• Non ci sono risultati.

5. Antonio Gramsci e la conflittualità delle classi

5.1 Gli anni di “Ordine Nuovo”

E’ all’interno della fabbrica dunque che il potere del capitalista si scorge nella sua massima espressione di forza. Costringe i suoi subalterni ed “è illimitato: è potere di vita e di morte sull’operaio, sulla donna dell’operaio, sui figli

dell’operaio”40. All’interno dell’officina vige il medesimo rapporto gerarchico che caratterizza l’esercito (e qui Gramsci riprende l’analogia marxiana), con il proletariato nel ruolo dei soldati, i proprietari a svolgere la funzione di comando supremo, e la piccola borghesia a rappresentare gli ufficiali subalterni. Quel che le tecnologie e l’andamento della produzione tendeva a riunire, la coscienza d’ogni operaio d’essere simile nella sorte e negli interessi al proprio compagno di lavoro, la divisione gerarchica separava e contrapponeva. Così si cerca di “suscitare artificialmente la concorrenza tra gli operai, suddividendoli in categoria arbitrarie, e ogni categoria in altre categorie, quando il perfezionamento degli automatismi ha ucciso questa concorrenza”41. Anche coloro i quali dovrebbero riconoscere la rispettiva centralità nei meccanismi della produzione, tecnici e operai, vengono innaturalmente contrapposti subordinando i secondi ai primi, e dando a questi ultimi l’impressione di una divergenza di interessi con i loro subalterni.

A partire da questa impressione, che subdolamente cerca di presentarsi alla coscienza come naturale, alla classe operaia non resta che agire scegliendo tra due strategie alternative: “la classe può porsi un obiettivo strettamente rivendicativo all’interno del potere capitalistico oppure porsi un obiettivo di distruzione di quel sistema. Quel che non è realisticamente concepibile è la pretesa di conciliare nella fabbrica e nello Stato il potere di due classi che il sistema di produzione pone in posizioni inconciliabili per il carattere che l’uno ha di sfruttatore e l’altro di sfruttato, l’uno di organizzatore del sistema dello sfruttamento e l’altro di organizzato all’interno di questo sistema”42.

Bisognava, per dare concretezza a questo capovolgimento di forze, creare delle istituzioni (i consigli di fabbrica) che realizzassero l’autonomia (decisionale soprattutto) del produttore nella fabbrica, assumendo ruoli direttivi attraverso un sistema decisionale che aprendosi ai produttori, portasse gradualmente all’espulsione dell’avversario di classe dalle unità di lavoro, per poi estendere la

40 A. Gramsci, “L’ordine nuovo”, Einaudi, Torino 1954, p.124. 41

Ibid., p.112.

42

Massimo L. Salvadori, “Gramsci e il problema storico della democrazia”, Einaudi, Torino 1977,pp.94-95.

lotta al potere statale. Questo tipo di lotta, rivendicata come essenziale per la classe operaia, non poteva essere demandata né ai quadri sindacali né ai politici, col rischio di vederla ridotta ad un cambiamento formale in seno al potere statale, senza la giusta importanza alla rete dei produttori che unitariamente stabilisce come e a favore di chi indirizzare la produzione. “In tal modo il Consiglio, che unifica economia e politica preparando la classe operaia a diventare forza politica dirigente, *…+ e il partito, la cui funzione è quella di unire e disciplinare l’avanguardia della classe e dei suoi alleati, segnava la soluzione concreta del superamento della prassi del vecchio socialismo italiano”43. La via dei consigli si apriva perciò alla registrazione dei mutamenti dei rapporti di forza, e di alleanza, che continuamente agitano le classi e i singoli individui, proponendosi di accompagnare i mutamenti con un sistema libero e aperto al contributo di tutti.

A fianco delle considerazioni sull’organizzazione della classe, sta nel pensiero di Gramsci la valutazione del ruolo storico del capitalismo italiano; le conseguenze possibili del suo divenire e le tare storiche che si porta dietro. Il capitalismo italiano, specie dopo la guerra, viveva una fase di riordinamento dove l’azione dei capitani d’industria, proprietari che svolgevano anche la funzione di dirigenti e impegnavano la loro azione nel funzionamento dell’impresa, era stata esautorata dalla preponderanza del controllo bancario sull’economia. Un processo di finanziarizzazione che portava sempre di più il profitto al centro dell’azione imprenditoriale, facendo passare del tutto in secondo piano i fini produttivi. Le esigenze belliche avevano fatto assurgere ad un ruolo di primo piano lo Stato, che in un’economia di guerra, si ritrovava a fornire le materie prime, ad impegnarsi nella distribuzione e a fare la parte del compratore di buona parte della produzione. A causa di ciò una larga fetta di burocrati, mossi da interessi personali o di microscopici gruppi, si arrogava un ruolo imprenditoriale che non gli apparteneva, e che non poteva che svolgere con disimpegno e superficialità. Il concomitante inverarsi di queste due condizioni, fece sì che “l’apparato economico italiano (fosse) diventato un fenomeno meramente finanziario: (fosse) giunto cioè a quella fase di

43

decomposizione e di sfacelo che poteva prevedersi come fase dialettica posteriore logicamente e cronologicamente alla fase del massimo sviluppo industriale44”.

Il confronto storico con le borghesie capitalistiche di altri paesi, in particolar modo con quella inglese dove una concezione liberale pura si era affermata con decisione, si rivelava perciò impietoso prendendo ad esempio la situazione in cui versava il capitalismo italiano. Incapace di affermarsi come classe rinnovatrice, la cui forza spezza i lacci che nel divenire storico impediscono alle forze produttive di raggiungere il proprio apice, il capitalismo peninsulare si era alleato col latifondismo agrario (particolarmente forte al Sud), guidando lo sviluppo industriale non in direzione di un miglioramento del tenore di vita delle classi meno abbienti, aumentandone la capacità di spesa, quanto piuttosto fortificando i privilegi di pochi, pochissimi, sviluppando un apparato burocratico parassitario, chiuso verso i mercati internazionali da un atteggiamento protezionistico, e incapace pertanto di dotarsi di un’industria vitale e moderna. Gramsci è convinto che dopo lo sfacelo della guerra, il padronato italiano non fosse più in grado di far ripartire la produzione, e che si fossero inverate le tesi di Marx, per cui i tempi fossero “oggettivamente” maturi per un intervento rivoluzionario guidato dalla classe operaia. Sarebbero stati proprio i consigli di fabbrica a “fare d’ariete” alle spinte rivoluzionarie; prima appropriandosi della produzione e, una volta controllata questa, dando poi battaglia alla borghesia per la conquista dello Stato.

Guardando con ostilità allo stato in cui marciva la borghesia italiana, incapace di slanci vitali, Gramsci affermava la necessità della costituzione di una borghesia moderna, pienamente liberista, capace di assolvere alla sua funzione storica, come forza motrice di un cambiamento sociale e produttivo. La vera antagonista del proletariato rivoluzionario era infatti questa borghesia liberale- liberista; entrambe le classi avrebbero così ottemperato al loro compito storico, in un antagonismo che vedrà poi il succedersi di una classe ad un’altra secondo un criterio di evoluzione storica (e non privo di un certo teleologismo). L’incapacità di

44

affermarsi che queste forze della borghesia moderna dimostrarono nell’Italia del dopoguerra, lo portarono ad abbandonare l’idea che il proletariato avrebbe trovato davanti a sé il suo avversario naturale; “allora svilupperà la sua analogia fra la situazione italiana e la situazione russa, e indicherà nella lotta per il sistema dei consigli una necessità storica del proletariato per sostituire un sistema economico e politico borghese che rispetto alle necessità collettive si qualifica come l’organizzazione del privilegio parassitario”45.

Per la formazione del sistema dei consigli assume un rilievo particolarmente significativo la questione della disciplina operaia. Il capitalismo non era più in grado, interessato solo alla sua sopravvivenza meschina, di impostare alcuna politica economica di rinnovamento che garantisse di uscire dalla situazione di povertà e stagnazione del dopoguerra. Per usare le parole di Gramsci, “se gli industriali non sono più capaci ad amministrare l’apparato di produzione e a farlo rendere fino al massimo (come non sono capaci, come ogni giorno di più dimostrano di non essere capaci) per salvare la civiltà dallo sfacelo e dalla bancarotta, gli operai assumeranno essi questo ufficio coscienti della grave responsabilità che si addossano, e lo esplicheranno, coi loro metodi e i loro sistemi comunistici, attraverso i loro Consigli di produzione”46. Alle consuete strategie padronali della concorrenza tra uguali e della suddivisione gerarchica, il movimento dei consigli vorrà opporre il senso di indispensabilità per il buon funzionamento della fabbrica che unisce le maestranze le une con le altre, un processo di mutua educazione sempre rinnovato: la solidarietà di classe. “Il consiglio di fabbrica è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall’esperienza viva e feconda della comunità di lavoro”47. La formazione di nuovi costumi e una nuova psicologia, nell’esperienza dei consigli di fabbrica “che devono sostituire l’eroe nel potere industriale, devono,

45 Massimo L. Salvadori, “Gramsci e il problema storico della democrazia”, Einaudi, Torino

1977,p.112.

46

A. Gramsci, “L’ordine nuovo”, Einaudi, Torino 1954,p.50.

47

attraverso il disciplinato e coscienzioso lavoro della classe operaia, rinnovare la struttura della società e annientare ogni forma di Stato”48.

La costituzione dei Consigli di fabbrica non era scindibile pertanto dai problemi posti dalla produzione e dall’innovazione tecnologica. Il controllo delle fabbriche prevedeva, come momento necessario, un’assunzione di responsabilità da parte degli operai, come classe, nel fare ripartire la produzione sottraendola al controllo capitalista. I due momenti, eliminazione del nemico di classe e gestione della produzione, trovavano senso l’uno nel compiersi dell’altro. Il produttivismo propagandato dalla borghesia, nascosto dietro il velo ipocrita della comunione d’interessi, era il produttivismo che la classe operaia doveva respingere. La produzione per la produzione non era infatti il fine; conquistare i centri delle produzione e rivitalizzarli significava mettere le basi per la conquista del potere politico su più vasta scala. Nel biennio 1919-20 l’analisi di Gramsci riguardo lo stato del capitalismo italiano è netta: si è giunti a uno stallo. “Il capitalista si è allontanato dal campo della produzione; il governo dell’industria è caduto in mano di inetti e di irresponsabili; la classe operaia è rimasta sola ad amare il lavoro, ad amare la macchina. *…+ Il proletariato aumenterà la produzione per il comunismo, per attuare la sua concezione del mondo, per rendere storia la sua filosofia, non per procurare nuovi ozi o nuovi sperperi ai detentori di carta moneta”49.

Identico discorso valeva per l’innovazione tecnologica, le cui possibilità andavano esplorate senza abbandonarsi ad infantili e discutibili paure della macchina. La macchina è parte del processo produttivo, e solo il suo uso distorto da parte capitalista ne frustra le potenzialità emancipatrici. Sarà così che nella composizione stessa dei consigli la figura del commissario di reparto sarà investita della funzione di “studiare e spingere i compagni a studiare i sistemi borghesi di produzione e i processi di lavorazione, incitando la critica e le proposte di innovazione atte a facilitare il lavoro accelerando la produzione”50. Il processo

48 Ibid., p.105. 49 Ibid., p.327. 50 Ibid., p.197.

tecnologico andava sottoposto al vaglio critico della comunità dei produttori, per evitare di incappare in posizioni neutralistiche o imposizioni da parte delle gerarchie che sorreggono il capitale. Le vie attraverso le quali la borghesia cerca di ottenere gli aumenti della produzione (coercizione, melliflui inviti alla cooperazione e quant’altro) sono da considerarsi malsane; è la divergenza antagonista degli interessi a generare un aumento della produzione che sia migliorativo della condizione delle maestranze, che ricusi lo sfruttamento e affermi la solidarietà operaia. “L’eguaglianza comunista non si potrà ottenere che attraverso un’intensa produzione, e il benessere (potrà) essere dato non dal disordine delle produzione o dall’attenuazione della disciplina del lavoro, ma bensì da una migliore e più equa distribuzione dei compiti sociali e dei frutti della società stessa, ottenuta con l’obbligatorietà del lavoro e l’uguaglianza delle mercedi”51.