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2. Taylor, l’ingegnere sociale

2.2 Un sistema per il padronato

La distinzione cieca tra il piano tecnico, addolcito dalle ricompense, e quello psicologico sembra a Friedmann una delle grandi carenze strutturali del sistema taylorista. Lo spiega con molta chiarezza in un passo della sua opera prima: “la questione essenziale, che è psicologica e sociale, è di sapere se l’operaio, divenuto l’operatore ben preparato di una o più macchine, allontanato da ogni pensiero tecnico nel suo lavoro quotidiano, quando constata che il vantaggio di questo lavoro più intenso, anche con il sistema di premi più raffinato, non è diretto a lui, sarà o meno in una disposizione d’animo tale da potere, e anche potendo, da desiderare di migliorare i metodi di lavoro e gli impianti”78. La componente psico-sociale che si esprime nel lavoro, che è lo sfondo esistenziale della biografia di ciascun lavoratore, e al contempo il suo continuo subire e reagire agli impulsi che si producono durante

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G. Friedmann, “La crisi del progresso. Saggio di storia delle idee 1895-1935”, Guerini e Associati, Abbiategrasso 1994, p. 78.

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F. W. Taylor, “L’organizzazione scientifica del lavoro”, Ed. Comunità, Ivrea 1952, p.198.

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G. Friedmann, “La crisi del progresso. Saggio di storia delle idee 1895-1935”, Guerini e Associati, Abbiategrasso 1994, p. 78.

l’esperienza lavorativa (ma anche oltre: il tempo libero sarà oggetto delle indagini del Friedmann più maturo) sono già in questa prima opera dell’intellettuale francese portate al centro della questione generale “lavoro”; se ne delineano i contorni e se ne afferma l’ineludibilità.

E’ proprio su questo piano, e in particolar modo sulla totale inadeguatezza scientifica degli studi psicologici(o presunti tali) tayloristici, che nella “Crisi del Progresso” s’insiste per mostrare le fragilità teoriche dell’OSL. La corrispondenza perfetta tra il miglior modo di eseguire un compito da parte del lavoratore e il sistema di premi adeguati alla soddisfazione del personale, rivelerebbe così la grettezza del pensiero psicologico di Taylor ed epigoni, un pensiero nient’affatto dinamico e del tutto incapace di cogliere i moventi all’azione del singolo, tutto preso com’è dall’incremento dei profitti e dall’isolamento dell’operaio. Il metodo tayloriano compie perciò un consapevole sforzo di frammentazione del lavoro cooperativo, rifuggendo ogni tipo di collaborazione tra squadre di operai (viene rigettata persino l’idea delle stimolazioni collettive come ad esempio tramite la partecipazione ai profitti). Si adduce la motivazione che la cooperazione porterebbe ad un annullamento delle motivazioni personali, le uniche riconosciute da Taylor come adatte ad una reale stimolazione degli interessi e delle ambizioni del soggetto nel quadro della produzione. In queste misure volte ad aumentare il rendimento tramite l’individualismo, Friedmann ha buon gioco nel riconoscere l’avversità di Taylor verso i sindacati, con un’operazione volta a minarne la condizione essenziale di aggregatori collettivi attorno alla presa di coscienza di un interesse comune da rivendicare e difendere.

A proposito della concezione elementare della psicologia operaia propria di Taylor, nella “Crisi del Progresso” sono citati due lunghi stralci di discorsi del’ingegnere di Germantown. Nel primo, a conferma del binomio compito individuale/premio come mezzo per aumentare la produzione generando soddisfazione tra i salariati, si suggerisce che il tasso di aumento del salario non debba oltrepassare il sessanta per cento, pena il decadimento del circolo di sobrietà e risparmio indotto dalla giusta remunerazione, che genera individui economi e

migliori sotto il profilo morale. L’intreccio tra velleità di riforma morale e mentalità tecnica d’organizzazione del lavoro non potrebbe essere meglio illustrato. Nel secondo passo riportato i dirigenti sono invitati ad utilizzare una strategia graduale nell’ottenere un miglioramento della produzione: (1) agitare una carota (ricompensa) (2) far schioccare dei colpi di frusta di tanto in tanto (disciplina e definizione dei ruoli). Taylor ribadisce che i migliori risultati si ottengono con una sapiente mescolanza dei due elementi, pur privilegiando i risultati benefici che vengono dal sistema delle ricompense.

Friedmann non ha iniziato ancora, nel 1936, la sua attività accademica di sociologo del lavoro e dunque non propone in questo saggio alcun elemento di analisi lontano dai paradigmi dell’aumento di produttività per lavoratore o del mistico amore per l’industria proposti da Taylor. Avverte di certo l’insostenibilità sociale e scientifica delle tesi tayloriste sul piano sociale, psicologico e fisiologico, ma è soprattutto sul primo di questi temi che concentra la sua critica. Il taylorismo ai tempi della “Crisi del Progresso”, è opportuno ricordarlo, è letto prevalentemente come la tappa finale di un percorso ancora in fieri di evoluzione di un più complessivo dibattito sul progresso e la tecnica; di questo processo la “dottrina Taylor” rappresenterebbe lo stato dell’arte nel momento in cui l’autore scrive, ma anche il segno di un passaggio di testimone, critico, degli ideali del progresso dai filosofi e in genere dagli intellettuali umanisti, ai tecnici e gli ingegneri. Questi ultimi portano in dote all’ideologia del progresso il frutto avvelenato di un’ idea della storia scevra dalla conflittualità e dal confronto tra interessi divergenti, finendo per svilire gli ideali della borghesia trionfante tramite l’affermazione di una società tecnocratica e asettica.

Volendo fermare lo stato dell’evoluzione del pensiero di Friedmann nella “Crisi del Progresso” con una formula riassuntiva seppur imprecisa, si potrebbe dire che per il sociologo la criticità dell’analisi del lavoro taylorista andava ricercata ancora al di fuori del processo di lavoro vivo e concreto, per così dire, ma piuttosto nelle rimozione totale del ruolo del conflitto tra le classi e del controllo dei mezzi di produzione, nella configurazione delle possibilità emancipatorie della tecnica

applicata alla produzione. Le diverse considerazioni sul macchinismo applicato negli Stati Uniti e quello applicato in Unione Sovietica ne sono testimonianza. L’orizzonte di riferimento è quello di una storia delle idee in cui si fronteggiano delle ideologie opposte ma estremamente capaci di rappresentare per intero il proprio tempo, se non addirittura di condizionarlo in maniera rilevante. Non viene considerato ancora, seppure ne compaiano alcuni elementi, l’interesse per una scienza che si dedichi allo studio esclusivo del lavoro, come elemento separato da un complesso di altre discipline perlopiù economiche e di filosofia politica; di contro, le scienze che ne studiano i meccanismi, le applicazioni tecniche che ne risultano, possono apportare dei benefici significativi alla cosiddetta causa umana, “in base al valore potenzialmente liberatorio assegnato alla tecnica e alla tesi del suo significato socialmente condizionato”79. Rimuovendo il conflitto il taylorismo giungeva naturalmente alla teorizzazione di una società “armonica”, in cui le rivendicazioni e gli interessi degli operai si sarebbero espressi e risolti al meglio percorrendo il cammino della cooperazione con i padroni.

La preoccupazione per il benessere operaio è parte integrante del pensiero di Taylor, poiché “l’operaio pagato meglio, stimolato, guadagnato alla nuove organizzazione, si ammansisce e cessa di essere un elemento ostile”80. “Il problema del costo del lavoro venne affrontato da Taylor nell’ambito di un problema più generale, e vitale per la storia del capitalismo, quello della crescente incidenza del capitale costante rispetto a quello variabile sui costi di produzione”81. La genialità dell’intuizione era nel comprendere che esisteva un metodo per soddisfare la richiesta padronale di un’aumentata produttività e quella operaia di un aumento salariale, poiché “primo: non c’è quasi mestiere in cui gli operai non possano e non vogliano concretamente aumentare la loro produzione giornaliera, purché gli venga assicurato un compenso giornaliero maggiore e di carattere permanente. *…+ Secondo: che gli imprenditori possono ben permettersi di pagare salari più alti per unità di prodotto perfino in modo permanente, purché ogni operaio e ogni

79 Michela Nacci, L’equilibrio difficile, in G. Friedmann, “La crisi del progresso. Saggio di storia delle

idee 1895-1935”, Guerini e Associati, Abbiategrasso 1994, p. XXVIII.

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macchina nello stabilimento realizzi una quantità proporzionalmente maggiore di produzione”82

Rimuovendo dall’altro lato la questione del controllo dei mezzi di produzione, il taylorismo idolatra quello spirito tecnicista slegato dalle scienze umane e dal socialismo; un atteggiamento carico di nefaste conseguenze per il giovane Friedmann.