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"Dove va il lavoro umano?" L'elaborazione di Georges Friedmann e il dibattito italiano sul lavoro tra primo dopoguerra e boom economico.

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE

4

I. L’organizzazione scientifica del lavoro in Italia.

1. La situazione prima della Grande Guerra: aumentare la produzione. 9 2. Il cottimo e il suo ruolo nella dottrina Taylor. 11

3. Tra il dopoguerra e il fascismo. 16

3.1 Cottimo collettivo e sistema “Beadux”. 17

3.2 Fondazione e ruolo dell’Enios. 21

3.3 Il rilancio dell’ente con la fine del conflitto. 24

4 Agostino Gemelli, la psicotecnica del lavoro e la dottrina sociale della Chiesa. 27

4.1 Tra ricerca empirica e cristianesimo sociale. 32

4.2 Ruolo ed eredità di Gemelli nel dopoguerra. 33

5. Antonio Gramsci e la conflittualità delle classi. 34

5.1 Gli anni di “Ordine Nuovo”. 35

5.2 Il biennio rosso e gli ordinovisti. 41

5.3 Taylor e Ford visti dal carcere: “Americanismo e fordismo”. 43

II. Friedmann e la sociologia del lavoro europea.

1. Una reazione al taylorismo . 48

2. Taylor, l’ingegnere sociale. 52

2.1 L’attività alla Midvale e il perfezionamento della dottrina. 54

2.2 Un sistema per il padronato. 58

3. Ford, l’imprenditore con una missione. 62

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4. Un cambio di registro: il lavoro nella sua operatività 69 5. Oltre l’organizzazione scientifica del lavoro: psicotecnici e scienze

applicate al lavoro. 74 6. I sociologi dentro l’impresa: l’inchiesta Hawthorne. 82 7. Oltre il fattore umano: solidarietà, soddisfazione, ambiente e tempo

libero 89

7.1 Liberare l’uomo nel lavoro 97

III. Riorganizzazione capitalista e OSL in Italia

1. Il boom economico nell’Italia del secondo dopoguerra. 103

1.1 Il produttivismo. 106

2. Le relazioni umane: temi del dibattito italiano. 110

2.1 La ricomposizione del conflitto: gli interventi in

“Produttività”. 111

2.2 Cgil e human relations. Il risveglio del sindacato. 115

2.3 Le “Relazioni Umane” all’Ivrea. La polemica su

“Comunità”. 118

3. L’equilibrio difficile. La Cisl e il rilancio produttivo. 134

4. La Cgil di fronte alla trasformazione. 139

IV. Gli albori della sociologia del lavoro italiana

1. Il neocapitalismo come cornice di riferimento. 151

(3)

2. La fabbrica delle idee. Olivetti e la sociologia del lavoro. 157

3.Gli osservatori interni all’Ivrea. Franco Ferrarotti. 164

3.1 Luciano Gallino. 170

4. Una feconda frattura: la sinistra e la rinascita sociologica. 176

4.1 Giuseppe Bonazzi. 177

4.2 Sociologi marxisti: Roberto Guiducci e Alessandro Pizzorno . 180

5. Uso politico dell’inchiesta in fabbrica. Raniero Panzieri e i Quaderni Rossi. 185

Conclusione.

195

Bibliografia.

200

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INTRODUZIONE

La tesi si propone di ricostruire la riflessione prodotta in Italia sulla sfuggente tematica concettuale del lavoro, con un’attenzione particolare ad autori, correnti o gruppi che, nell’ambito della riflessione teorica, cercarono sempre di verificare le loro analisi sul terreno empirico del lavoro concreto, compiuto.

In questo senso si è guardato ai contributi di quanti, tra sindacalisti, sociologi del lavoro, intellettuali, dirigenti d’azienda e altri attori a vario titolo, si sono spesi e confrontati per misurare le loro analisi sul terreno in pendenza dei mutamenti tangibili del lavoro, della sua organizzazione e delle sue condizioni, per cercare di rifuggire da ogni deriva nell’astrazione, da ogni fuga in avanti (o indietro) nel mondo delle idee.

Per provare a guardare a questa galassia variegata, da un angolo visuale che ne restituisse la complessità e le differenze, ma senza perdersi nella frammentarietà dei discorsi prodotti, si è cercato di utilizzare come filtro l’opera di Georges Friedmann, sociologo francese del lavoro, che fu tra i più influenti autori impegnati in queste riflessioni, con un impegno costantemente diviso tra la concettualizzazione, la ricostruzione storica e la proposta filosofica.

Bisogna però avvertire che questo non significherà un confronto tra gli sviluppi della riflessione sul lavoro in Francia e in Italia, quanto piuttosto la valutazione critica dell’impatto di un certo modo di pensare il lavoro, che mi pare abbia trovato nell’opera di Friedmann un caso di rara rappresentatività; la messa in servizio, all’interno dell’approccio culturale europeo (basti pensare a Smith, Marx e Durkheim, come riferimenti), di una serie di strumenti pragmatici d’indagine empirica sviluppati dalla sociologia statunitense. Dall’incontro tra queste due culture, è avvenuto anche tramite Friedmann, una traduzione, un aggiornamento del bagaglio concettuale utilizzabile per poter confrontarsi con questi problemi.

Ed è il percorso che, al contempo, produce l’allargamento della visione da parte di Friedmann e Pierre Naville, anche lui sociologo del lavoro, e

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l’istituzionalizzazione della sociologia del lavoro; in un intendimento più comprensivo, e al contempo più problematico, della precedente formula di sociologia industriale.

Chiedendosi cosa sia il lavoro, nel “Trattato di Sociologia del Lavoro”, egli ne dà una formulazione che è al contempo aperta e connotata antropologicamente: esso si caratterizza come “un denominatore comune, una condizione di ogni vita nella società; *…+ una trasformazione operata dall’uomo, attraverso la tecnica, sulla natura, la quale a sua volta reagisce sull’uomo, modificandolo.*…+ E’ infine l’insieme delle azioni che per un fine pratico l’uomo esercita sulla natura, con l’aiuto del suo cervello, delle sue mani, di utensili, di macchine, e che agendo a loro volta sull’uomo lo modificano”1.

Da questa formulazione, per quanto dinamica, sono gli autori stessi a indicare il rischio di trarre ricostruzioni parziali o metafisiche, non appena venga essa distaccata “dalla storia, dalla sociologia e dall’etnografia”. Dunque un invito alla verifica, continua, con i mezzi delle scienze sociali delle condizioni di partenza, ideologiche si potrebbe dire, d’ogni ricerca. Per quanto attiene la sociologia del lavoro, essa si configurerà come “lo studio delle collettività che sotto diversi aspetti, si costituiscono in occasione del lavoro”2. Il ruolo riservato al lavoro sarà quello di fungere da chiave di lettura, e non, come accade spesso, sradicandolo dal suo contesto, come categoria critica astorica di riflessione.

Pur avendo Friedmann prevalentemente considerato, come casi di studio specifici, esperienze di gruppi di lavoro o aziende francesi, e di rimando americane, si cercherà di far emergere come la sua impostazione abbia trovato anche in Italia una certa predisposizione ricettiva, e le condizioni favorevoli per rendere operative alcune delle intuizioni che la attraversano.

1

G. Friedmann e P.Naville (a cura di), “Trattato di sociologia del lavoro”, vol. I, Edizioni di Comunità, Milano 1960, p. 5 e sgg.

2

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Questa traducibilità da un contesto extraitaliano, tecnologicamente e economicamente più avanzato come quello americano, ma anche francese, è stata possibile grazie ad un allargamento del piano; l’adeguamento cioè dell’industria italiana, in particolar modo nel secondo dopoguerra, alle condizioni tecniche, strutturali ed economiche delle società industriali d’avanguardia. Questa trasformazione, è il caso di affermare, è avvenuta anche grazie alla rinnovata leggibilità del discorso sul lavoro nel dibattito italiano, in una sorta di circolarità tra trasformazioni materiali della società e tentativo d’interpretazione della stessa da parte dei suoi agenti.

La periodizzazione qui seguita si snoda dalle condizioni del lavoro in Italia nel primo dopoguerra, con le sue peculiari condizioni di “arretratezza” industriale e timida penetrazione dei metodi scientifici di organizzazione del lavoro, fino agli anni del boom economico, quando in qualche modo, anche in virtù dei mutamenti politici e della fortissima compenetrazione economico-culturale nell’area atlantica, il paese completerà il suo riallineamento industriale con i paesi più sviluppati.

Nel primo capitolo si cercherà di ricostruire i primi, isolati, accenni d’introduzione nel mondo culturale italiano dei temi dell’organizzazione in fabbrica, nel loro strettissimo legame con le questioni salariali, di cottimo e ricompensa operaia. Queste questioni, che si prolungheranno in epoca fascista pur nell’arretrato quadro italiano, saranno messe in tensione con l’apporto intellettuale, e reciprocamente antitetico, di due studiosi quali Gramsci e Gemelli.

La scelta d’isolare la riflessione di questi, tra gli altri autori che si occuparono di lavoro in quegli anni, è dettata dalla percezione che si è avuta del carattere seminale del pensiero di entrambi per le successive elaborazioni.

Per un verso Gramsci, di cui si è cercato di fermare l’attenzione alla questione operaia in presa diretta, senza forme di mediazione verticistica che ne deturpassero la veridicità. Ci si è concentrati, pertanto, sull’attenzione da lui rivolta alle naturali capacità direttive della classe operaia, in opposizione virtuosa alla gestione capitalistica, che porterebbe alla costruzione di una razionalità produttiva

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nuova e di tipo egualitario. Di contro Gemelli, è una figura che con il suo impegno personale nelle scienze positive, seppur immerso nella dottrina sociale cristiana, che in qualche modo permette di traghettare un determinato apporto scientifico tra l’Italia a cavallo dei due dopoguerra e il boom economico.

Nel successivo capitolo si è cercato invece di tracciare una, quanto più possibile soddisfacente ma naturalmente incompleta, sintesi del pensiero di Friedmann, al quale si è già parzialmente accennato. Particolarmente qualificanti per cogliere la sua funzione di “traduttore”, saranno infatti le sue analisi sul taylorismo e sulle natura di costante trasformazione del lavoro in fabbrica.

Nei capitoli finali, strettamente connessi, verranno affrontate preliminarmente le reazioni del sindacato italiano di fronte alla trasformazione, ambientale ed economica, delle condizioni di lavoro. Attraverso questo punto di osservazione si prenderà in esame il dibattito avvenuto sui temi della produttività, e specialmente delle Relazioni Umane in fabbrica, anche per la sua natura simbolica di novità per l’ambito italiano.

Successivamente, nel quarto e conclusivo capitolo, si cercherà di dar conto di come tutta una serie di riflessioni, provenienti sia dal piano marxista che da quello cristiano, dall’attitudine empirica delle scienze sociali anglo-americane come dalla tradizione “operaista” italiana, si siano sedimentate dando vita ad un’autonoma scuola sociologica italiana. Si vedrà come questa peraltro sia nata prevalentemente in un contesto extra-accademico, grazie anche alla predisposizione di molti giovani sociologi del dopoguerra, a guardare con interesse al mondo di fabbrica italiano e alle suggestioni metodologiche che venivano dall’estero (Francia e Stati Uniti su tutti).

Il fatto che la riflessione si arresti ai primi anni sessanta del secolo scorso non vorrà, per ciò stesso, suggerire l’esaurirsi della spinta propulsiva delle scienze sociali più in genere, e della sociologia in particolare, alle osservazione e comprensione delle problematiche lavorative. Tutt’altro: a questi anni di fioritura corrisponderanno successivi anni di raccolta, e poi, fisiologicamente, di messa in

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crisi di tutta una serie di strumenti concettuali affinati nel periodo preso in considerazione.

E però sarà propria di quegli anni una capacità di problematizzare, e di mettere in contatto realtà diverse, che merita nella sua complessità e differenza un’attenzione specifica. Quel che verrà dopo, considerazioni sulla società “post-industriale”, “post-fordista”, o persino “post-lavorativa”, sarà ovviamente collegato in linea genealogica al tronco di questa riflessione, ma avrà subito un décalage così profondo da porlo al di là degli intenti specifici di questa ricerca.

(9)

I. L’organizzazione scientifica del lavoro in Italia

1. La situazione prima della Grande Guerra: aumentare la produzione

Il dibattito nel mondo economico sui vantaggi e i limiti dell’introduzione del taylorismo, o più in generale della organizzazione scientifica del lavoro in Italia, seguì di pochi anni quello già avviato in Francia, Germania e negli altri paesi europei dotati di settori di industria avanzata intorno agli anni dieci del secolo scorso. Il tema non era però una novità assoluta ma anzi si andava ad innestare sulla base delle pregresse riflessioni sul sistema del cottimo e dell’incentivazione del lavoro; entrambe questioni già discusse e sviluppate ad uno stadio più avanzato negli Stati Uniti, patria e culla dei sistemi di razionalizzazione in fabbrica.

Ad esempio in Francia alcuni tra ingegneri ed economisti si ritenevano precorritori delle istanze razionalizzatrici del taylorismo, che si limitavano a riconoscere come “un metodo particolarmente efficace di stimolazione del rendimento operaio”3, minimizzandone ogni pretesa d’essere la rivoluzione copernicana negli studi sull’organizzazione del lavoro. L’aumento della produttività o anche la più generica organizzazione della fabbrica e dei suoi materiali erano d’altronde argomenti che sicuramente stimolavano l’interesse di chi vedeva, in un modo o in un altro, la propria vita scandita dal mondo delle fabbriche: ingegneri, imprenditori e operai. Andrebbe in effetti riconosciuta una differenza tra chi, soprattutto ingegneri, nell’accogliere il taylorismo e le sue implicazioni si lasciava sedurre dalla sua possibile valenza di filosofia morale e sociale4, e chi invece, specie tra il padronato, mostrava un’accoglienza meno direttamente interessata alle valenze ideologiche dell’OSL, ma più propensa a recepirne i vantaggi pratici dell’aumento della produttività e del rendimento degli operai. Risulta evidente come il differente peso assegnato di volta in volta a questi due aspetti della

3

S. Musso, “Il cottimo come razionalizzazione. Mutamenti organizzativi, conflittualità e

regolamentazione contrattuale del rapporto tra salario e rendimento nell’industria meccanica (1910-40)”, in “Torino fra liberalismo e fascismo”, a cura di U.Levra, N.Tranfaglia, Franco Angeli, Milano, 1987, p.124.

4

Basterebbero a tal proposito alcuni interventi registrabili sulla rivista “L’industria”, rivista di tecnica ed economica, edita a Milano in quegli anni.

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dottrina, che si potrebbero condensare in una questione sociale e una utilitaristica, peraltro indisgiungibili nel corpus teorico tayloriano, portasse a delle conseguenze notevoli nella divulgazione del fenomeno. Così come in Germania e in Francia, in Italia i divulgatori sembravano prediligere una visione pragmatica che negasse e superasse l’idea non conflittuale delle politiche industriali, così tipicamente tardo ottocentesca, ammettendo apertamente che l’introduzione dell’OSL avrebbe portato sindacati e mondo operaio su posizioni critiche quando non apertamente ostili. Così ad esempio Giannini, uno dei responsabili della traduzione delle opere di Taylor in Italia, potrà scetticamente osservare che l’introduzione del taylorismo non avrebbe in alcun modo eliminato la conflittualità dei lavoratori, avendo fissato scientificamente soltanto la quantità ottimale di lavoro per un operaio su una determinata macchina, ma non il suo corrispettivo scientifico in termini di retribuzione salariale5.

Quel che maggiormente pare stia a cuore a questo tipo di commentatori sono le possibilità operative che il sistema metterebbe in mano all’imprenditore (tramite gli uffici direttivi), concedendogli di stabilire in perfetta autonomia tempi e livelli di produzione senza che,né gli operai né forze esterne di mediazione, possano frapporsi nella determinazione dei loro livelli ottimali. Sarà questa, in un’altra prospettiva, una delle perniciosità maggiori che sindacalisti e lavoratori riscontreranno nelle pretese di scientificità dell’organizzazione scientifica del lavoro. Il sistema del salario a giornata non garantiva agli occhi degli imprenditori il raggiungimento di obiettivi accettabili, dal momento che una maggiore consapevolezza e renitenza alle direttive padronali costringeva i proprietari a rigidi e costosi sistemi di sorveglianza in fabbrica. E infatti, soprattutto nel quinquennio precedente lo scoppio della Grande Guerra, mentre il movimento operaio mostrava una maggiore consapevolezza nel tipo di rivendicazioni portate avanti (disciplina delle fabbriche, retribuzione, riconoscimento di sindacati), si assisteva ad una crescita quantitativa e qualitativa degli scioperi. Le politiche economiche segnavano

5

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perciò un calo degli investimenti con il maggior rendimento possibile dei capitali investiti, e dunque della forza lavoro impegnata sui macchinari.

2. Il cottimo e il suo ruolo nella dottrina Taylor

Per lungo tempo la paga a cottimo era stata la reazione diffusa a questo genere di problematiche, puntando ad un incremento delle prestazioni da conseguirsi tramite il pungolo del miglioramento salariale in base alla prestazione. Proprio in quegli anni però il sistema del cottimo cominciava a mostrare la corda, impelagando la proprietà in estenuanti conflittualità e trattative sulle tariffe concordate. I problemi non erano generati solo da quote calcolate al ribasso che generano la reazione operaia, ma anche da basi tariffarie troppo alte che portavano alla necessità di tagli e dunque di nuove proteste. Le suggestioni che l’OSL poneva alla risoluzione di questi problemi erano diverse e piuttosto affascinanti. Potevano essere interpretate, come si è detto, secondo un’ ottica morale-sociale o viste attraverso la lente del vantaggio d’autorità e produttività che garantivano a chi deteneva il compito di assegnare compiti e tempi; e cioè, in ultima istanza, alla proprietà.

L’abbandono del solo sistema del cottimo pareva ormai una questione ineludibile, essendosi consolidata un’aperta e diffusa ostilità operaia ogni qualvolta questo veniva introdotto in una qualunque azienda. D’altro canto attraverso il cottimo il padronato riusciva ad ottenere dei miglioramenti nella produzione mantenendo invariate o migliorando in maniera impercettibile le quote salariali: in alcuni casi giocando sul valore salariale medio di una determinata mansione (ignorato perlopiù da colui che è deputato a svolgerla), e la quota fissata di cottimo, in modo da avere una tariffa oraria complessivamente non così vantaggiosa, se non del tutto uguale per l’operaio; in altre situazioni sfruttando la composizione mista delle squadre di lavoratori (apprendisti, aiuti, provetti) facendo svolgere mansioni più qualificate a lavoratori con uno status inferiore senza però adeguare la retribuzione al lavoro svolto. Ancor più dei sindacati era proprio la base a respingere, con strategie di volta in volta adeguate alla situazione, l’imposizione del

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cottimo. A questa situazione faceva eco il dibattito sulle riviste specializzate sulle varie forme di cottimo applicabili (cottimo pieno, sistema Rowan, cottimo rallentato) e i benefici che ognuno dei vari sistemi portava con sé. Non volendo seguire nel dettaglio le differenti posizioni sostenute in questo confronto6, che ci allontanerebbero dallo scopo di questa trattazione, va rilevato come tra gli esperti fosse convinzione comune la necessità di rafforzare lo studio sui tempi esatti di lavoro alle macchine e la sua attenta pianificazione nell’ambito dell’officina, questione complementare se non preliminare per l’individuazione di un cottimo efficiente.

Sembra maggioritaria in questi primi anni di diffusione del taylorismo una visione lucidamente pragmatista, piuttosto disinteressata agli aspetti tecnocratici e filosofeggianti del taylorismo e alla politica di alti salari inserita in una trasformazione più diffusa e ampia della società che permea la dottrina originaria; il problema salariale è sempre considerato in relazione ai problemi contingenti della vita quotidiana in fabbrica, alla necessità di assegnare un premio agli aumenti di produttività dovuti ad una giudiziosa applicazione del sistema. La disciplina che doveva essere garantita con un dispendioso dispiego di personale di controllo, con un caotico sistema di pressioni e favoritismi in seno ai lavoratori da parte della dirigenza, era migliorabile proprio attraverso la determinazione di un sistema razionalizzato di calcolo di tempi e metodi di lavoro. Si perseguì la via del pragmatismo però non a causa di una malintesa comprensione dell’OSL quanto perché “alta scala di produzione, bassi costi unitari, alti salari e allargamento del mercato sono prospettive che avevano a che fare con la situazione economica generale a livello nazionale e internazionale, dai mercati alla struttura del tessuto produttivo, alle politiche economiche governative”7. Era invece del tutto interiorizzata dal ceto dirigente la possibilità ultima che l’OSL avrebbe garantito, e cioè quel completo trasferimento delle capacità tecniche e di controllo sul lavoro eseguito dagli operai alla direzione.

6

Efficacemente sintetizzate in S. Musso, op.cit., pp. 128 e sgg.

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L’esistenza del dibattito in Italia sulle riviste specializzate, e così anche in Germania o in Francia, non era ovviamente sintomo del fatto che il taylorismo fosse diffuso come metodo di razionalizzazione nelle fabbriche italiane. Dimenticare questo porterebbe al rischio di confondere una delle cause della penetrazione del taylorismo, guardando solo agli effetti già in atto a partire dalla sua concreta applicazione. L’interesse per la materia cominciava a circolare negli ambienti più specializzati (riviste,addetti ai lavori) e come visto anche le condizioni generali dell’economia presentavano delle caratteristiche che, retrospettivamente, potremmo definire favorevoli alla diffusione di un sistema organizzativo completo come quello proposto dall’ingegnere americano. Taylor si ritirò definitivamente dal lavoro soltanto nel 1911 per dedicarsi completamente alla divulgazione della sua dottrina negli ambienti industriali. Nel mondo imprenditoriale permaneva una certa prudenza nell’abbracciare in toto le indicazioni dell’OSL, complice probabilmente una più ristretta circolazione di quei principi rispetto all’ambiente degli ingegneri, ai quali quel tipo di argomentazioni risultava più familiare e d’immediato interesse. Il dibattito non si concentrava su nessun caso particolarmente vistoso di applicazione completa del sistema, e le aziende che decidevano di avvicinarlo erano chiaramente attente a valutare i rischi della sperimentazione di una novità, peraltro così articolata nei suoi meccanismi. Alcuni preferiranno una serie di interventi dal respiro meno ampio che però potevano garantire dei risultati immediatamente tangibili nel contrarre i salari ed espandere la produttività, non potendo contare sulla sicura affidabilità nell’immediato delle indicazioni di Taylor.

Il cottimo, seppur ancora limitato nella sua applicazione nel primo decennio del secolo8, è in ogni caso un sistema piuttosto diffuso tra la forza lavoro dell’industria, interessando la quasi totalità delle categorie di lavoratori impegnati nel siderurgico e molte maestranze delle industrie meccaniche seppure non gli specialisti, creando perciò stesso delle differenze di retribuzione e motivi di tensione sulle politiche salariali interne alle aziende. La prima fase del cottimo, una

8

S. Ortaggi, “Cottimo e produttività nell’industria italiana del primo novecento”, Rivista di storia contemporanea, 1, 1978.

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fase preistorica per così dire, dove “il prezzo per unità di lavoro veniva fissato ad occhio, in base alla semplice esperienza di lavori simili”, e che spesso portava ad inaspettate riduzioni della produttività dell’operaio, veniva abbandonata per metodi d’incentivazioni più attenti; questi partivano dalla “determinazione del tempo base, che definisce la possibilità di guadagno e i limiti di discrezionalità operaia nel ritmo di lavoro”, senza trascurare “la diversa natura dei sistemi prescelti *…+ in quanto incide sulla partecipazione relativa del salario e del profitto all’incremento di produzione indotto, con possibili ripercussioni sulle caratteristiche e sui ritmi della conflittualità e della contrattazione”9. In generale però il metodo più diffuso rimane quello del cottimo conteggiato come paga a pezzo, e rimangono sporadici i casi in cui i “sistemi americani” di cottimo vengono adottati dalle aziende italiane. Uno di questi sistemi è il cosiddetto Rowan, che prevede che l’utile generato dal cottimo si conteggi in base al tempo risparmiato nell’operazione, e integra la paga oraria nel calcolo del salario. La FIOM stessa, nel 1907, ne contratta l’applicazione con l’Itala, abbandonando come segnalato da Ortaggi una politica di lotta totale contro il cottimo, vedendo nelle sue applicazioni “americane” una via per garantire discrete garanzie ai lavoratori. Una strategia quest’ultima, che a detta di Musso penalizzerebbe gli operai, puntando tramite la riduzione dei tagli sui tempi, alla riduzione della conflittualità sul posto di lavoro, ed “ottenere il pieno riconoscimento padronale dell’organizzazione sindacale come controparte, unica rappresentante degli operai, così da esercitare voce in capitolo nella vita industriale del paese attraverso la gestione di uno dei fattori di produzione, la forza lavoro, col fine ultimo di migliorare la condizione operaia senza compromettere lo sviluppo industriale che prepara e affretta l’avvento del socialismo”10.

Pare superfluo aggiungere che il cottimo differenziale previsto da Taylor, spingendo sulla prestazione individuale (rallentata11 nel cottimo “americano” da un

9

S. Musso, “Il cottimo come razionalizzazione”, cit., p.146.

10 S. Musso, ivi., p.149. 11

Per “cottimo lineare” s’intende un sistema di retribuzione in cui all’aumentare della prestazione dell’operaio, dato un intervallo di tempo prestabilito, aumenta proporzionalmente il livello della retribuzione da corrispondergli; nel “cottimo rallentato”, che conoscerà diverse formulazioni, in

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premio non proporzionale al rendimento), viene additato dal sindacato come la peggiore delle vie perseguibili, così lanciato nella sua azione di reti di solidarietà operaie a cui dare rappresentanza. Simili considerazioni dovrebbero mostrare efficacemente come la questione dei cottimi, dei ritmi e dei tempi di lavoro, ben lungi dall’essere una marginale questione a latere nello svolgimento effettivo delle mansioni lavorative, si palesò fin dal principio come un campo di battaglia aperto ai vari soggetti protagonisti del lavoro industriale, terreno preparatorio di strategie e visioni sul lavoro che ebbero lunga eco per buona parte del secolo.

Persino un’azienda come la FIAT, quando a partire dal lancio della prima utilitaria, la “Zero”(1910) e di autocarri e altri prodotti seriali dovette introdurre sistemi di razionalizzazione e lavorazione in linea più avanzati, presentava ancora un sistema di cottimo lineare, con un prezzo del lavoro stabilito rispetto alla paga oraria percepita dall’operaio, che otterrà in percentuale proporzionale riuscendo a terminare le sue funzioni in un tempo minore rispetto al tempo massimo assegnatoli. Solo nel 1916 all’interno dell’azienda verrà istituito un “Ufficio tempi e metodi”, in linea con i dettami tayloristi di supervisione dirigenziale delle pratiche di misurazione e assegnazione dei tempi per ciascun macchinario. Negli anni a cavallo tra il primo e il secondo decennio del secolo il padronato si distingue per una politica volta al tentativo di ridurre le tariffe, avversata dagli operai e da leggere proprio nell’intreccio tra tempo di lavoro e sua esecuzione: l’introduzione del sabato inglese diminuì le ore lavorative settimanali ma le tariffe di cottimo non furono conseguentemente abbassate, costringendo “i cottimisti ad un più intenso lavoro se non volevano vedersi ridotto, con l’orario, il guadagno settimanale”12. La necessità di pervenire ad una maggiore produttività, mista alla volontà di mantenere bassa la politica salariale, è perseguita anche in un gruppo industriale piuttosto moderno per l’epoca, com’era la FIAT, legando gli aumenti di salario ad un’intensificazione dei ritmi di lavoro. Come si vede, siamo ancora lontani dalla visione armoniosa e precisa dei rapporti tra macchinari, tempi e operai che il

misura sicuramente maggiore di quello lineare, quel che l’operaio percepisce aumenta in maniera meno che proporzionale rispetto all’incremento del rendimento.

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taylorismo pretende di portare avanti, pur maturando le problematiche che saranno il terreno di coltura propizio all’avvento di quel sistema.

Durante gli anni della guerra la necessità delle aziende di avere manodopera, dovuta sia allo sforzo bellico che alla distribuzione di commesse statali, portò all’assunzione di donne e lavoratori molto giovani che contribuirono, almeno in parte, ad una nuova composizione della classe operaia. I maggiori impianti industriali vissero uno stato di mobilitazione, dovendo fornire materiali a getto continuo per lo sforzo bellico, in una vorace guerra di logoramento che richiedeva continui approvvigionamenti di tessuti, proiettili, armi e quant’altro. Fu istituita una commissione per la Mobilitazione Industriale, con il compito di coordinare le istanze che venivano dai diversi settori impegnati nello sforzo bellico, e l’estensione di alcune normative sui rapporti di lavoro. Gli operai impegnati in settori decisivi (trasporti, armi, vettovagliamenti) erano sottoposti ad una disciplina di tipo militare, e ad un aumento incontrollato degli straordinari (in alcuni casi superarono le 70 ore settimanali) e una restrizione delle possibilità di contestazione, che investì, nelle aziende di valore strategico per l’esercito, anche il diritto di sciopero. La risposta del sindacato fu tutto sommato accondiscendente, optando per una politica né d’adesione né di sabotaggio. Anche gli uffici, lasciati vacanti a causa dei molti richiamati al fronte, si tramutarono in un’occasione di lavoro per le donne, appartenenti a quella “piccola borghesia penalizzata economicamente dai richiami alle armi”13.

3. Tra il dopoguerra e il fascismo

Furono gli anni immediatamente successivi alla guerra però quelli fondamentali per la realizzazione dei primi reali progressi nella messa in pratica di sistemi di organizzazione scientifica del lavoro; la FIOM decise di recuperare il terreno perduto sulle paghe orarie tralasciando la strategia rivendicativa sul solo cottimo, che non ottenne i risultati sperati soprattutto per quanto riguardava gli adeguamenti dei salari al costo della vita.

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Si lotta e si va verso l’accordo per le otto ore, “conquistate il 20 Febbraio 1919 senza un’ora di sciopero, in cambio dell’abbandono da parte sindacale di ogni pregiudiziale verso la sperimentazione dei metodi scientifici di organizzazione del lavoro”14. L’osl rischiava di essere, agli occhi dei sindacalisti più avveduti, uno strumento che permetteva al padronato di sottrarre controllo sindacale proprio nei luoghi dove la produzione si svolgeva, ma accanto a questa e altre storture sbandierate sul piano teorico, presentava la possibilità (insita più nell’evoluzione tecnologica dei macchinari che nel metodo stesso) di ampliare gli spazi di libertà dal lavoro, diminuire i tempi da trascorrere in officina e garantire, almeno stando a sentire il suo creatore, la diffusione di un sistema di consumi più prospero e gradatamente accessibile a tutti. Le posizioni prevalenti sembravano essere quelle di tipo valutativo, per cui i sistemi di organizzazione del lavoro non erano avversati apertamente, ammettendo la possibilità che portassero a minori sforzi fisici e ad un aumento salariale diffuso. La contestazione delle direttive assimilabili all’osl rimaneva materia di singoli gruppi d’operai e maestranze, di certo non coordinata da una campagna nazionale. Anche quelli immediatamente successivi al dopoguerra rimanevano anni di microconflittualità diffusa; la conquista delle otto ore era ovviamente sentita come una vittoria, ma le nuove norme sui salari (che prevedevano la regolamentazione del cottimo e una indicazione ei minimi salariali) permanevano piene di ambiguità, il cui esito fu dettato più dai rapporti di forza all’interno delle varie imprese tra datori di lavoro e operai, che non da un’applicazione standard degli accordi.

3.1 Cottimo collettivo e sistema “Beadux”

Il primo cottimo collettivo venne applicato alla sezione Automobili della FIAT agli inizi del 1921, e prevedeva un tetto massimo di ore per la produzione di un’autovettura e la possibilità di aumentare le paghe orarie nel caso il lavoro fosse eseguito in un tempo inferiore. Per l’azienda era l’occasione di ridurre quei dislivelli, verso il basso e verso l’alto, presentati da certi cottimisti; per il sindacato si

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prospettava la possibilità di controllare la produttività e la mano d’opera su ogni reparto. Tutto ciò non poteva che avvenire in una “dimensione di collaborazione sindacale e responsabilizzazione operaia insita nel sistema *…+ (e che) consentiva di individuare gli obiettivi che la FIAT perseguiva col cottimo collettivo”15: in particolare la possibilità di gestire la grandezza complessiva dei salari in base sia al rendimento che alle richieste reali di mercato. Ciò che per mezzo del cottimo collettivo ci si proponeva di ottenere, era dunque una sorveglianza interna alle stesse squadre di operai, dovendo raggiungere degli obiettivi temporali e dovendolo fare tutti insieme. In realtà, la grande massa di operai coinvolti non permetteva un’efficiente e coordinato controllo delle operazioni. Il pregio principale, per la proprietà, si rivelò dunque il vantaggio costituito dalla prevedibilità dell’andamento della spesa salariale, utile in un momento di crisi come quello dei primi anni ’20.

Il cottimo collettivo non va però considerato un punto di arrivo: “che da tempo tra gli industriali dell’auto si guardasse con ammirazione al modello Ford della fabbrica come meccanismo automatico cui il ritmo produttivo dell’operaio deve adeguarsi, risultando superfluo lo stimolo del cottimo, è indubitabile. Ma è altrettanto certo che il Lingotto dei primi anni ’20 era tutt’altro che un complesso sperimentato, bilanciato, e coordinato di fasi di lavorazione, essendo piuttosto un’organizzazione in via di rapido perfezionamento”16. E si parla di uno degli stabilimenti italiani all’avanguardia per tecnologie e conoscenze acquisite.

Nel 1926 il sistema di cottimo collettivo veniva abbandonato in concomitanza con il completamento delle linee di montaggio meccanizzate, per tornare al cottimo individuale. L’anno dopo verrà fondata la Società Italiana Bedaux, che si proponeva di estendere in Italia i metodi di cronometraggio e analisi dei tempi propugnati dall’omonimo ingegnere francese. Tra i suoi fondatori vanno ricordati Agnelli e Pirelli, evidente segno di come la grande industria italiana sentiva oramai il bisogno di importare in Italia i metodi di organizzazione del lavoro così diffusi negli Stati Uniti. Se le prime esperienze di taylorismo furono sperimentate

15

Ibid., p.165.

16

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sparutamente alla vigilia della prima guerra mondiale, è con la diffusione del sistema Bedaux e, come vedremo, con la fondazione dell’ENIOS (Ente nazionale per l’organizzazione scientifica del lavoro) che si compiono i primi veri, decisi passi avanti per avviare l’industria italiana sulla strada della razionalizzazione di stampo americano. Le novità introdotte, e ancora largamente inesplorate, dalla catena di montaggio non potevano funzionare in assenza di quell’analisi di tempi e usi dei macchinari che Taylor aveva fornito con la sua teoria; la complementarità dei due sistemi è, potremmo dire, ineludibile.

Il sistema Bedaux, che prende il nome dal suo fondatore, l’ingegnere parigino Charles Eugène Bedaux, consisteva in un metodo di campionatura del lavoro, ottenuto tramite una preventiva misurazione dell’operaio in ogni singola operazione. Successivamente si stabiliva la quantità di lavoro erogabile in quel lasso di tempo e si fissava un tempo standard sul quale determinare la paga base. Il carico di lavoro sostenibile in un’ora era definito Punto Bedaux, e consentiva di misurare gli aumenti di produttività con percentuali piuttosto chiare e controllabili per gli imprenditori. Ovviamente perché un sistema di tal fatta raggiungesse i suoi scopi, era necessaria la costituzione di un ufficio d’analisi tempi, incaricato di stabilire tempi e metodi, riorganizzare ad un livello più alto i compiti dei capi officina, e soprattutto di incidere sugli spazi di autonomia decisionale dell’operaio nel gestire il suo approccio ai macchinari. Per farlo occorreva altresì uniformare al controllo dei tecnici gli utensili utilizzati.

Quel che i promotori del Bedaux tendevano a sottolineare, com’è d’uso in questi casi e sulla scorta dei metodi propagandistici adottati anche da Taylor ed epigoni, era la scientificità del metodo di misurazione, che lungi dall’essere un semplice metodo migliorativo per il cottimo, sarebbe riuscito a scoprire un’unità di misura per il lavoro umano (il Bedaux per l’appunto, abbreviato bx). Un’unità bx è la misura normale di lavoro ottenibile da qualsivoglia lavoratore nello spazio di sessanta secondi. Una notevole pretesa scientifica e ordinatrice si converrà. “Il Bedaux”, contrariamente ad altri sistemi “pretende di limitare il giudizio soggettivo

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alla sola velocità (e non anche allo sforzo operaio): oltre alla velocità, si apprezza lo sforzo e si fissa una percentuale di riposo in modo che l’operaio possa superare lo sforzo senza affaticamento per tutta la giornata di lavoro; ora, il riposo integrativo viene fissato secondo apposite tabelle studiate dalla Società Bedaux *…+ (composte da) un’ampia serie di dati considerati di valore universale, che vengono applicati ai diversi casi pratici”17.

La questione topica da prendere in considerazione trattando dell’introduzione del sistema Bedaux, non è però la validità accertata delle pretese novità che il sistema sosteneva d’incorporare. L’idea di stabilire un’unità scientifica di misura del lavoro umano, così come il controllo comparato delle variabili di velocità e sforzo, non si allontanavano affatto dalle medesime pretese di calcolo pseudoscientifico che già il sistema Taylor aveva sdoganato. La stessa politica di cottimo “esosa” da esso propugnata, non aveva poi delle ricadute così significative nelle retribuzioni reali, che erano irriducibili a questo solo fattore18. Quel che alla fine si chiedeva, e appariva appetibile nel Bedaux così come in ogni altra teoria organizzativa del lavoro coeva, era la creazione di un altro tempo in fabbrica, diverso da quello dell’operaio o dell’imprevisto. La parcellizzazione e lo studio dei movimenti costringevano (in qualche maniera) l’operaio dentro uno schema fissato ad un livello più alto del suo, al quale non si voleva avesse accesso, donando alla direzione la possibilità di plasmare secondo le sue esigenze (che di solito corrispondevano ad un aumento della produzione e dei profitti) le decisioni sul come, materialmente, eseguire il lavoro. Il dirigente, che non sta nell’officina, può adesso impiantarvi un suo simulacro che dia in continuazione all’operaio l’indicazione della direzione in cui le cose devono andare. Seppure la vita della

17 S. Musso, “La gestione della forza lavoro sotto il fascismo-Razionalizzazione e contrattazione

collettiva nell’industria metallurgica torinese”, Franco Angeli, Milano 1987, pp.40-41.

18

Per quanto il sistema Bedaux fosse un sistema formalmente conveniente per i cottimisti in quanto, secondo una classificazione del Bureau International du Travail, le retribuzioni variano

proporzionalmente meno del rendimento, Duccio Bigazzi fa notare come anche in questo caso “come in ogni sistema di incentivazione, *…+ la forma non è significativa di per sé (ciò che conta effettivamente è la determinazione dei tempi, oltre che i livelli dei salari base, la valutazione delle qualifiche, ecc.). Del resto, il Bedaux, in forma mascherata e sulla base della proporzionalità (100%) continuò ad essere largamente applicato ben oltre il 1934”in D. Bigazzi,”Organizzazione del lavoro nella crisi del fascismo”, Studi Storici, 1978, p.369.

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società italiana Bedaux sarà relativamente breve (già nel 1934 verrà chiusa, per ricostituirsi solo dopo la guerra sotto il nome di Scmat, una filiale della Bedaux francese), grande fu la spinta propulsiva che diede alla diffusione su scala nazionale della dottrina razionalizzatrice. Circolando nei giusti ambienti ristretti, ed essendo propugnato da alcuni degli industriali più importanti sul territorio nazionale, “il sistema Bedaux svolgeva così in Italia, su scala ridotta, la stessa funzione svolta negli Stati Uniti dal Taylorismo come cemento ideologico per uno strato non trascurabile di ingegneri e tecnici di fabbrica”19.

3.2 Fondazione e ruolo dell’Enios

Ruolo non meno trascurabile lo svolse la fondazione della società Enios da parte della Confindustria, costituitasi appena un anno prima della Società Italiana Bedaux, nel 1926, che puntava dichiaratamente a diffondere i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro nella piccola e media industria, e dunque da una parte a degli obiettivi di tipo industriale ed organizzativo, e dall’altra a inserire un organo privato negli apparati decisionali in materia economica del regime fascista. Già a partire dalla crisi del ’29 questo ruolo venne ridimensionato, limitando il ruolo dell’Enios a quello di un semplice ufficio per la propaganda e divulgazione dell’Osl. La classe proprietaria doveva insomma cominciare a riflettere, e a varare degli strumenti d’azione, sulle modificazioni che il processo produttivo stava vivendo in quel momento. Non furono dunque iniziative di tipo burocratico o d’apparato a spingere in questa direzione, ma la mutata consapevolezza delle questioni che l’industria, e i progressi tecnologici, stavano imponendo ai suoi dirigenti.

All’interno del comitato direttivo, guidato da Francesco Mauro affiancato da una serie di manager legati ad alcune delle aziende trainanti e più all’avanguardia tecnologica in Italia (come Ansaldo o Alfa Romeo), si incontravano alcune aziende private impegnate nell’innovazione e la ricerca di nuovi modi di produrre e i dirigenti delle aziende controllate dallo Stato impegnate nel settore

19

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produttivo (ferrovie dello stato, tabacchi e altri generi sottoposti a monopolio ecc.). Lo scenario che si trovava davanti chi avesse voluto dare una scorsa al panorama industriale italiano negli anni venti, era di certo non quello di un campo favorevole per la penetrazione complessiva dei metodi di razionalizzazione e organizzazione del lavoro. Convivevano in maniera disomogenea isole di sperimentazione, dove i moderni metodi venivano considerati con interesse (più che altro negli impianti di grandi dimensioni), e altre dove invece persisteva una certa indifferenza, quando non aperta reticenza. Nella fase di sperimentazione in cui ci si trovava, era piuttosto scontato che ogni azienda cercasse una propria via alla razionalizzazione del lavoro, adeguando dei principi generali alle necessità del caso, senza doverne ricalcare passo dopo passo ogni indicazione. Alcune sfide che l’organizzazione scientifica del lavoro poneva infatti non riguardavano, se non di riflesso, la gestione dei tempi in officina o le movenze ideali delle maestranze; si trattava innanzitutto di adeguare i materiali e i tipi utilizzati, in modo da poter avere una migliore capacità di connessione e trasmissione tra i vari settori.

Non sembra inutile sottolineare quanto questo possa essere imprescindibile in circostanze belliche, quando le forniture richieste vengono sollecitate con cadenze più ravvicinate che in stato di normalità. Leghe preposte a questo compito si formavano già all’indomani della Grande Guerra in Germania e in Gran Bretagna; in Italia, con un lustro circa di ritardo, il comitato generale per l’unificazione dell’industria meccanica redigeva una classificazione standard per unificare i materiali siderurgici e uno schema di lettura ed interpretazione degli stessi. Non erano dettagli di poco conto perché ci fossero le condizioni sufficienti perché un certo tipo di pratiche razionalizzatrici potessero prendere piede: “la normalizzazione della produzione (che si accomunava alla lavorazione in serie) permetteva *…+ di intensificare il lavoro e di aumentare gli utili attraverso un progressivo adattamento della manodopera alla lavorazione di uno stesso articolo”. E ancora: “una simile organizzazione standardizzata diventa possibile solo con la fusione e l’accordo di varie ditte, che tutte insieme possano produrre vari articoli, così da costituire un discreto campionario e ripartirsi la produzione fra loro, così da

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avere singolarmente una produzione standardizzata”20. Chiaramente non tutte le imprese si trovavano nella posizione di poter assorbire ed elaborare, anche semplicemente per ragioni produttive o creditizie, questo genere di mentalità. Non si era di certo arrivati alla lavorazione in linea fordista, che con il suo incedere stabiliva i tempi senza possibilità di appello; era invece una fase intermedia, caratterizzata da una discreta diffusione delle macchine per la riproduzione ripetitiva. Una sorta di momento precedente la razionalizzazione vera e propria.

In ogni caso anche per il successivo decennio non è che il taylorismo, o qualunque sua filiazione, stesse conquistando il panorama industriale italiano con un passo fermo ed inarrestabile. L’Enios fino agli anni della guerra lavorò per lo più all’ombra delle iniziative del regime, rinunciando, per mancanza di forze e di condizioni idonee, a imporre al dibattitto le esigenze dell’introduzione di un metodo di organizzazione del lavoro nelle fabbriche. Fu la guerra, come spesso in questi casi, a far venire al pettine certi nodi; fu la guerra, com’è altrettanto usuale, a fornire le motivazioni e la propulsione necessarie perché si compisse questo passaggio.

La crescita della produzione in Italia era stata rallentata dalla mancanza di materie prime, che ovviamente con la guerra fece sentire la sua morsa in modo persino più acuto, nonché dal mancato adeguamento di macchinari ed impianti ad una produzione di tipo moderno. In questo caso, le difficoltà furono superate perfezionando le procedure di manutenzione (allungando dunque il ciclo vita delle macchine utilizzate), e imponendo una riorganizzazione degli impianti. La variabile però più facilmente controllabile per i padroni però rimaneva la manodopera, le cui mansioni potevano essere più direttamente modificate in senso produttivista senza dover ricorrere ad interventi strutturali più capillari. Come durante la prima guerra mondiale, il padronato spingeva per una militarizzazione della vita di fabbrica, imponendo disciplina e regole mutuate dai codici militari. La medesima pressione era rivolta agli accordi sulla durata del lavoro, meno prolungata che in altri paesi, superando di continuo gli orari settimanali previsti dai precedenti accordi con i

20

G. Sapelli, “Organizzazione, lavoro e innovazione nell’Italia fra le due guerre”, Rosenberg & Sellier, Torino 1978, pp. 61-62.

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sindacati. Inoltre la manodopera specializzata era latitante, per la maggior parte impegnata al fronte, senza alcuna scorta di lavoratori coatti da utilizzare per riempire i buchi lasciati dai lavoratori combattenti (come poteva essere il caso della Germania). Non da ultimo, le sempre più carenti scorte alimentari non garantivano l’approvvigionamento necessario agli operai, e si necessitava un’attenzione specifica al problema del fabbisogno per un corpo impegnato in una mansione. Come si potrà vedere, alcune di queste problematiche sono le medesime cui s’impegna a mettere mano il taylorismo, seppur rese più impellenti ed ingigantite dalla lente deformante della guerra. Adriano Olivetti, imprenditore particolarmente attento a queste necessità d’innovazione, interverrà sul tema in maniera piuttosto chiara argomentando in favore di un “Laboratorio di ricerche statale” che si occupasse dello “studio del cronometraggio, (di) studi sopra la fatica nel lavoro manuale, (del)lo studio dei cicli di lavorazione, *…+ (del)la progettazione degli impianti industriali e lo studio dei sistemi dei costi di produzione nell’industria meccanica”21. Si comprendeva come l’evoluzione continua di macchinari e metodi portava a dover riorganizzare di pari passo la manodopera, e questo poteva essere fatto soltanto tramite una coordinazione tra aziende sui metodi di rilevazione dei tempi, degli stipendi ecc. Una standardizzazione armonizzata.

3.3 Il rilancio dell’ente con la fine del conflitto

E’ nel 1942 che l’attività dell’Enios viene rilanciata22, con la creazione di un “Comitato tecnico” che, lavorando anche in sintonia con alcuni istituti di natura simile in Germania, si occupò di costituire quattro consulte tecniche per lo studio di diversi problemi inerenti l’organizzazione: ramo tecnico, amministrativo, lavoro umano e propaganda. La partecipazione ai vari comitati è eccezionalmente diffusa, potendo contare su un rappresentate delegato da tutte le maggiori aziende dell’epoca. Se i piani d’azione immaginati erano il linea con quel che si è detto

21

A .Olivetti, “Funzioni di un laboratorio statale di ricerca nel campo dell’industria meccanica”, Tecnica ed organizzazione, 1938, 2.

22

Probabilmente troppo tardi rispetto alla possibilità d’incidere realmente nell’economia di guerra. D’altra parte non è poi immaginabile che la “semplice” diffusione di metodi scientifici di

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essere il lavoro preliminare per aprire la strada ad un osl efficiente (standardizzazione, analisi dei cicli produttive, unificazione e circolazione di tabelle sui tempi a livello interaziendale), è più interessante vedere quali effettivi cambiamenti si trovarono di fonte questi innovatori. “La diffusione di nuove tecnologie richiedeva pur sempre forza-lavoro specializzata e qualificata; *…+ la produzione su larga scala, dove attuata, metteva d’altra parte in crisi la distinzione tradizionale tra qualificati e non qualificati, *…+ (e infine) un esteso uso del cottimo, e il contemporaneo blocco dei salari di base, avevano favorito gli operai delle categorie inferiori a danno degli operai specializzati”23, mettendo tensione anche nelle sedimentate gerarchie di fabbrica. Le misure adeguate ad una trasformazione così profonda non erano pertanto dispiegabili per intero in periodo di guerra, ma si ricorse ad alcune idee che di certo portavano il segno di un ammodernamento “americano” del sistema di fabbrica italiano24.

Nel 1943 in seno all’Enios si registravano alcuni cambiamenti di uomini(fu nominato ai vertici Riccardo Del Giudice, dirigente dei sindacati fascisti, che sostituiva Vanzetti che ne era stato il direttore fino a quel momento) e d’indirizzo; venivano riorganizzate delle commissioni su aspetti specifici e si metteva mano a dei progetti di riorganizzazione che investissero il cuore della produzione, dalle macchine ai lavoratori. E’ bene ricordare che tutto ciò avveniva in concomitanza con un progressivo aumento della conflittualità operaia, che sarebbe sfociata in una serie di scioperi. Ma pare proprio che le commissioni e l’intero ente lavorassero con un distacco crescente dalle necessità e i cambiamenti della realtà di fabbrica, cosa ancora più sorprendente se si considera che molti di quei dirigenti lavoravano a stretto contatto, per via delle loro mansioni, con le varie maestranze. Inoltre il

23

D. Bigazzi,”Organizzazione del lavoro nella crisi del fascismo”, Studi Storici, 1978, pp.376-77.

24 L’idea ad esempio che gli operai dovessero essere divisi in gruppi di abilità secondo le mansioni a

cui sono preposti, per poi ricevere una qualifica in base ad una serie di criteri che variavano dall’abilità mostrata all’attenzione prestata nello svolgimento del lavoro. Sono le prime, basilari elaborazioni di job evaluation in Italia, che Bigazzi fa risalire appunto al periodo della guerra in polemica con gli autori italiani che si occuparono di management fissandon la nascita ai primi anni ’50, cfr. D. Bigazzi,”Organizzazione del lavoro nella crisi del fascismo”, Studi Storici, 1978.

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lavoro teorico sviluppato dai dirigenti più impegnati nell’ammodernamento (uno fra tutti Ugo Gobbato, direttore Alfa Romeo) era, nella politica economica del regime, subordinato alle necessità e al sistema di potere che gravitava intorno all’IRI. Se in determinati settori, come la siderurgia, le attività di coordinamento fra le aziende potevano essere accettabili, in altri settori gli interessi della grande industria o dei corporativisti erano decisamente contrastanti con quelli dei razionalizzatori. Questi si muovevano in posizione di chiara subalternità “rispetto agli stessi vertici IRI e l’isolamento in cui si esauriva la loro iniziativa, esemplifica fin troppo accentuatamente il peso politico limitato, anche in questi anni del tardo fascismo, dello strato emergente dei managers”25. Il regime stesso trovava forza in questo apparato statale, al quale era legato da un filo saldo, e non poteva che lasciarsene condizionare nelle sue attività amministrative e gestionali. Più che le fantasiose pianificazioni di stampo americanista, certuni propugnavano una mano più salda nel gestire le intemperanze dei lavoratori, e un aumento del controllo sul lavoro. “L’intreccio tra arretratezza e sviluppo limitava fortemente i propositi tecnocratici delle élite strette attorno all’Enios e alle più dinamiche imprese industriali”26.

Con l’approssimarsi della fine del regime, e con la costituzione della repubblica di Salò, l’Enios smarrì la sua missione e l’intera struttura non riuscì a sopravvivere al cambiamento; in quei giorni disperati e drammatici le priorità spingevano ormai in tutt’altra direzione, e nessuno pareva interessato a coltivare, almeno per il momento, un progetto senza dubbio significativo ma con obiettivi a media o lunga gittata, quali erano quelli che si proponeva l’Ente nazionale per l’organizzazione scientifica del lavoro.

Ciò non significa che il bagaglio d’esperienza accumulato dall’Enios, in particolar modo con la presa di coscienza maturata durante la guerra della necessità di una modernizzazione meno ideologica e più efficiente, si fosse del tutto perduto. Se i dirigenti più in vista erano scomparsi dalla scena, molti tra i tecnici che avevano

25

Ibid. p.387.

26

G. Sapelli, “Organizzazione, lavoro e innovazione nell’Italia fra le due guerre”, Rosenberg & Sellier, Torino 1978, pp. 110-11.

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lavorato a quei progetti mantenevano le loro posizioni garantendo la continuità dell’operazione. La caduta del regime non minava affatto le fondamenta di un impianto che si proponeva in fin dei conti una ristrutturazione dei principi del lavoro nell’ottica di una produzione sempre più massificata. Veniva fondata l’Eniol (Ente nazionale italiano per l’organizzazione del lavoro) dove trovavano sistemazione molti degli uomini impegnati nel precedente progetto. “Dietro ad una facciata ora apertamente americanista, *…+ si iniziava a riallacciare rapporti , a operare i necessari aggiornamenti, ricostituire gli apparati ideologici (molte riviste ed enti di dogma razionalizzatore appariranno nei primi anni cinquanta): alla soglia degli anni ’50 tutte le condizioni erano ormai definite per l’effettiva affermazione in gran stile dell’organizzazione scientifica”27. I gruppi del capitale finanziario ed economico più legati al capitale internazionale (come Agnelli o Pirelli), o che per la loro intrinseca forza sarebbero riusciti a collocarsi sul mercato post bellico, tendevano a scollarsi dal regime e non accompagnarlo nella sua miserevole fine. Diversamente le aziende che avevano legato le proprie fortune al corporativismo, e dunque alla fedeltà al regime, cercarono di mantenerne in piedi la struttura, magari con generici appelli alla “solidarietà di categoria”28. Non si consumò però una vera e propria frattura, ma anzi gli interessi si ricomposero con una certa spontaneità dopo l’otto settembre, in nome della “continuità del potere capitalistico”.

4 Agostino Gemelli, la psicotecnica del lavoro e la dottrina sociale della chiesa

A partire dal Marzo-Aprile del 1943 in una delle commissioni dell’Enios, quella che si occupava dei problemi dell’organizzazione del lavoro umano, diretta da un sindacalista fascista, Rosario Massimino, peraltro piuttosto accomodante con gli interessi dei gruppi industriali, s’inserì un francescano milanese studioso dei problemi del lavoro, padre Agostino Gemelli. Il suo contributo di studioso era rivolto alle questioni concernenti la psico-fisiologia del lavoro, campo di studi che nell’Italia

27

Ibid., p.385.

28

R. Battaglia, “Un aspetto inedito della crisi del ’43: l’atteggiamento di alcuni gruppi del capitale finanziario”, Il movimento di liberazione in Italia, 1955, 34.

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di quegli anni risultava in una collocazione piuttosto avanguardista. Gemelli, che fu anche il fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, riveste un ruolo particolarmente significativo negli studi sociologi ed empirici sul lavoro in Italia. Di sicuro fu l’esponente di maggior rilievo della psicotecnica italiana, avendo cominciato i suoi studi sperimentali fin dalla prima guerra mondiale, ed articolando la sua riflessione in una dialettica tra il piano empirico e la dottrina sociale di stampo cattolico piuttosto originale. Negli anni di lavoro nella commissione dell’Enios, l’obiettivo polemico di Gemelli fu principalmente l’atteggiamento positivista e di supina accettazione dell’empiria, da parte della psicotecnica di laboratorio italiana. D’altronde l’uomo che aveva sostituito all’Enios, Mario Ponzo, ne era uno dei più esemplari esponenti. Il salto in avanti che si proponeva di compiere era la saldatura tra un approccio misurativo, nell’efficacia del quale credeva ma le cui conclusioni andavano soppesate e vagliate in maniera critica, e un’idea armonica di funzionamento della società in cui il lavoro potesse fare al contempo da vettore, per l’inserimento sociale dell’individuo, e forza motrice per i fini complessivi del corpo societario.

Negli interventi di Gemelli più o meno coevi agli anni in Enios fioriscono espressioni quali “la gioia del lavoro” o il “dovere sociale”, insieme a proposti di “ricomposizione degli interessi, in apparenza contrastanti, dei datori di lavoro e dei lavoratori”. E la ricomposizione di questa frattura “innaturale” sarà anche uno dei punti cardini dell’utopia riformatrice che l’osl di matrice tayloristica coverà in grembo, indissociabile per il raggiungimento complessivo degli obiettivi che il suo estensore si era prefigurato. Il lavoratore dovrà essere studiato nel complesso della sua vita, estrapolandolo dalla dimensione ridotta e riduttiva dell’officina, ma osservato fino a casa per coglierne gli aspetti della personalità che lo rendono più o meno adatto a certe mansioni. Accanto a ciò non veniva in alcun modo trascurato l’intervento preventivo di scomposizione e frazionamento della forza-lavoro, in un esplicito richiamarsi dello studioso ai lavori dei razionalizzatori tedeschi sulla

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valutazione del lavoro e dei salari29. Seppur questo tipo di idee si sposassero perfettamente con l’adesione ai programmi sociali del fascismo, “alla fine della guerra, il capovolgimento di posizione di Gemelli era solo apparente: gli stessi strumenti ideologici, emendati dalle formulazioni più spinte, potevano essere utilizzati, e con successo, ancora per molti anni”30.

La psicotecnica come disciplina a sé, conosceva negli anni ’30 in Italia un periodo di discreta salute, e oltre ai lavori di Gemelli, che destavano interesse anche fuori dall’Italia31, fioriva una scuola (di indirizzo positivista) a Torino, l’istituto “Mario Fossati”. Tra le problematiche che uno psicotecnico avrebbe dovuto affrontare ed analizzare, secondo i precetti della scuola, c’erano i più svariati tipi di interventi connessi al lavoro: dalla formazione scolastica all’attitudine personale, dalle condizioni di lavoro per ogni settore alla temperanza dimostrata dai candidati. Il tutto in stretta collaborazione con le esigenze delle imprese, per migliorare la produttività delle quali si intendeva offrire i propri servigi. Da questo punto di vista, e ancor più della psicotecnica gemelliana, i quadri che si formavano erano integrati completamente nell’industria che pretendevano di valutare; ne erano, per dirla con un’espressione prosaica, il grillo parlante. Gli psicotecnici, tramite la mediazione di altri enti, non da ultimo l’Enios, dovevano prendersi in carico il compito di selezionare la classe lavoratrice, e farlo al meglio. Essendo figlia della medesima temperie culturale che aveva prodotto l’Enios, la psicotecnica italiana si trovò impelagata nelle sue medesime pastoie, almeno durante l’epoca del regime, che ne impedirono il pieno successo e la vasta diffusione. Giulio Sapelli fa notare come gli interventi degli psicotecnici, pur godendo sui giornali specialistici anche di una buona pubblicità da parte degli imprenditori che ne stavano saggiando i metodi, si limitavano ad aprire un fronte col mondo industriale. Gli interventi sulle riviste “assumono un significato precipuamente divulgativo, di individuazione di quelli che sono i punti salienti della questione, e –non riflettendo esperienze industriali

29

Cfr. A. Gemelli, “La valutazione del fattore umano nelle applicazioni della psicologia e della fisiologia ai problemi del lavoro, Rivista internazionale di scienze sociali, Novembre 1942.

30

D. Bigazzi,”Organizzazione del lavoro nella crisi del fascismo”, Studi Storici, 1978, pp.384.

31

Alcuni articoli di Gemelli, in particolar modo ricerche sull’abilità manuale, trovavano spazio in riviste francesi come il “Journal de psychologie” o “Revue de la Science du Travail”.

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pratiche- sono più che altro compendi storici e informativi sulle esperienze estere”32.

Tornando a Gemelli, e al suo istituto milanese, la sua attività risulta essere più incisiva in quanto, attraverso la sua autorevolezza e la sua visione sociale, la psicotecnica “diventa reale nella società italiana, e non solo di quel periodo. Egli ha una funzione nettamente politica in quanto si rivela il mediatore eclettico tra un certo tipo di cultura cattolica (scientifico-conservatrice) da un lato, e il capitale nel momento in cui passa il fascismo, dall’altro”33. La medesima continuità, quasi come in uno specchio, stava tra le esperienze di studi compiute dal frate negli anni ’30 (con un’attenzione privilegiata al tema dell’apprendimento operaio) e la nascente sociologia del lavoro italiana negli anni cinquanta.

In un suo lavoro del 1945, L’operaio nell’industria moderna, Gemelli individua quattro metodi per approcciarsi alla questione sociale, portatori di diverse soluzioni. Il primo, di tipo economico, s’interessa del conflitto tra capitale e lavoro, e della persistente iniqua distribuzione che il sistema economico opera nel retribuire il lavoro. Pertanto l’economia non si prefigge di modificare i rapporti esistenti (o perlomeno, lo fa con cauto scetticismo) e si accontenta di vederne le cause e l’andamento generale. Il politico, che è il secondo approccio, si produce invece in “facilonismi” e in visioni manichee, dove basta “(conoscere) l’etichetta e si può a priori dire con sicurezza quello che il vaso contiene”. Questa è la politica attiva, dei mestieranti, che non ha nulla a che vedere con la politica economica, che si occupa di studiare il complesso di istituzioni e ordinamenti che fanno funzionare un sistema politico. L’una è, chiaramente, antitesi dell’altra. Il terzo campo appartiene alle dottrine spirituali, “qui i soli, o pressoché i soli a parlare sono i cattolici”, dove si cerca di superare la contrapposizione tra l’uomo e il suo lavoro; la fatica che questo comporta agli occhi del lavoratore deve essere tradotta in una gioia, un mezzo per l’elevazione spirituale e il perfezionamento morale. Qui, a

32 G. Sapelli, “Organizzazione, lavoro e innovazione nell’Italia fra le due guerre”, Rosenberg & Sellier,

Torino 1978, p.350.

33

A. Rozzi, “Psicologi e operai. Soggettività e lavoro nell’industria italiana”, Feltrinelli, Milano 1975, p.30.

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sentire Gemelli, la parola del pontefice Pio XI funge da misura esemplare dell’apporto che la morale cattolica può dare alla trasformazione della società: “il Pontefice romano con quel coraggio soprannaturale che caratterizza la sua parola ha affrontato la questione sociale non mirando agli interessi di ciascuna delle due parti in conflitto (capitale e lavoro), ma ispirandosi alle norme del Vangelo, ai principi della morale cattolica”. La quarta strada è quella che investe l’aspetto scientifico del lavoro, cioè quella percorsa da tutte le dottrine (fisiologia, psicotecnica, organizzazione scientifica, ecc.) “lo scopo delle quali è di fornire alla tecnica del lavoro e alla organizzazione tecnica delle aziende le norme fondamentali del lavoro, che non solo non ledano l’integrità fisica e morale dell’uomo che lavora, ma permettano di cavare dal lavoro dell’uomo tutto il frutto che esso può dare”34. L’accelerazione che queste scienze hanno avuto è riconosciuta proprio in quei fattori che fin qui s’è cercato di fare emergere: l’introduzione di “nuovi mezzi per aumentare la produzione (come, ad esempio, il nastro trasportatore, il lavoro in serie)”, la velocizzazione dei ritmi impressi alle macchine (e, di conseguenza, al lavoratore), l’adozione “di incentivi economici per sollecitare il lavoratore (varie forme di cottimi)”35. Le scienze del lavoro, constatato che questi cambiamenti possono preludere ad effetti dannosi per la salute psico-fisica del lavoratore, vengono a supplire alla carenza di difese di quest’ultimo e trasferiscono le loro competenze e il loro campo d’analisi nel luogo di lavoro. Tutto ciò è facilitato “dai datori di lavoro intelligenti” che comprendono come il miglioramento delle condizioni vitali dei loro sottoposti non possa che portare vantaggi alla salute dell’azienda. La saldatura degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro si esplicita qui con tutta chiarezza, dietro la pretesa neutralità della maschera ideologica dello studioso impegnato sul terreno della tutela degli operai.

Le varie scienze del lavoro dunque cooperano nell’ottenere la più ampia “conoscenza dell’uomo che lavora, per adattare ciascun uomo al lavoro per il quale ha attitudine, per istruirlo, *…+ per far sì che l’uomo venga posto in condizioni di

34

Cfr. A. Gemelli, “L’operaio nell’industria moderna. Le scienze del lavoro nel quadro della concezione

sociale cristiana”, Vita e Pensiero, Milano 1946, Introduzione pp. 4-15.

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