• Non ci sono risultati.

“A chi voglia, non solo ripensare al rapporto fra sviluppo tecnologico e neo- capitalismo ma altresì delineare alcune ipotesi di lavoro che consentano una interpretazione prospettica di tale rapporto, il confronto al riguardo con le tesi dei ‘Quaderni Rossi’, e in particolare di Raniero Panzieri, rimane un momento obbligato ed insieme fondamentale”339.

Il brano sopra riportato di Michele La Rosa efficacemente condensa, secondo il giudizio di chi scrive, l’importanza centrale della figura di Panzieri, e della rivista a cui il suo nome viene più strettamente collegato, nella costellazione

337 Ibid., pp. 24-25. 338 F. Barbano, op.cit., p.351. 339 M. La Rosa, op.cit., p. 76.

variegata di autori, teorie e istituzioni che provarono in quegli anni a confrontarsi con la dimensione del lavoro. Il percorso di Panzieri e compagni, negli anni in cui la rivista fu edita (tra il 1962 e il 1966), pare portare ad un nuovo stadio di maturazione, al limitare tra due periodi, la riflessione sul lavoro, il capitalismo e la tecnologia così come si era sviluppata negli anni cinquanta, problematizzandola e criticandola; un percorso che prova, in alcune sue concettualizzazioni, a tradurre in “nuova” pratica alcune delle precedenti e innovative teorizzazioni sul lavoro, e che è però ancora completamente immerso nel clima di diffuso industrialismo, innovazione tecnologico-organizzativa e aggiornamento teorico che aveva costretto molti dei predecessori alla riconsiderazione critica delle categorie d’analisi.

Centrale nel percorso dei “Quaderni Rossi”, è la figura di Raniero Panzieri. Nato nel 1921 a Roma, Panzieri fece una precoce carriera nel PSI, di cui fu dirigente in Sicilia verso la fine degli anni Quaranta. La sua formazione marxista, inquieta verso l’ortodossia imperante, lo portò su posizioni critiche e diffidenti nei confronti della via staliniana, e del dogmatismo genuflesso degli intellettuali organici alle direttive del partito340. “L’interesse per i problemi della politica culturale, l’individuazione del terreno culturale come questione centrale per il movimento operaio sono un elemento costante in tutto il lavoro di Panzieri, fin dall’inizio”341. Non a caso la maggior parte del suo impegno umano si spendeva, in un intrecciarsi di attività teorica e politica, nell’attività di redattore: sia per riviste, come “Socialismo”, “Mondo Operaio” e ovviamente, “Quaderni Rossi”, sia per una breve esperienza all’Einaudi, destinata a terminare con un bruciante fallimento nel licenziamento.

Politicamente vicino a Rodolfo Morandi, ne considerava negativamente il riavvicinarsi alle idee staliniste durante l’offensiva anticomunista democristiana, ne era stato fortemente influenzato circa le idee contrarie allo statalismo, e le rivoluzioni dall’alto, e per la costante apertura teorica alle forme di governo e partecipazione popolari, basate su organismi democratici costruiti dalle masse.

340

Cfr. V. Rieser, “L’alternativa di Raniero Panzieri”, Primo Maggio, 18, 1982.

341

“Nella visione di Panzieri il rafforzamento teorico del marxismo andava di pari passo con il rinnovamento politico del movimento operaio, ed era del tutto naturale che su questo dovesse prendere come punto di riferimento iniziale i temi di Morandi e della democrazia diretta e dell’unità dei comunisti e dei socialisti”342. Dal 1957, e per 18 mesi, fu condirettore della rivista di partito “Mondo Operaio”. Non entreremo qui nello specifico delle tematiche sollevate e portare al centro del dibattito da Panzieri negli anni di codirezione, ma sarà sufficiente rilevare come “l’aspetto più notevole del nuovo corso di ‘Mondo Operaio’, comunque era l’insistenza di Panzieri sul fatto che l’arbitro finale delle forme e degli obiettivi della lotta contro il capitalismo dovesse essere la classe operaia stessa”343.

Nel 1959 la situazione al vertice della rivista mutò, complice anche la rincorsa alla supremazia completata, all’interno del Psi, dall’ala facente capo a Nenni, mentre “l’obiettivo di un governo di coalizione Psi-Dc faceva un passo avanti”344. Ranieri veniva rimosso dalla direzione di “Mondo Operaio”, e col tempo si andò distaccando progressivamente dal partito; la sua disillusione circa il nuovo corso intrapreso dai socialisti lo portò a cercare lavoro, trovandolo, come redattore alla Einaudi, e rinchiudendosi in un silenzio (quasi totale) pubblico fino al 1961, anno della pubblicazione del primo numero di “Quaderni Rossi”.

“Il prezzo politico della sua indipendenza è altissimo: lontano dai giochi romani di potere e fuori dall’apparato viene totalmente emarginato dai ‘morandiani’ della sinistra burocratica. *…+ Egli è portatore di un ripensamento strategico di uscita a sinistra dall’antitesi morta di socialdemocrazia e comunismo, propone una posizione di verità critica nei confronti del socialismo reale, intende rimettere in discussione il partito guida burocratico”345.

342

S. Wright, “L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo”, Edizioni Alegre, Roma 2002, p.35.

343

Ibid., p.36.

344 Ibid., p.38. 345345

P. Ferraris, “Raniero Panzieri: una critica da sinistra dello stalinismo per un socialismo della

democrazia diretta” in P.P. Poggio (a cura di), “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico”, JacaBook, Milano 2010.

Panzieri ruppe il suo silenzio fondando nel 1961 i “Quaderni Rossi”, rivista che fu destinata, nella sua travagliata esistenza, ad imporsi con attenzione ai commentatori dell’epoca, e a lasciare una traccia significativa nelle cultura di sinistra a venire. “Esaurita la prima tiratura nel giro di qualche settimana, Quaderni Rossi suscitò l’interesse di politici di sinistra, funzionari sindacali, attivisti di fabbrica e militanti di base di partito. *…+ Comunque, fin dall’inizio la rivista fu afflitta da una serie di crisi. Primi a defezionare furono i sindacalisti di rilievo aderenti al gruppo. Circa un anno dopo, furono seguiti dal circolo costituito intorno a Tronti. Poi nel 1964, proprio quando una qualche stabilizzazione interna sembrava finalmente raggiunta, la rivista subì il colpo inaspettato della morte di Panzieri, da cui non si riebbe mai completamente”346.

Non sono però qui oggetto di interesse le vicende dei vari gruppi che attraversarono la rivista, né l’incapacità di questa di farsi organo politico e culturale autonomo ma coeso al suo interno. I “Quaderni Rossi”, nei sei numeri pubblicati fino al 1966, erano da considerarsi “piuttosto uno strumento di lavoro politico collettivo, a carattere prevalentemente monografico”347. La morte di Panzieri risultò fatale alla prosecuzione di questi intenti, ma nel periodo di attività i “Quaderni” condensarono una numerosa serie di proposte, riassumibili in qualche modo nelle questioni poste come “manifesto” in calce al quarto numero: “(1)Anzitutto, attraverso una analisi che si serve anche di strumenti sociologici, si è messa in rilievo la capacità di lotta operaia. *…+ (2) Contemporaneamente si è insistito sulla capacità di programmazione del capitalismo e si è vista nella progressiva realizzazione di tale programmazione la linea di tendenza dello sviluppo capitalistico stesso. (3) Nella programmazione si è visto soprattutto uno strumento con cui il capitalismo può controllare ed integrare quelle stesse lotte operaie, di cui si è messa in rilievo la forza, se non vengono dirette da una adeguata linea politica. (4) Su questa base si è criticata l’inadeguatezza della linea politica del movimento operaio che, facendo proprio l’obiettivo della programmazione capitalistica, *…+

346

S. Wright, op.cit., p.55.

347

finisce per orientare le lotte proprio nella direzione del loro assorbimento e controllo da parte del sistema”348.

La chiave di lettura del neocapitalismo in cui si collocava in quel momento lo stato dell’economia italiana era una delle premesse da cui partiva il gruppo dei “Quaderni”, oltre che uno dei maggiori contributi teorici che arrivavano dal fronte del sindacalismo consapevole torinese349. Questo tipo di analisi rifaceva al secondo punto dell’elenco sopra stilato, e che rendeva patrimonio del gruppo l’elaborazione sulla vitalità del capitalismo italiano uscito dal dopoguerra, così come del suo legame con la programmazione tecnologica e organizzativa, che tanto aveva impegnato il sindacato negli anni cinquanta.

Panzieri interveniva in questo primo numero con un saggio intitolato “Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo”350, e che si colloca in una linea, al contempo, di continuità e di rottura con le acquisizioni del sindacalismo sul rapporto uomo-tecnologia-modo di produzione, o più specificamente operaio- macchina-capitalismo. Ranzieri riconosceva l’azione di svecchiamento delle categorie portata avanti con fatica dal sindacato nel decennio precedente, nella battaglia “contro le vecchie cristallizzazioni ideologiche nell’azione sindacale”, e nel contemporaneo “processo rinnovamento del sindacato di classe in questi anni (che) si sviluppa innanzi tutto intorno al riconoscimento delle ‘nuove realtà’ del capitalismo contemporaneo”351. Ma queste prese di coscienza, che andavano nella giusta direzione, erano inficiate da una serie di posizioni circa il progresso tecnologico che ne compromettevano del tutto la valenza euristica.

348

Cfr. Quaderni Rossi, 4, 1964, pp. 324-326.

349 Il primo numero dei “Quaderni” si apriva, infatti, con un articolo di Foa intitolato, come del resto

l’intero numero monografico, “Lotte operaio nello sviluppo capitalistico”. Cfr. Quaderni Rossi, 1, 1961, pp. 1-17.

350 Successivamente questo saggio fu ripreso, insieme ad altri di interesse organico, in una

pubblicazione di un decennio successivo all’esperienza dei “quaderni” da parte dell’Einaudi, con una lunga introduzione di Sandro Mancini, sulla vicenda biografica e intellettuale di Panzieri. Sarà a questo volume, e non agli articoli pubblicati sui quaderni, che si farà riferimento per le citazioni dei saggi principali di Panzieri. Cfr. R. Panzieri, “Lotte operaie nello sviluppo capitalistico”, Einaudi, Torino 1976.

351

“La razionalizzazione, con la sua parcellizzazione estrema del lavoro, il suo ‘svuotamento’ del lavoro operaio, è considerata come una fase di passaggio, ‘dolorosa’ ma necessaria e transitoria, allo stadio che ‘ricompone in senso unitario i lavori parcellari’”352. L’intellettuale preso come esemplificativo di questo atteggiamento mistificatorio, è Silvio Leonardi, che abbiamo visto essere impegnato in prima linea per una ricomposizione, critica e pratica, della rottura consumatasi tra macchinari e svolta tecnologica da un lato, classe operaia e sindacalismo di classe dall’altro. Le considerazioni positive sulla Misurazione dei Tempi, che riavvicinerebbero operaio e tecnico, o sulla collaborazione tra salariati e dirigenza, su base volontaria e non coercitiva, conducevano Leonardi sulla strada in un’accettazione “oggettivista” dello sviluppo capitalistico che la tecnologia comporta: “la sostanza dei processi di integrazione viene accettata, riconoscendo in essi una intrinseca necessità, che scaturirebbe fatalmente dal carattere della produzione moderna. Semplicemente, viene richiamata l’esigenza di correggere alcune distorsioni che l’uso capitalistico introdurrebbe in questi procedimenti”353.

Le storture individuate non andavano però ad intaccare minimamente la questione del potere soggiacente l’innovazione tecnologica, quella che da ultimo stabiliva gli equilibri e la direzione che quel rinnovamento doveva prendere. “Non si sospetta neppure che il capitalismo possa servirsi delle nuove basi tecniche offerte dal passaggio dagli stadi precedenti a quello di meccanizzazione spinta (e all’automazione), per perpetuare e consolidare la struttura autoritaria dell’organizzazione della fabbrica; infatti, ci si rappresenta tutto il processo dell’industrializzazione come dominato dalla fatalità tecnologica che conduce alla liberazione ‘dell’uomo dalle limitazioni impostegli dall’ambiente e dalle possibilità fisiche’”354.

In questa situazione, l’unica possibilità di “rovesciamento del sistema” non si dava di certo attraverso un’integrazione dei lavoratori al suo interno, ma

352 Ivi. 353 Ibid., p.9. 354 Ibid., p.10.

insistendo sulle “possibilità di rovesciamento del sistema” che si sviluppavano in questo processo, favorendo l’emergere dell’ ”insubordinazione operaia” di fronte “all’ossatura oggettiva”. “Rispetto alla razionalità tecnologica, il rapporto ad essa dell’azione rivoluzionaria è di ‘comprenderla’, ma non per riconoscerla ed esaltarla, bensì per sottometterla ad un nuovo uso: all’uso socialista delle macchine”355. Per questo la linea politica rivoluzionaria suggerita era quella della formula del “controllo operaio”, seppure intesa non come un ritorno ai Consigli di Gestione, dove l’esigenza di controllo “veniva subordinata – fino all’annullamento – all’elemento collaborazionistico legato alle ideologie della ricostruzione nazionale e a una impostazione strumentale del movimento reale rispetto al piano istituzionale- elettorale”356.

Questa linea d’interpretazione e proposta politica, come d’abitudine intrecciate nel discorso di Panzieri, era un deciso tentativo di demistificazione della razionalità tecnologica all’interno del processo produttivo, un contributo a smettere di immaginare i prodotti della tecnologia come slegati o esogeni al piano sociale, ed invece ricondurli alla dialettica che intercorre tra essi e i gruppi sociali dominanti.

In questo, il sociologo Michele La Rosa, vede uno degli elementi caratterizzanti l’esperienza dei “Quaderni Rossi”: “il superamento innanzitutto di una visione ideologica della classe operaia, (che) significa ripresa delle possibilità reali di mutamento della logica capitalistica sulla base di un’analisi si sviluppo storico delle forze produttive, delle loro ambiguità e contraddizioni, fino ad allora assunte prevalentemente come dato”357.

Indicazioni rilevanti, per la tesi di questo capitolo circa l’intreccio di contributi specifici accademici ed extra-accademici nello sviluppo della sociologia del lavoro, vengono dalla considerazione che i redattori dei “Quaderni” avevano dell’uso dell’inchiesta e della sociologia per mettere a fuoco la questione del lavoro. Sempre nella scheda in chiusura del quarto numero, si riconosce come “il

355 Ibid., p.12. 356 Ibid., p. 23. 357 M. La Rosa, op.cit., p.83.

marxismo resta lo strumento più potente attualmente disponibile” sul piano metodologico, ma che dal suo corpo andavano raschiate via le incrostazioni di dogmatismo staliniano; in riferimento alla sociologia, valeva dunque la possibilità, che esso donava, di “cogliere i risultati scientifici distinguendoli dagli aspetti ideologici borghesi, a cui, talvolta ma non sempre, sono connessi; un lavoro politico anticapitalistico non deve avere timore di utilizzare, in tal modo , i risultati della scienza borghese”358.

Ricerca empirica ed elaborazione teorica dovevano trovare un nuovo piano d’incontro, riproporre le possibilità d’indagine e comprensione della realtà che l’inchiesta poteva offrire all’elaborazione, per far sì che essa non giacesse inerte ed oziosa ad osservare i cambiamenti senza comprenderli.

Nel quinto numero si presentavano i risultati di un’indagine alla Fiat, compiuta secondo i primi rudimentali criteri di conricerca, un metodo che almeno nelle intenzioni proponeva una corrispondenza paritetica tra soggetto ed oggetto dell’indagine, e che non portasse con sé tutte le disfunzioni borghesi di un approccio distaccato da parte dello scienziato. Si criticava su quel numero, da parte di Maria Coletti, l’inchiesta condotta da Bonazzi359 negli stabilimenti Fiat: si paventavano infatti i rischi di “un’inchiesta esclusivamente sociologica, (che) delega necessariamente l’azione politica ad altri, da cui saranno utilizzati i risultati; tralascia cioè l’occasione di costituire essa stessa, contemporaneamente alla verifica della validità delle ipotesi di cui si sostanzia, intervento politico”360. Anche in questo caso, seppur in un diverso contesto e per inchiostro di un’altra penna, si metteva in guardia dal rischio di considerare neutrale un agente impiegato nella conoscenza del lavoro, in questo caso il sociologo col suo bagaglio scientifico, per trovarsi poi a svolgere un ruolo funzionale alla perpetuazione del capitale.

358 Quaderni Rossi, 4, 1964, pp. 324-326. 359

E che è stata, brevemente, presa in considerazione nel paragrafo precedente.

360

Seppure contornato da queste precisazioni, il richiamo alla metodologia e agli strumenti della “scienza non più inferma” era chiaro anche in altri redattori. Gli autori dell’inchiesta alla Fiat, giustificavano il loro ricorso al discorso sociologico proprio per colmare il “distacco delle organizzazioni ufficiali dalla condizione operaia”, che ormai era rappresentata tra mito e utilitarismo politico. “Vi era l’esigenza di affrontare la situazione Fiat liberi dalle interpretazioni politico- sociologiche precostituire che il movimento operaio aveva prevalentemente dato in quegli anni”361.

Lo stesso Panzieri, in un intervento pubblicato postumo di grande spessore metodologico, riconduceva l’uso dell’inchiesta e del metodo empirico alla più coerente, e corretta, lettura marxiana. “Il marxismo – quello della maturità di Marx – nasce come sociologia; il Capitale, in quanto critica dell’economia politica, che cosa è se non un abbozzo di sociologia?”362 . La sociologia non si tramutava dunque soltanto in uno strumento dell’iniziativa politica, in questo intervento di Panzieri, ma era fatta risalire al nocciolo duro dell’impresa marxiana di analisi della società capitalista. Il Marx della maturità comprendeva, nella sua opera, la necessità di slegarsi dall’adesione a credenza metafisiche, per rivolgere la sua attenzione “ad una specifica realtà, che è quella capitalistica”.

“Io credo sia facile sostenere che una visione della sociologia come scienza politica è un aspetto fondamentale del marxismo; se si deve dare una definizione generale del marxismo direi che è proprio questa: una sociologia concepita come scienza politica, come scienza della rivoluzione. A questa scienza viene tolto ogni significato mistico ed essa viene ricondotta quindi all’osservazione rigorosa, all’analisi scientifica”363.

Gli sviluppi successi a Marx della disciplina sociologica hanno preso poi delle direzioni particolari, con “caratteri di analisi scientifica che sopravanzavano il marxismo “. Questa non era però una buona ragione per abbandonare la ricerca

361

D. Palma, V. Riesere, E. Salvadori, “L’inchiesta alla Fiat nel 1960-61”, Quaderni Rossi, 5, 1964.

362

R. Panzieri, op.cit, p.88.

363

sociologica. Soltanto essa doveva essere messa a servizio della classe, osservandone i limiti e criticandone usi distorti e manipolazioni. “Io direi che il metodo dell’inchiesta da questo punto di vista è un riferimento politico permanente per noi; *…+ esso significa il rifiuto di trarre dall’analisi del livello del capitale l’analisi del livello della classe operaia”364.

Un discorso sul metodo, e sulla scientificità dell’analisi sociologica (forse fin troppo condizionato da un impianto positivista), restano però gli apporti principali della riflessione nata nei “Quaderni”. “Il metodo empirico diviene così una mediazione necessaria per comprendere il grado di antagonismo della classe operaia. Ovviamente si richiede una scelta critica degli strumenti che non possono essere assunti e utilizzati con quella logica microsociologica propria numerose teorizzazioni”365.

Quel che ci sembra emergere, nell’elaborazione di “Quaderni Rossi” e di Panzieri, non è (soltanto) l’anticipazione della future tematiche che caratterizzeranno i cicli di lotta degli anni sessanta e settanta, quanto piuttosto la riconsiderazione, da una postazione cronologicamente più avanzata, e retrospettivamente considerabile come di frontiera, del nesso critico tra elaborazione intellettuale, strumenti scientifici a sua disposizione e realtà. I tentativi, imperfetti e fecondi, condotti da questo gruppo, li collocano pertanto nel discorso ampio che cerca di tenere insieme la verifica empirica del lavoro concreto e gli strumenti d’indagine teorica a disposizione dell’osservatore, e che fa della tensione dialettica tra questi due poli la ragione di un continuo aggiornamento dell’indagine. 364 Ibid., p. 92. 365 M. La Rosa, op.cit., p. 89.

CONCLUSIONE

La variegata sequenza di opinioni e interpretazioni riportate nel corso di questo lavoro, nella loro irriducibile differenza, presentano al fondo due, particolari somiglianze. Sono colte cioè, in certi momenti della loro storia, come posizioni minoritarie nell’atto (compiuto o meno) della loro affermazione nei rispettivi campi disciplinari.

Non essendo la maggior parte di esse dei modelli (ancora) vincenti, attraverso la loro marginalità si sforzavano di compiere un duplice lavoro sulla realtà che si trovavano di fronte: da un lato comprenderla, per svelarne i limiti e le possibilità, dall’altro agire su di essa, per imprimere una nuova direzione al percorso.

E’ chiaro anche, come le conseguenze dell’affermazione del taylorismo, nella sua commistione di rivoluzione tecnica e organizzativa, non abbiano avuto effetti paragonabili, nemmeno lontanamente, a quelli dell’affermazione della sociologia del lavoro come materia di ricerca nell’accademia, o della più incerta, ma pur tuttavia innegabile, ripresa di certi principi analitici e di azione, desunti dai “Quaderni Rossi” e dal nuovo sindacalismo, nei cicli di lotte degli anni sessanta- settanta. Anzi, si può ben dire che la quasi totalità di queste riflessioni abbia avuto luogo a causa del taylorismo-fordismo, per l’essere stata immersa e concepita all’interno di una società che pareva del tutto pervasa dalla centralità della fabbrica- società.

Rimanendo consapevoli dell’esistenza di altri filoni che allargavano lo sguardo oltre la questione della fabbrica, sono stati qui privilegiati gli apporti che, a vario titolo, hanno fatto di questa il punto di snodo dal quale partire per ogni altra considerazione sulla società e sull’uomo lavoratore. Questa scelta è dettata dalla volontà di presentare, piuttosto che mascherare, un limite, per certi versi riconosciuto, che molti autori non travalicano, o non vogliono travalicare, nei loro ragionamenti.

Ma ancora prima di questa centralità industriale, e veniamo qui alla seconda somiglianza, tutte quante erano impregnate della centralità del fenomeno

lavoro. Al di là delle tensioni mistico-morali di Taylor, o del sogno della fabbrica

come centro della società occidentale, si è cercato di restituire come la capacità di