice possa disporre la lettura dei verbali contenenti le precedenti dichiarazioni “soltanto con l’accordo delle

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parti”, intendendo quindi tanto il consenso della persona nei cui confronti le dichiarazioni saranno utilizzate come pure quello delle altre parti. L’intervento normativo, inoltre, al fine di bilanciare le perdite in punto di accertamento dei fatti riconnesse alle nuove regole di esclusione, prevede un ampliamento delle ipotesi di contraddittorio predibattimentale. L’art. 392 comma 1, lett. c e d c.p.p. prevede una semplificazione delle possibilità di accesso al meccanismo dell’incidente probatorio (indipendentemente dall’ipotesi di rinviabilità dell’accertamento) per la persona imputata connessa e prevedendo nel contempo il diritto della persona sottoposta alle indagini e del suo difensore di prendere copia di tali atti con la regola di utilizzabilità di tali prove solo nei confronti di imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione con una volontà di potenziamento del contraddittorio. Volontà che sottintende anche l’inserimento del comma 2 bis all’art. 238 c.p.p. in materia di acquisizione di verbali di prova di altri procedimenti (le dichiarazioni rese dalle persone di cui all’art. 210 c.p.p., nell’incidente probatorio o nel dibattimento separato, sono utilizzabili soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione). La soluzione privilegiata dal legislatore è di fatto imperniata su di una regola di esclusione probatoria e sulla conseguente, automatica soccombenza delle ragioni dell’accusa a fronte di un diritto di difesa “eretto a

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arbitrio della decisione circa la sorte delle altrui dichiarazioni non ripetute in dibattimento per esercizio dello ius tacendi”85.

La disciplina stratificatesi in materia fino al 1997, che reca con sé una serie di profonde contraddizioni, frutto di assunti concettuali e normativi tutti pervicacemente protesi ad un riconoscimento sovrabbondante e indifferenziato del diritto al silenzio86 da più parti ritenute poco meditata, è presto oggetto di una nutrita serie di eccezioni di illegittimità costituzionale che, appena un anno dopo l’emanazione della legge, portano alla sentenza della Corte cost. 2 novembre 1998, n. 361. Tale sentenza dispone “l’illegittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, ultimo periodo del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura si applica l’art. 500, commi 2 bis e 4, de codice”. Tale è la riformata disciplina (introdotta dalla legge 356 del 1992) delle contestazioni testimoniali che prevede che “le parti possono procedere alla contestazione anche quando il teste rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni” (comma 2 bis art. 500 c.p.p.) e “quando, a seguito della

85 Cfr. Corso, “Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro

processuale da rimuovere?” in AA. VV., “Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia”, vol. II, Giuffrè, Milano, 2000, p. 181.

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contestazione, sussiste difformità rispetto al contenuto della deposizione, le dichiarazioni utilizzate per la contestazione sono acquisite al fascicolo per il dibattimento e sono valutate come prova dei fatti in esse affermati se sussistono altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” (comma 4 art. 513 c.p.p.) . Con tale decisione i giudici della Consulta ritengono assimilabile, per quello che qui interessa in questa sede, la figura dell’imputato già dichiarante sul fatto altrui a quella del testimone, essendo caratterizzate tali dichiarazioni “dall’essere rivolte, e dall’essere destinate a valere, nei confronti di altri”87. La Corte quindi mette in atto un intervento di tipo manipolativo ma adottando una soluzione di compromesso, o per meglio dire “monca”, non spingendosi ad enucleare tutte le conseguenze logicamente implicate dalla predetta distinzione, 88 ponendo quindi l’esigenza di una rivisitazione del sistema.

Senza questa lunga premessa, le modifiche che si attueranno di lì a poco (1999) sul giusto processo, intervenute dopo una lunga e tempestosa ricontrattazione politica, rimarrebbero oscure, celate dietro le formule depurate dai giuristi o attribuite ad improvvise esigenze di adeguamento al dettato validissimo, ma ormai remoto, delle carte europee dei diritti. 89

87 Corte Cost, 2 novembre 1998, n. 361

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Cfr. Patanè, “Diritto al silenzio dell’imputato”, cit. p. 66

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L’analisi non può prescindere da un richiamo alla regola probatoria sancita dal legislatore del 1988 all’art. 192 comma 3 che afferma che “Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità”; norma che, posta con la precisa volontà di limitazione del libero convincimento del giudice, è stata oggetto di interpretazioni oscillanti da parte della giurisprudenza circa la natura e sull’utilizzo processuale della chiamata di correo. Laddove ci si trovi di fronte alle dichiarazioni di un collaboratore –ontologicamente classificabili come prova rappresentativa- ma per definizione “interessate” in vista del possibile beneficio a queste riconducibili essendo in gioco interessi di libertà e talora addirittura di sopravvivenza (entrata o permanenza in un sistema di protezione) si ha un peculiare atteggiarsi delle cadenze della valutazione che richiede quella corraboration capace di colmare il gap di affidabilità che paralizza in partenza la posizione di questo particolare soggetto. Il fattore discriminante deve dunque essere quello della imprescindibile esistenza di riscontri esterni al fine di considerare attendibile la chiamata di correo, riscontri esterni che possono essere “di qualsiasi tipo e natura”90 e consistere anche in ulteriori chiamate di correo, purché dotate del requisito della indipendenza, in modo tale da poter escludere che la convergenza possa essere il frutto di reciproche

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influenze tra i dichiaranti, dimostrato dalla pubblica accusa e vagliato dal giudice nel corso della cross-examination.

Processo dell’emergenza e riforma del processo costituiscono i poli opposti di un campo ad alta tensione nel quale, ancora una volta, si ridefiniscono i delicati equilibri tra autorità e individuo; ed è in tale contesto che la problematica della chiamata di correo fornisce, con l’indubbio portato di implicazioni e valori legati allo strumento, una non trascurabile serie di spunti di riflessione91.

91Cit. A. Bernasconi, “La collaborazione processuale”, Giuffrè editore,

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CAPITOLO III:

LA

RIFORMA

DELL’ARTICOLO

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DELLA

COSTITUZIONE E NUOVA DISCIPLINA DEL DIRITTO